Psicoeducazione e Terapia Cognitivo Comportamentale nel Disturbo Bipolare: alcune esperienze

di Lisa Lari

Il trattamento dei pazienti bipolari presenta caratteristiche e complessità particolari. In tale ambito, un ruolo significativo può sicuramente essere riconosciuto alla psicoeducazione.

Tale approccio, semplificando, consiste nel fornire al paziente in modo chiaro, semplice, didattico e possibilmente interattivo, le informazioni e le istruzioni per prevenire ed affrontare, su di un piano concreto, i disturbi mentali e disagi di natura psicologica ed interpersonale.

Nello specifico, l’intervento psicoeducazionale nel Disturbo Bipolare ha come principali obiettivi quelli di 1) aumentare il livello di informazione e consapevolezza sulla malattia, sul possibile decorso, sulle conseguenze della non aderenza alla terapia farmacologica, 2) accrescere il livello di informazione sulle terapie farmacologiche disponibili, sull’efficacia degli stabilizzanti del tono dell’umore, sugli effetti collaterali che possono comparire a seguito dell’assunzione della terapia, 3) coinvolgere i membri della famiglia nei processi psicoeducativi, 4) individuare gli eventi stressanti, i primi sintomi ed elaborare le strategie per fronteggiarli, 5) promuovere condizioni di vita igieniche (regolarità del ritmo sonno-veglia; alimentazione; movimento). Secondo Colom e Vieta (2004) il paziente bipolare ha la percezione, attraverso le puntuali spiegazioni inerenti il disturbo, che lo specialista ha compreso tempestivamente le situazioni che vive con vergogna, con un senso di isolamento, o con la convinzione che siano uniche ed incomunicabili. Il paziente psicoeducato “sa che sappiamo” e questo si traduce in un miglioramento della relazione terapeutica. La psicoeducazione risponde, pertanto, ad un diritto fondamentale del paziente e di qualsiasi altro essere umano: il diritto all’informazione.

Avendo la possibilità di lavorare con i pazienti bipolari entro un setting individuale, ho potuto sperimentare personalmente “la potenza” e l’efficacia di questo tipo di intervento. Relativamente ai quadri sintomatologici di gravità media, ho notato come questi pazienti riescano a trarre un beneficio immediato, un “sollievo”, dal sentirsi compresi nella propria sofferenza e dalla possibilità di “dare un nome”, di circoscrivere e di inquadrare precisamente i “movimenti affettivi” e le conseguenze emotive, cognitive e comportamentali che ne derivano. In alcune occasioni, ho avuto la possibilità di testare l’efficacia della psicoeducazione nel momento in cui il paziente presentava, proprio durante il percorso psicoterapico, delle oscillazioni timiche di entrambe le polarità. La gestione della comparsa spontanea della sintomatologia affettiva è stata favorita attraverso il puntuale riconoscimento dei sintomi, potendo lavorare “in vivo” sugli aspetti comportamentali ma anche cognitivi che caratterizzano gli stati depressivi, quelli ipo-maniacali ed anche l’espressione disforica di questi ultimi. Ho avuto modo di osservare come, attraverso l’esperienza diretta opportunamente spiegata e contestualizzata, alcuni pazienti riescano più facilmente a riconoscere, capire e orientarsi in questi diversi vissuti emotivi e comportamentali. Ho inoltre riscontrato nel caso di un paziente che manifestava una costellazione sintomatologica particolarmente grave, ascrivibile ad un Disturbo Bipolare di tipo I caratterizzato da scarsa compliance e da una parziale consapevolezza di malattia, come l’interruzione della psicoterapia e del costante processo di psicoeducazione abbia favorito l’insorgere di un episodio grave con tonalità miste cui è seguito il ricovero in ambito specialistico. Questo mi ha dato personale conferma del fatto che le probabilità di uno scivolamento in un episodio acuto aumentano quando alle oscillazioni fisiologiche dell’umore non corrisponde, in parallelo, un monitoraggio costante della sintomatologia. Di qui, emerge in modo chiaro quale possa essere l’importanza della costruzione e del mantenimento, in termini temporali, di un intervento psicoeducazionale e psicoterapico, oltre che farmacologico, su questo tipo di disturbo.

Tuttavia, laddove il quadro clinico lo permette, ho trovato problematico un particolare passaggio terapeutico, quello che (perlomeno a mio avviso) può rendersi opportuno in fase eutimica, ovvero dopo un consistente periodo di assenza di oscillazioni timiche. Si tratta, più in particolare, di passare dalla fase di psicoeducazione e di ulteriori interventi specifici come previsto dalla Terapia Cognitivo Comportamentale (Basco e Rush 2005; Basco 2006), alla fase relativa, invece, all’accettazione di emozioni negative che possono naturalmente comparire nel consueto svolgersi della vita quotidiana e che quindi non rappresentano delle vere e proprie alterazioni affettive. Detto in altri termini: attraverso quali modalità il terapeuta può guidare il paziente bipolare “psicoeducato” che ha riconosciuto le modificazioni cognitive e comportamentali, le quali precedono e seguono le fasi di opposta polarità, verso un processo di maggiore accettazione di stati emotivi negativi come la tristezza, l’irritabilità e l’inquietudine derivante da una lieve accelerazione ideica? A questo paziente, è stato chiesto, infatti, sia di monitorare costantemente la sintomatologia e/o i possibili prodromi, sia di mettere in atto tempestivamente delle attività comportamentali che lo “attivino” o, al contrario, lo “blocchino” con la finalità di uscire (o di non entrare) dalle alterazioni dell’umore. Si tratta in sostanza di dire al paziente: ora che conosci il tuo disturbo, ora che hai costantemente monitorato i sintomi, che ti sei “ri-attivato” o “dis-attivato”, prova invece a fare spazio, ad entrare dentro agli  stati emotivi che esperisci nel quotidiano e che ti creano sofferenza psicologica. Di fronte alle espressioni di sorpresa e confusione che ho potuto scorgere sul volto di alcuni pazienti, stati interni, questi, derivanti dal passaggio eccessivamente rapido e brusco da una fase all’altra della terapia, ho dovuto fare “un passo indietro”; ho dovuto spiegare in modo chiaro al paziente che se fino a quel momento erano state poste in essere delle manovre psicoterapiche finalizzate al “controllo” del Disturbo Bipolare, ora sarebbe stato opportuno, senza abbandonare le conoscenze e le competenze precedentemente acquisite, favorire in modo guidato e graduale una esposizione agli stati emotivi, agli scenari maggiormente temuti, con la finalità quindi di mettersi in contatto con esperienze dolorose continuando a perseguire gli obiettivi importanti per l’individuo entro un assetto valoriale da lui scelto. Secondo la mia esperienza, in alcuni quadri di Disturbo Bipolare, può quindi essere opportuno rendere chiaro e maggiormente fluida questa “fase di transizione”.

Bibliografia

Basco MR, Rush AJ (2005). Cognitive-Behavioral Therapy for Bipolar Disorder, second edition. The Guilford Press, New York.
Basco MR (2006). The bipolar workbook – Tools for Controlling Your Mood Swing. The Guilford Press, New York.
Colom F, Vieta E. (2004). Manual de psicoeducacion para el trastorno bipolar. I Edizione originale Ars Medica, Barcelona (trad. it: Manuale di psicoeducazione per il disturbo bipolare. Giovanni Fioriti Editore, Roma 2006)

3 risposte a “Psicoeducazione e Terapia Cognitivo Comportamentale nel Disturbo Bipolare: alcune esperienze”

  1. Questo articolo è veramente molto interessante……purtroppo la mia esperienza con il disturbo bipolare e con la psicoeducazione a riguardo è altalenante proprio come l’umore nel disturbo in sè, in quanto una mia percezione è che l’aumento della conoscenza del problema del paziente venga vissuta in maniera positiva o negativa a seconda dell’up/down dell’umore……per cui ben vengano questi articoli e speriamo ci siano altre testimonianze che ci aiutino a trattare in maniera più esaustiva e completa questo complesso disturbo!

    1. Grazie Marianna per il tuo commento. Penso che la tua percezione relativa al fatto che la conoscenza del paziente rispetto al disturbo varia a seconda delle fasi sia molto realistica. Credo che “lo sforzo” del terapeuta consista proprio nell’identificare e nel chiarire puntualmente al paziente queste fluttuazioni cognitive e affettive, con l’obiettivo di incrementare costantemente il processo di consapevolezza.

  2. Concordo in pieno con l’utilità e l’efficacia della psicoeducazione e condivido le difficoltà della “fase di transizione” descritta. Ma come rendere più chiaro e fluido il passaggio dalla gestione del disturbo, all’accettazione delle emozioni(alias alterazioni umorali) che si sperimentano nella vita? E soprattutto come facilitare il processo di accettazione per quegli stati mentali che spesso sono oggetto di un problema secondario per il pz (in particolare mi riferisco ai bipolari di tipo II), ossia la tristezza, l’angoscia, il vuoto, il senso di impotenza, la noia, etc.?
    A mio avviso occorre giocare d’anticipo, ripensando la psicoeducazione e rendendola coerente con gli interventi (evidentemente ACT) che vengono descritti successivamente. In questi termini, mi sovvengono due considerazioni, una sui contenuti e l’altra su aspetti di natura più relazionale. Per quanto riguarda il primo punto, il programma di psicoeducazione citato (Basco, 2005; 2006) prevede un discreto modulo di terapia standard (distorsioni cognitive, analisi dei nat, etc). A mio parere, si tratta di interventi utili, ma anche scivolosi, perché, se non inquadrati nella giusta cornice, facilitano il rischio di colludere con il desiderio più o meno esplicito del pz di allontanare gli stati depressivi e i loro prodromi e rendere pertanto più difficile il passaggio al lavoro sull’accettazione delle emozioni cosiddette “negative”. Per quanto riguarda gli aspetti relazionali, mi domando se già durante la psicoeducazione non valga la pena curare il nostro modo di riferirci alle due fasi del disturbo e alle rispettive emozioni caratterizzanti. Quante volte ci capita di ascoltare le descrizioni delle fase espansiva con attenzione, curiosità e, anche entusiasmo, e quanto di fare lo stesso con le descrizioni della fase depressiva? Quanto spesso per motivare il pz a condurre uno stile di vita regolare, facciamo leva sul timore che si possano ripresentare episodi di basso tono dell’umore, invece che fare riferimento alle oscillazioni sia ipo che ipertimiche? Quanto spesso nel rappresentare le fasi del disturbo, utilizziamo la metafora del fuoco per la fase maniacale e della cenere per quella depressiva? In altre parole, quante volte, nonostante abbiamo chiarissimo che è terapeuticamente cruciale mantenere il pz entro un certo range umorale, metacomunichiamo che il male peggiore è la fase depressiva?
    Insomma per contribuire a rendere il nostro intervento di psicoeducazione e resto della CBT più connotato da chiarezza e coerenza interna, occorrerà iniziare a considerare fin da subito le emozioni spiacevoli come fisiologiche e inevitabilmente facenti parte dell’esistenza.
    Ovviamente più facile a dirsi, che a farsi…

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