di Lisa Lari
Nell’ultimo anno ho frequentato un Master di Psicoterapia Integrata ad Orientamento Interpersonale, corso che ho iniziato a ridosso del conseguimento della Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, presso la sede di Grosseto.
Con riferimento a questa esperienza, devo riconoscere che ho riscontrato alcune difficoltà nel tentativo di integrare le conoscenze precedentemente acquisite con quelle che stavo apprendendo durante il Master.
Per illustrare brevemente alcune caratteristiche di questo approccio, la Psicoterapia Interpersonale (IPT) 1) nasce come tecnica di intervento sulla depressione, 2) può essere definita come una tipologia di trattamento strutturato, supportivo, a breve termine, 3) si basa su un contratto, 4) si confronta con il “qui e ora”, 5) è limitata nel tempo (12-16 sedute effettuate a cadenza settimanale), 6) dà rilievo alle relazioni interpersonali attuali del paziente depresso pur riconoscendo il ruolo dei fattori genetici. L’IPT è “bifocale”, nel senso che mira alla riduzione della sintomatologia depressiva e affronta i problemi sociali e interpersonali associati all’insorgenza dei sintomi (Klerman et al., 1984).
Di questo approccio ho potuto apprezzare alcuni aspetti legati al trattamento della depressione. In particolare, la psicoterapia in esame prevede che, dalla prima seduta, si operi una rassegna dettagliata dei sintomi depressivi: in modo preciso, puntuale, attento e sistematico, vengono analizzate in termini di presenza, durata e gravità, tutte le alterazioni cognitive, neurovegetative, emotive e comportamentali proprie dell’umore depresso. Per la prevenzione e riduzione di possibili ricadute in senso depressivo, mi è sembrata utile ed efficace la psicoeducazione che viene effettuata dopo la rassegna dei sintomi, momento, questo, in cui si spiegano e si condividono con il paziente le informazioni sulla depressione attuale e sul decorso del disturbo.
Altro momento sicuramente interessante di questo approccio, è quello in cui il terapeuta stila l’ “inventario interpersonale”: per ognuno dei soggetti significativi si valuta in modo strutturato la modalità d’interazione con il paziente, le aspettative reciproche, gli aspetti soddisfacenti della relazione, la via che il paziente vorrebbe seguire per modificare la relazione.
Chiari e ben definiti sono, infine, gli obiettivi e le strategie del trattamento della depressione centrata sul lutto, inteso come dolore associato alla morte di una persona significativa per il paziente. In questo senso, l’IPT fornisce una serie di strumenti di intervento che potrebbero rivelarsi efficaci nell’approccio ad un’area problematica molto difficile da gestire.
Per quanto mi riguarda e partendo da un approccio di base diverso, non del tutto condivisibile è il momento in cui il terapeuta ad orientamento interpersonale va ad assegnare al paziente il “ruolo di malato”: più in particolare, dopo la revisione dei sintomi depressivi e la descrizione del trattamento, l’IPT prevede che si fornisca al paziente la diagnosi per poter ricevere, in modo compensatorio, ma limitato nel tempo, cure e attenzione, esplicitando al paziente che la depressione è una condizione in cui si è bisognosi di aiuto e non si hanno obblighi sociali. Il mio dubbio al riguardo concerne due aspetti: il primo risiede nella difficoltà per il terapeuta di spiegare e rendere chiaro al paziente che questa specifica condizione (di ammalato) non significa adottare dei comportamenti passivi, il secondo aspetto riguarda proprio quel “limitato nel tempo”. Cosa succede se il paziente rimane troppo a lungo con un atteggiamento, con un “approccio al mondo” passivo? Non vi è poi il rischio in questo modo che il comportamento passivo finisca per corroborarsi, trovando, in modo automatico e magari anche all’interno del dominio relazionale, dei rinforzi (per così dire legittimati dal terapeuta)? E come si coniuga questo aspetto con il focus dell’IPT che sarebbe invece quello di studiare ed indagare le relazione interpersonali con l’obiettivo di modificarle? Cosa succede, infine, se il paziente finisce per eclissarsi dietro a questo ruolo?
In merito, mi limito a evidenziare che uno degli “insegnamenti” basilari della Terapia Cognitiva della depressione è che quanto più la sintomatologia depressiva è intensa e interferente sul funzionamento del soggetto, tanto più occorre focalizzare l’attenzione sui meccanismi che mantengono il problema, intervenendo, nello specifico, proprio sul circolo vizioso tra faticabilità e passività (Rainone e Mancini, 2008).
Altro punto che mi ha suscitato alcune perplessità è quello relativo al comportamento che il terapeuta deve avere rispetto al paziente: deve essere attivo, “sostenitore e curatore” degli interessi del paziente, supportivo e direttivo, intervenendo, quando necessario, con consigli e suggerimenti pratici. Quest’ultimo aspetto mi è sembrato non del tutto chiaro, da un lato, troppo legato all’intuito del terapeuta e, dall’altro, rischioso nella misura in cui i consigli pratici del terapeuta vengono ad incidere ed influenzare le scelte del paziente. In questo senso, ritengo quantomeno che tale specifico aspetto debba essere maneggiato con estrema cautela (troppo è il rischio, infatti, che magari per risolvere frettolosamente la sofferenza del paziente si forniscano dei consigli pratici, senza considerare adeguatamente i bisogni, le preferenze, gli scopi e le credenze della persona che si ha davanti, precludendole in questo modo sia la possibilità di autodeterminarsi in base a dei propri valori, sia la libertà di scegliere in modo autonomo).
In conclusione, fermi i dubbi e le perplessità sopra evidenziate probabilmente legate alla mia “identità da cognitivista”, ritengo che tra i due approcci alla sofferenza psicologica possa esservi, sotto certi aspetti, una proficua integrazione.
Più in particolare, alcuni strumenti e tecniche proprie dell’IPT si prestano ad essere utilizzate in modo efficace anche all’interno di un approccio tipicamente cognitivo comportamentale, il quale, per altro, rimanda ad una scienza più generale che si occupa di delineare e validare un modello della mente, oltre la patologia.
BIBLIOGRAFIA
Klerman G.L, Weissman M.M, Rounsaville B.J, Chevron E.S. (1984). Interpersonal Psychotherapy of Depression. New York: Basic Books (trad. it.: Psicoterapia interpersonale della depressione. Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2009).
Rainone A, Mancini F. La terapia cognitiva della depressione, in Elementi di psicoterapia cognitiva a cura di Perdighe C, Mancini F. Ed. Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2008.