Perché non sono diventato post razionalista

di Francesco Mancini

Premessa.

Le riflessioni che seguono sono state presentate al Convegno “il cognitivismo post razionalista di Vittorio F. Guidano”, Milano, 20-21 marzo 2009, su invito e proposta della Prof. Valeria Ugazio, direttrice della Scuola di Psicoterapia Sistemica EIST e promotrice del Convegno stesso.

Alcune convergenze

Come suggerito dal titolo svolgerò delle considerazioni critiche nei confronti del post razionalismo, tuttavia non posso non premettere alcune convergenze con il post razionalismo ma soprattutto con le posizioni di Vittorio Guidano precedenti alla svolta post razionalista. In particolare mi preme sottolineare tre punti:

  • Il sintomo è riportato alla persona e alla dinamica complessiva della sua esistenza e non considerato come un fenomeno isolato e svincolato dal resto. In questo vi è, di fatto, una tendenziale differenza dalla la terapia cognitiva standard (TCS), dove il sintomo appare come un fenomeno sostanzialmente poco inserito nell’esistenza della persona e che, per essere compreso, non necessita di essere inquadrato nelle tematiche fondamentali dell’identità personale del paziente, delle sue relazioni più significative, dei suoi temi di vita, della sua esistenza e della sua storia. Ad esempio, il disturbo di panico, alla cui spiegazione comprensione la TCS ha fornito, peraltro, un enorme contributo sperimentale e terapeutico, sembra essere considerato principalmente per il suo profilo interno, mentre, almeno nella mia opinione, resta largamente sottovalutato il profilo esterno, cioè il senso che l’attacco di panico ha nella vita e nell’identità del paziente.
  • Il tentativo di fornire modelli di funzionamento per i diversi quadri psicopatologici. Contrariamente a quanto accade nella maggior parte di altri approcci psicoterapeutici, sia nel post razionalismo sia nella TCS, e ancor più nel Cognitivismo Clinico, vi è un’enorme attenzione allo studio dei meccanismi psicopatologici delle diverse sindromi e non solo alla teoria e alla tecnica dell’intervento. Nell’ambito del Cognitivismo Clinico tale tentativo è realizzato tramite la cosiddetta Experimental Psychopathology, e, dunque, su solide basi scientifiche. Infatti, esiste una vastissima produzione scientifica sui meccanismi di genesi e di mantenimento dei disturbi psicopatologici. E ciò appare assai opportuno: chi, infatti, andrebbe a farsi curare una malattia da un medico che conoscesse solo i farmaci e le loro indicazioni ma non sapesse nulla dell’anatomia patologica e della fisiopatologia della malattia in questione?  Di fatto ciò accade in medicina, poiché non di tutte le malattie è noto il funzionamento, ma certamente tale stato di cose è vissuto come negativo e s’investe per superarlo.
  • Il tentativo di fondare le conoscenze i modelli della psicopatologia sulla psicologia del normale. Per quanto possa sembrare strano, almeno ai miei occhi, si osserva che tra gli psicoterapeuti dei più diversi orientamenti vi è una sostanziale indifferenza per la psicologia del normale e, anzi, è diffusa l’idea che si possa e debba comprendere il normale a partire dal patologico. Ora, è indubbio che la conoscenza della sofferenza patologica possa avvantaggiare la comprensione di come funziona la mente ma è altrettanto indubbio che per comprendere e spiegare la psicopatologia sia indispensabile il ricorso alle conoscenze di psicologia al momento disponibili. Solo la conoscenza di sistematiche illusioni positive nei normali ha permesso, infatti, di mettere a fuoco il cosiddetto realismo depressivo (Alloy, Taylor). Solo la conoscenza del ruolo normale delle euristiche consente il superamento dell’idea che la patologia possa essere ricondotta ad errori di pensiero (Mancini e Gangemi, 2002).

Le  critiche al post razionalismo.

1 – Theory of Mind vs. prospettiva ontologica posta razionalista

Provate a pensare ad un ragazzo che sta per sostenere un esame e palesemente è in ansia. Provate ora a fornire una spiegazione del perché è in ansia. Molto probabilmente la maggior parte di voi dirà che è in ansia perché pensa che potrà essere bocciato e perché valuta l’eventuale bocciatura come un danno grave rispetto al suo scopo di laurearsi, di far contenti i genitori, di aver una buona opinione di sé, di evitare una brutta figura davanti ai compagni, di veder premiati i propri sforzi, di non dover riprendere in mano gli stessi libri.

È assai plausibile che questa spiegazione colga effettivamente lo stato mentale del ragazzo e consenta di comprenderne l’ansia. Per riuscire a fornire questa spiegazione non è necessario aver seguito un corso di psicologia o di aver il diploma di psicoterapeuta. È sufficiente non avere una compromissione grave della capacità di attribuire stati intenzionali, capacità ben nota con il nome di Theory of Mind. Quella capacità che sappiamo essere compromessa nelle persone affette da autismo.

La Theory of Mind è alla base delle nostre competenze psicologiche e utilizza, principalmente, due concetti basici, il concetto di scopo e il concetto di credenza. Tutti gli esseri umani sono psicologi competenti grazie alla capacità di attribuire agli altri scopi e credenze, cioè intenzioni, e in questo modo sono capaci di prevedere, spiegare e comprendere reazioni emotive, scelte e condotte degli altri oltre che le proprie.

La psicopatologia però pone alla nostra Theory of Mind una sfida importante. Ne costituisce una sorta di terra di confine: quali scopi e quali credenze, infatti, possono rendere ragione di una condotta apparentemente assurda come ad esempio i rituali ossessivi, la depressione, i deliri?

Molti ritengono che la Theory of Mind semplicemente non sia applicabile alla psicopatologia, che invece andrebbe spiegata ricorrendo ad alterazioni patologiche del SNC.

Un’imponente quantità di ricerche, che rientrano nella cosiddetta Experimental Psychopathology, al contrario sembra dimostrare che sia possibile ed utile far avanzare la Theory of Mind nei territori della psicopatologia. Ad esempio, i risultati di molte ricerche sperimentali ci suggeriscono con discreta chiarezza ed affidabilità gli scopi e le credenze che sono alla base dell’attività ossessiva

Molti altri, nel dominio dei quasi 700 diversi tipi di psicoterapia esistenti, danno per scontato che per rendere ragione della psicopatologia si debba abbandonare la psicologia credenze-desideri e affidarsi a prospettive diverse.

Il post razionalismo rientra fra queste, mentre la TCS ne costituisce una rara eccezione.

La prospettiva del post razionalismo è la seguente:

La realtà non è più considerata unica e oggettivamente data una volta per tutte, ma viene vista alla stregua di una rete di processi multidirezionali interconnessi tra loro e articolati in livelli multipli di interazione simultaneamente presenti ma irriducibili l’uno all’altra

L’ordine e le regolarità con cui siamo abituati a trattare le cose e noi stessi non è qualcosa di esterno e oggettivamente dato ma piuttosto il prodotto emergente del nostro continuo interagire con noi stessi e col mondo. In altri termini, il comprendere è a tal punto inseparabile dall’esperire umano che esistere significa alla lettera conoscere. (Guidano, 1992)

2 – Dalla prospettiva ontologica alla psicopatologia. Un passaggio non necessario e nemmeno legittimo.

Colpisce l’ambizione di definire un principio ontologico fondamentale da cui poter dedurre leggi generali di funzionamento mentale normale e patologico, modelli di sindromi specifiche e indicazioni per la terapia (Semerari, 2002). Colpisce soprattutto se confrontato con lo stile della scienza che procede per piccoli passi tentando di risolvere anomalie nelle spiegazioni disponibili al momento (Popper, 1959). La fisica, come scienza, nasce dallo sforzo di risolvere problemi che la fisica del senso comune non riusciva a risolvere, non dai tentativi metafisici di definire la natura ultima della realtà. Analogamente le conoscenze di psicologia e di psicologia clinica, cioè del funzionamento mentale normale e patologico, dovrebbero svilupparsi e arricchirsi di nuovi concetti soltanto dove i concetti della Theory of Mind, cioè il concetto di scopo e credenza, falliscono. È inutile e a volte confondente coniare nuovi concetti che, di fatto, servono solo a soppiantare e ridefinire concetti esplicativi utili e ben funzionanti.

La prospettiva ontologica è fondata sull’idea che non sia possibile parlare di un’unica verità oggettiva che s’impone e organizza la mente e, quindi, studiare la mente significa studiare come la mente produce l’ordine e la regolarità con cui costruisce quella che le appare essere la realtà stessa.

Che studiare la mente significhi ciò, non deriva dall’aver sposato un assunto epistemologico.

Osserviamo infatti che la psicologia della gestalt, con la ricerca sulle illusioni percettive, prima, e la psicologia cognitiva, poi, ad esempio con lo studio delle euristiche, hanno affrontato proprio la questione di come la mente produce le sue rappresentazioni della realtà, e certamente i gestaltisti e i cognitivisti non partivano da un presupposto epistemologico analogo a quello del post razionalismo, anzi non partivano da alcun assunto epistemologico, semmai avevano un obiettivo, che nel caso dei gestaltisti era conoscere le illusioni della mente umana al fine di poter distinguere meglio le rappresentazioni vere da quelle false.

Studiare come la mente produce ciò che gli appare l’ordine e la regolarità del mondo, dunque, non implica  e non presuppone alcuna presa di posizione in merito alla questione, del tutto epistemologica e non psicologica, se la mente ha o non ha buone ragioni per poter credere davvero alla verità dei suoi prodotti.

Semmai è il contrario, poiché le scoperte della psicologia possono avere implicazioni per l’epistemologia, come del resto è accaduto con Popper e la psicologia della gestalt. Infatti, una delle argomentazioni a favore del falsificazionismo e contro l’idea che la verità possa essere derivata dalla osservabilità diretta dei fenomeni, era proprio la non oggettività della percezione, come dimostrato dalla gestalt.

Come pure la scelta di studiare come si mantiene o si modifica la rappresentazione di se stessi non è vincolata dalla prospettiva post razionalista, due esempi eclatanti sono William James e Carl Rogers.

3 –  Veramente “Esistere significa, alla lettera, conoscere”?

Consideriamo ora il punto cruciale e conclusivo su cui converge la prospettiva ontologica:

“il comprendere è a tal punto inseparabile dall’esperire umano che esistere significa alla lettera conoscere.”

Colpisce la riduzione dell’esistenza umana a conoscenza. Ora, è vero che probabilmente per Guidano il senso dell’affermazione era negare che la conoscenza possa essere considerata solo un processo intellettuale e la sua preoccupazione era sottolineare il ruolo della conoscenza tacita, emotiva ed immediata contrapposta alla conoscenza consapevole. Resta però che dall’esistenza dell’essere umano, o meglio, dalle categorie necessarie per comprenderlo, siano stati eliminati concetti come scopo, desiderio, norma e valore. È a tal punto impossibile fare a meno di queste categorie basiche della nostra Theory of Mind e, dunque, della nostra capacità di comprendere gli altri, che poi, nelle descrizioni di pazienti e di sindromi, si fa sistematicamente ricorso a tali concetti, nonostante siano assenti dal modello post razionalista.

4 – La psicopatologia come discontinuità del senso di Sé

Si potrebbe pensare che quest’ultima critica sia ingenerosa perché riferita a un brano isolato dal contesto. Consideriamo quindi una formulazione sintetica del modello post razionalista che dobbiamo a Picardi e Mannino (2001) e che, a mia conoscenza, è la più lucida tra quelle disponibili:

“In questo modello, il Sé viene considerato come un processo continuamente in corso, e l’esperienza umana viene concepita come il prodotto emergente di un incessante processo di regolazione reciproca tra due livelli, quello della esperienza immediata e quello dell’attribuzione di significato alla esperienza stessa. Nell’ambito di questo processo, l’esperienza immediata viene attivamente riordinata, secondo un insieme di regole contraddistinte da una coerenza interna. Ogni individuo risulta dunque caratterizzato da una propria specifica coerenza, denominata “organizzazione di significato personale”, attraverso la quale effettua operazioni di distinzione e attribuzione di significato nell’ambito della esperienza immediata e riordina continuamente le esperienze passate e presenti in modo tale che ne risulti un senso di continuità personale.”

La funzione della attività del Sé, dunque, è il mantenimento del senso di continuità personale.

La patologia, invece, si ha se la persona fallisce nel tentativo di mantenere il senso di continuità personale.

5 – Sé come processo e Sé come rappresentazione: due discontinuità possibili. Quale delle due è alla base della psicopatologia?

Il termine Sé, nell’uso che se ne fa nella psicologia, ha finito con l’assumere due significati molto diversi fra loro: il Sé come insieme di processi psicologici che regolano la vita psichica e il Sé inteso come rappresentazione di Sé (Hull e Lindzey, 1957).

Dalla formulazione di Picardi e Mannino sembra che il Sé sia considerato come processo: nella prima parte della formulazione il Sé viene considerato come un processo continuamente in corso, e l’esperienza umana viene concepita come il prodotto emergente di un incessante processo di regolazione reciproca tra due livelli, quello della esperienza immediata e quello dell’attribuzione di significato alla esperienza stessa.

Nella seconda parte della formulazione sembra che il Sé sia inteso come rappresentazione di Sé: Nell’ambito di questo processo, l’esperienza immediata viene attivamente riordinata, secondo un insieme di regole contraddistinte da una coerenza interna.

Non è del tutto chiaro se la discontinuità del senso di Sé possa derivare da un fallimento del processo di regolazione reciproca tra due livelli, quello della esperienza immediata e quello dell’attribuzione di significato alla esperienza stessa, come ad esempio sembra essere suggerito da Guidano quando, a proposito del fallimento della continuità sostiene che queste fasi sono caratterizzate, tra l’altro, “dalla esperienza di divisione tra i propri pensieri e le proprie emozioni” (Guidano 1996), o se invece possa derivare dal fallimento della rappresentazione di Sé nel mantenere la sua coerenza interna.

Nel primo caso è evidente che l’esperienza di divisione tra i propri pensieri e le proprie emozioni si può avere per motivi diversi dal fallimento della regolazione tra i due livelli qui indicati. Ad esempio, in qualunque cedimento a una tentazione, e più in generale in qualunque conflitto akratico, si sperimenta non tanto un’incapacità ad attribuire un significato alla propria esperienza immediata quanto piuttosto la divisione fra quello che si pensa giusto e i propri desideri, o fra un proprio scopo a lungo termine, ad esempio laurearsi, e uno scopo immediato, vedere la partita in TV. È vero che nei cedimenti alle tentazioni si perde la coerenza del Sé inteso come processo ma ciò non implica che, allora, necessariamente ne sia perturbata la rappresentazione consapevole di Sé. In Oscar Wilde, ad esempio, il cedimento alle tentazioni non perturbava affatto la continuità della sua rappresentazione di Sé, visto che affermava, di se stesso, di essere una persona in grado di resistere a tutto tranne che alle tentazioni. Semmai a perturbare la continuità della sua rappresentazione consapevole di se stesso sarebbe stato resistere alle tentazioni, non certo cedervi.

Nel secondo caso, innanzitutto, non si capisce come la rappresentazione di Sé possa fallire nel mantenimento della sua coerenza interna visto che è dotata di “potenti meccanismi di autoinganno e di selettività della attenzione”. Sia detto solo per inciso, ma notoriamente (vedi ad esempio il numero monografico di Sistemi Intelligenti del 1999) l’autoinganno è un meccanismo con implicazioni paradossali e molti dubitano della sua stessa possibilità, lascia quindi perplessi l’attribuzione di un ruolo esplicativo così importante ad un concetto così ambiguo.

Con buona pace della prospettiva ontologica post razionalista, tuttavia, le persone tengono conto dei no della realtà e di conseguenza si rendono conto di sbagliare, nel senso che si accorgono che i fenomeni possono non essere come loro pensavano. Pertanto, le proprie esperienze emotive, al pari di altri fenomeni, possono porre problemi di comprensione e spiegazione cioè mettere in discussione l’abituale e dominante rappresentazione di Sé e dunque lasciare la persona con la sensazione che quanto prova è inspiegabile o dimostra che non è la persona che ha sempre pensato di essere.

6 – Ma il problema è solo la discontinuità o è anche la compromissione di uno scopo?

Le persone tendono a valutare le proprie esperienze emotive in modo positivo o negativo e dunque possono considerare una specifica esperienza emotiva, ad esempio di paura, come qualcosa che è congruo con l’immagine di Sé, debole ed emotivo, ma incongruo con il come si vorrebbe essere, forte ed autonomo. Immaginiamo una persona che si è sempre rappresentato come persona debole, fragile e paurosa e che, come spesso accade, abbia lo scopo e il desiderio di liberarsi di tale debolezza per poter finalmente raggiungere libertà ed autonomia. Supponiamo che un giorno provi un’intensa ansia di cui non riesce a darsi spiegazione; ciò gli risulterà confermare l’immagine di sé come debole e fragile, dunque non dovrebbe creargli alcun problema di continuità del senso di sé, ma possiamo facilmente immaginare che sarà un problema per lui perché gli confermerà l’impossibilità, essendo così debole ed emotivo, di raggiungere la tanto desiderata autonomia. Quindi, il problema del paziente non nasce dall’incapacità di dare un significato all’emozione provata, ma dal fatto che provare tale emozione compromette il suo scopo di essere autonomo.

Immaginiamo una persona depressa, dunque con una rappresentazione di sé del tipo “io non amabile” ma con il desiderio di poter trovare qualcuno da amare e da cui essere riamato.

Si innamora ed è riamato, anche se teme in virtù dell’idea di sé, di dover essere prima o poi lasciato. Viene lasciato e si scompensa. Perché? La rappresentazione di sé qui è confermata. Ma ad essere delusa è probabilmente la speranza improvvisa di vedere disconfermata proprio quell’idea di sé come non amabile (cfr. il concetto di piano inconscio di Weiss e Sampson). Dunque lo scompenso sembra derivare dalla frustrazione di un desiderio, non dalla conferma/disconferma della continuità della rappresentazione di sé. Qui, infatti, il benessere della persona sembra essere addirittura inversamente proporzionale alla conferma dell’immagine di sé: più la disconfermo più sto bene.

Come dire che le esperienze emotive possono essere un problema per le persone non solo perché difficili da spiegare, difficili da ricondurre ad un’immagine abituale di sé e dunque capaci di minare la continuità del senso di sé, soprattutto perché capaci di compromettere i suoi scopi, e non solo quelli dell’autoimmagine, ma anche affettivi o etici, cioè di compromettere la possibilità di essere la persona che si desidera essere, ma anche di ottenere l’affetto che si desidera o di rispettare le norme etiche che si ritiene di avere il dovere di rispettare.

In terzo luogo non si vede come e perché la rappresentazione di sé non possa essere compromessa direttamente anche dagli atteggiamenti di altre persone o dai risultati delle proprie azioni: la rappresentazione che abbiamo di noi stessi è largamente dipendente dalle testimonianze degli altri, è costruita in rapporto con gli altri e dunque non può non risentire di quanto accade nelle nostre relazioni. E ciò a prescindere dalle emozioni che si provano. Se si è accusati dalla propria madre di essere poco attenti alle sue richieste, si può, per questo, e non per le emozioni che si provano, dover mettere in discussione l’immagine di sé come persona buona. Quindi non conta solo una conoscenza di sé introspettiva, ma pesa anche l’interfaccia tra conoscenza esplicita di sé e realtà interpersonale.

In sintesi, certamente non riuscire a dare un significato coerente con la rappresentazione abituale di sé può costituire un problema. Può costituire un problema anche dare un significato che è coerente con la rappresentazione di sé, ma negativo rispetto all’immagine ideale di sé (“sono il solito che si agita per un nonnulla, se continuo ad essere così non riuscirò mai a diventare una persona autonoma”)

7 – Rapporto emozioni e conoscenza, conoscenza tacita conoscenza esplicita, fase Io e fase Me.

Nel post razionalismo, sembra che l’apparato psichico sia sostanzialmente diviso in due: da una parte la conoscenza tacita, che è sostanzialmente emotiva e costituisce l’esperienza immediata, dall’altra la conoscenza esplicita, sostanzialmente cognitiva e riflessiva. La relazione fra le due parti non è chiarissima. Se ci si limita agli ultimi scritti, in particolare a Il Sé nel suo divenire (Guidano, 1992), sembra che la relazione sia di conoscenza, cioè la conoscenza esplicita corrisponde alla fase Me e la conoscenza tacita-emotiva alla fase Io.

In realtà la psicologia cognitiva ha illuminato la complessità delle relazioni fra emozioni e conoscenza e il risultato è che le emozioni interagiscono con i processi cognitivi in diversi modi. Non è certo questa la sede per illustrare il tema ma sono sufficienti alcune brevi osservazioni:

  • innanzitutto da una rassegna di studi sperimentali sugli effetti psicologici dei farmaci SSRI di Harmer (2008) emerge con chiarezza che le variazioni cognitive precedono le variazioni emotive. Ciò era ben noto già dai tempi della diatriba fra Lazarus e Zaionc, negli anni ’80, che si concluse chiarendo un equivoco. Se con il termine “cognitivo” si intendono solo i processi consapevoli deliberati, quelli che utilizzano la working memory, allora è vero che le emozioni non necessariamente presuppongono un qualche atto cognitivo, ma se con il termine “cognitivo” si intendono anche i processi cosiddetti “crude”, quelli che non necessitano della working memory e che sono quindi inconsci nel senso di Helmholtz, allora è vero che le emozioni presuppongono un atto cognitivo: l’appraisal.
  • mood congruity effect (Bower, 1980): l’ascolto di una musica triste implica un abbassamento del tono dell’umore e questo stato emotivo, a sua volta, implica una maggiore disponibilità di pensieri, immagini e fantasie tristi. La maggior disponibilità di siffatti contenuti mentali aumenta, per la ben nota euristica della disponibilità (Tversky e Kahneman, 1972), la probabilità attribuita ad eventi negativi, dunque modifica le rappresentazioni.
  • affect as information o ragionamento emozionale, si riassume con la frase “se mi sento in ansia allora vuol dire che c’è un pericolo”. Alcune persone, quelle con un’elevata ansia di tratto, come sono i pazienti con disturbi d’ansia, tendono ad inferire un pericolo a partire dal fatto che si sentono ansiosi, anche se l’ansia dipende da eventi che non hanno a che fare con la situazione attuale (Arntz et al., 1995). Un fenomeno analogo lo si riscontra in persone depresse, per le quali sembra valere la regola “se mi sento triste allora la perdita che ho subito è grave” (Buonanno et al., 2009). Similmente accade per il senso di colpa, dove le persone con colpa di tratto elevata sembrano utilizzare la regola “se mi sento in colpa allora vuol dire che sono colpevole” (Gangemi et al., 2007).
  • decision making, le emozioni modificano pesi e tempi delle decisioni. Ad esempio, il senso di colpa riduce le scelte rischiose ed aumenta quelle avverse al rischio, o viceversa, laddove ciò sia utile ad espiare o a evitare ulteriori colpe (Gangemi e Mancini, 2007).
  • le emozioni migliorano il ragionamento nel dominio dell’emozione stessa, riducendo gli errori logici (Blanchette e Richards, 2004; Johnson-Laird, Mancini e Gangemi, 2006) e ciò accade anche nel caso di emozioni patologiche (Johnson-Laird, Mancini e Gangemi, 2006; Blanchette, I. et al., 2007).

8 – Le quattro organizzazioni cognitive.

A favore della ben nota suddivisione vi è la seguente argomentazione:

il numero di possibili organizzazioni di significato personale di base dovrebbe essere relativamente piccolo, probabilmente fra 4 e 6 e, comunque, non oltre la decina. … infatti … il significato personale dipende dal pattern di organizzazione emotiva e psicofisiologica e il numero delle tonalità emotive fondamentali è relativamente piccolo” (pag. 35, V.F. Guidano, Il Sé nel suo divenire, 1992, Bollati Boringhieri, Torino).

Il punto critico è che le emozioni “map a diversity of cognitive evaluations into a few distinct signals, which concern significant entities in the life of the species. For example, anxiety, which focuses attention on potential threats” (Johnson-Laird, Mancini e Gangemi, 2006). Ma è evidente che contribuirà in modo diverso ad un’organizzazione di significato personale l’ansia che deriva da minacce di abbandono, piuttosto che di umiliazione, che di punizione, di maltrattamenti, di fallimento di uno specifico piano esistenziale di riscatto personale e familiare. Gli scopi e le rappresentazioni coinvolti negli appraisal che sono alla base dell’emozione sembrerebbero essere, quindi, i naturali e fondamentali ingredienti di qualunque organizzazione personale, ciò a cui ci si dovrebbe riferire per tracciare differenze e similitudini fra persone o fra tipi di personalità. Non le emozioni che sono uguali per interi insiemi di appraisal.

Picardi et al. (2004) hanno misurato la validità di un questionario dimostrando che effettivamente è possibile discriminare le persone sulla base delle caratteristiche delle quattro organizzazioni. Da ciò tuttavia non deriva che altre classificazione delle personalità siano meno valide. Ad esempio il PQB è un questionario che discrimina altrettanto bene ma in base ai tipi di personalità previsti dal DSM IV.

La psicopatologia offre molti più quadri dei quattro proposti. Non a caso gli stessi post razionalisti ricorrono sempre più spesso al concetto di organizzazione mista.

Le organizzazioni così come sono descritte, poi, non colgono la realtà clinica, e a riprova propongo alcune brevissime osservazioni che sono in contrasto con la descrizione fornita delle quattro organizzazioni.

Ad esempio circa la metà dei pazienti agorafobici non ha e non ha avuto il disturbo di ansia da separazione (Klein, 1980; Manicavasagar et al., 1999; Silove, et al, 1996).

L’organizzazione ossessiva non tiene conto del fatto che DOC e DOCP non si sovrappongono (Déttore, 2003), e attribuisce al DOC caratteristiche tipiche del DOCP, come ad esempio difficoltà nello sperimentare, accettare e tener in debito conto emozioni, sentimenti ed affetti, propri ed altrui, a vantaggio di un ricorso esasperato alla razionalità.

Non tutti i depressi oscillano fra depressione e rabbia, in molti casi il quadro clinico è dominato da anedonia, senso d’inutilità, e malinconica rassegnazione, come spesso accade nelle persone distimiche

I Disturbi del Comportamento Alimentare, in particolare la bulimia, sembrano essere la via finale comune di tipi di personalità molto diversi fra loro, dunque è difficile pensare che abbiano un’organizzazione di significato personale unitaria.

Concepire le psicosi come un possibile sviluppo di qualunque organizzazione trascura il dato fondamentale che dall’autismo, alla schizofrenia ai disturbi schizoidi e schizotipici si rintraccia uno specifico deficit di teoria della mente, che non si ritrova in altre patologie. Tra organizzazione di significato personale normale e nevrotica, da un lato, e psicotica, dall’altro, non vi è un continuum ma una differenza qualitativa, legata appunto a deficit della metacognizione.

9 – Esperienze precoci di attaccamento.

Contrariamente a quanto affermato nell’ambito del post razionalismo, numerose ricerche dimostrano che non vi è correlazione tra specifiche esperienze precoci di attaccamento e specifici disturbi psicopatologici. (per una vasta metanalisi vedi van Ijzendoorm, 1996). Vi è semmai una correlazione aspecifica. Ma si tratta pur sempre di correlazione, il che implica la possibilità che vi sia un terzo fattore, ad esempio un genitore problematico creerà problemi sul piano dell’accudimento, ma anche su quello della educazione morale ed anche del sostegno materiale e sociale. E questi altri piani possono essere quelli critici per la vulnerabilità psicopatologica, vedi ad esempio nel DOC (Mancini, 2005).

Ricondurre, infine, la psicopatologia dell’adulto a esperienze precoci di attaccamento significa trascurare il complesso delle influenze e delle loro interazioni che intervengono nel corso di anni di sviluppo. Ad esempio è ben noto che la presenza di disabilità cognitive e la crescita in ambienti socioculturali svantaggiati aumenta l’incidenza di psicopatologia.

10 – Critica alla critica che il post razionalismo rivolge alla terapia cognitiva standard (TCS).

L’impressione è che le critiche siano fondate su un equivoco, e cioè che la TCS sia derivata dal comportamentismo. Questo è falso. Sia Beck che Ellis erano psicoanalisti, ed entrambi fecero parte del movimento neofreudiano e in particolare Beck, fu fortemente influenzato dal costruttivismo di Kelly.

Pertanto, la TCS non identifica affatto pensiero e linguaggio, come invece accade nel comportamentismo skinneriano e nelle sue evoluzioni più recenti della Acceptance and Commitment Therapy, la cosiddetta terza ondata della psicoterapia cognitiva. Piuttosto la TCS ritiene, in opposizione alla psicoanalisi, che l’introspezione non sia vanificata dalla rimozione e che un’accurata indagine del dialogo interno possa mettere in luce i pensieri rilevanti del paziente, tra questi anche i determinanti cognitivi delle emozioni. L’ingenuità sta nel fatto che gli appraisal che determinano le emozioni basiche spesso sono inconsci in senso Helmholtziano e pertanto inaccessibili all’introspezione, come accade nel caso, ad esempio, di ansie che la persona non sa riferire a nulla.

La TCS è, in realtà, costruttivista nel senso che ritiene che la nostra esperienza non ci è imposta dai fatti ma dal significato che attribuiamo ai fatti e questi significati, a loro volta, non derivano in modo diretto e meccanico dalla realtà.

La TCS attribuisce la sofferenza e la patologia principalmente ad una discrasia tra l’individuo e la sua realtà esterna e prende poco in considerazione egodistonie e conflitti interni all’individuo. E questo è un indubbio limite che dipende però non da una posizione di derivazione comportamentista ma dalla reazione dei neofreudiani alla trascuratezza per le dinamiche interpersonali reali dei pazienti. Trascuratezza tipica della psicoanalisi ortodossa e che consegue al noto passaggio freudiano dalla teoria del trauma reale a quella del trauma immaginato, e dunque del conflitto intrapsichico.

In secondo luogo certamente l’idea che le credenze patogene siano tali perché false è ingenua e infondata, ma non per il principio epistemologico in base al quale di nulla si può dire se è vero o se è falso, ma per gli esperimenti che dimostrano il realismo depressivo e le illusioni ottimistiche nei non depressi (Taylor, 1989). Credenze illusorie possono essere compatibili o addirittura utili per un buon adattamento e credenze vere possono essere controproducenti. Ad esempio, un certo grado di illusioni positive alimenta gli sforzi che si fanno per raggiungere i propri obiettivi e dunque aumenta le probabilità di successo mentre una visione realistica può implicare rinuncia e dunque diminuire le probabilità di successo.

La grande debolezza della TCS, debolezza che l’accomuna però non solo alla psicologia cognitiva (Paglieri e Castelfranchi, 2008) ma anche al post razionalismo, è legata alla trascuratezza per il concetto di scopo. L’adattamento o meno alla realtà dipende dal successo piuttosto che dal fallimento dei propri scopi non dalla corrispondenza o meno delle nostre rappresentazioni alla realtà.

Una critica alla TCS è di sopravvalutare la razionalità come condizione per l’adattamento. Questa critica è giusta, non perché si trascura il ruolo delle emozioni ma perché i pazienti, schizofrenici compresi, compiono meno errori logici dei non pazienti (Owen, 2006). Nei pazienti con fobie, depressione e disturbo ossessivo (Johnson-Laird, Mancini e Gangemi, 2006) ciò probabilmente accade a causa delle emozioni che riducono (Blanchette. e Richards, 2004; Johnson Laird, Mancini e Gangemi, 2006) gli errori logici, probabilmente perché rendono più disponibili i modelli mentali necessari per una corretta rappresentazione delle premesse. La razionalità formale, cioè l’assenza di errori logici, contrariamente a quanto sostenuto dalla TCS non è garanzia di sanità mentale e nemmeno si può dire che gli errori logici possono contribuire alla genesi e al mantenimento della patologia. La ragion pratica è ben diversa dalla ragion pura. Razionalità pratica e razionalità formale sono ben distinte fra loro (Baron, 2000) e diversamente coinvolte nella psicopatologia (Mancini e Gangemi, 2002).

Alcune osservazioni conclusive.

A distanza di quasi venti anni dalla pubblicazione dell’ultimo libro di Guidano è possibile azzardare un bilancio del post razionalismo. A fronte dell’ambizione di rifondare la psicoterapia, in particolare quella cognitiva, non si può non osservare la scarsità di contributi, scientificamente fondati, utili per la comunità degli psicoterapeuti. Al confronto, ad esempio per quanto riguarda le emozioni, la psicologia cognitiva (Castelfranchi, 1988) ha realmente aumentato le conoscenze a vantaggio di tutti coloro che si occupano di pazienti, indipendentemente dalla scuola di appartenenza, e similmente, ad esempio, per quanto riguarda i meccanismi di genesi e mantenimento del DOC ci sono stati importanti avanzamenti fruibili, si noti bene, non solo dagli psicoterapeuti cognitivisti, ma da chiunque si occupi di pazienti ossessivi. Non altrettanto, almeno a mia conoscenza, è stato realizzato nell’ambito del post razionalismo. L’impressione, dall’esterno, è che la definizione di una prospettiva ontologica non implichi reali avanzamenti della conoscenza ma invece apra la strada a semplici riformulazioni di nozioni ben note e porti semmai ad uno sterile arroccamento che distingue coloro che hanno sposato la prospettiva ontologica post razionalista da coloro che invece non riuscirebbero a prendere le distanze da una presunta ontologia razionalista. La definizione di prospettive ontologiche sembra contribuire a stabilire steccati e barriere, piuttosto che aiutare un progresso generale della conoscenza.

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