Domenica, ore 17:00. Nella quasi totalità dei casi, l’“italiano medio” è impegnato in un’epica lotta per tentare di digerire le circa 1000/2000 calorie assunte a pranzo dove, con zelante rispetto della tradizione culinaria locale, si è “confrontato” con pingui leccornie dall’aspetto ammaliante (nell’accezione letterale del termine). Quando però, lunedì mattina, lo sguardo tornerà immancabilmente a scrutare i numeri presenti su quello strumento demoniaco chiamato bilancia, il senso di colpa farà capolino e la fede nella tanto amata tradizione, inesorabilmente, vacillerà. E’ proprio pensando a uno di questi momenti che mi torna in mente un articolo pubblicato nel 2007 sull’American Journal of Psychiarty intitolato “Issue for DSM-V: Should Obesity Be included as a Brain Disorder?” di Nora D. Volkov e Charles P. O’Brien. In questo articolo gli autori riflettono sulla grossa incidenza dell’obesità sulla popolazione mondiale (più del 32% della popolazione degli Stati Uniti; Ogden et al., 2006) e sull’urgente bisogno di sviluppare strategie efficaci di prevenzione e trattamento di tale condizione. Secondo gli autori, gli interventi standard (basati sul cambiamento dello stile di vita del soggetto e finalizzati alla diminuzione del consumo di cibo o all’aumento dell’attività fisica) risultano inizialmente efficaci -se seguiti rigorosamente- nel normalizzare il peso ma, i benefici che ne conseguono, sono estremamente difficili da mantenere negli anni. Tale premessa, insieme al riscontro di un continuo fallimento di molteplici forme terapeutiche, conduce gli autori a sostenere che alcune forme di obesità (caratterizzate da un’eccessiva “spinta motivazionale” verso il cibo) vadano ritenute patologiche alla stessa stregua della dipendenza da sostanze psicoattive (Cota et al., 2006) e, dunque, inserite nel prossimo Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Tale ipotesi verrebbe corroborata da molteplici studi in ambito genetico e neuroscientifico, che indicano come i circuiti cerebrali sottostanti l’assunzione di cibo (e.g., quello della ricompensa: “reward circuitry”; Kalivas & Volkow, 2005), e la sua modulazione, sarebbero del tutto simili a quelli coinvolti nelle dipendenze da droghe. In effetti, neanche il vissuto quotidiano viene in nostro aiuto… Chi non ha mai sostenuto che la nutella, piuttosto che la crostata della nonna, fosse “come una droga”? Chiunque abbia lanciato la “prima pietra”, o non ha mai assaggiato la nutella o non ha mai mangiato la crostata di mia nonna. Tornando alle neuroscienze, tali premesse permettono di ipotizzare che, così come la ripetuta stimolazione della dopamina nell’uso cronico di droghe induce cambiamenti plastici nel cervello, con un conseguente scarso controllo inibitorio sul consumo di droghe e l’ingestione compulsiva delle stesse, la ripetuta assunzione di alcuni tipi di cibo (soprattutto, ahinoi, di quelli ad alto contenuto calorico) può condurre alcuni soggetti sia a forme di alimentazione compulsiva che a essere condizionati dagli stimoli associati al cibo con un conseguente (e consistente) aumento ponderale. Infine, considerati i rischi per la salute fisica e psichica (nonchè il costo annuale per l’assistenza sanitaria a carico dello Stato -per noi- e delle compagnie assicurative -per gli statunitensi-), gli autori sostengono che grazie al prossimo DSM-5, la comunità scientifica internazionale avrà l’opportunità, attraverso la creazione di precise categorie diagnostiche, di trattare in modo più efficace l’obesità sia quando si configura come sindrome metabolica sia, quando necessario, come disturbo psichiatrico. In termini clinici, tale possibilità diagnostica potrebbe giovare a coloro che si occupano di obesità e/o di Disturbi del Comportamento Alimentare? Personalmente credo che, se da un lato bisogna prendere atto delle evidenze scientifiche a favore della patologizzazione di alcuni aspetti dell’obesità, ci si muova su un terreno scivoloso; il rischio che possano fare capolino teorizzazioni che stigmatizzano ulteriormente questa condizione e, di conseguenza, ne rallentino il processo conoscitivo, non è del tutto assente. Ad oggi, le conoscenze sull’etiopatogenesi dell’obesità sono in gran parte embrionali e, se molto è stato fatto, molto è ancora da farsi. In linea di massima, una delle poche cose certe che possiamo osservare è un segno, l’adipe, dietro il quale possono celarsi predisposizioni genetiche, comportamenti maladattivi, e tutta una sconfinata serie di percorsi evolutivi che, con tutta probabilità, non condividono necessariamente gli stessi processi causali.
Bibliografia
Cota D, Tschop MH, Horvath TL, Levine AS: Cannabinoids, opioids and eating behavior: the molecular face of hedonism? Brain Res Brain Res Rev 2006; 51: 85—107.
Kalivas PW, Volkow ND: The neural basis of addiction: a pathology of motivation and choice. Am J Psychiatry 2005; 162: 1403—1413.
Ogden C.L., Carroll MD, Curtin LR, McDowell MA, Tabak CJ, Flegal KM: Prevalence of overweight and obesity in the United States, 1999—2004. JAMA 2006; 295: 1549—1555.
Volkow ND, O’Brien CP,: Issues for DSM-V: Should Obesity Be Included as a Brain Disorder? Am J Psychiatry 2007; 164: 708-710.