La compassione di sé e la voglia di imparare

di Nicola Petrocchi

Continuo in questo post il discorso (che avevo lasciato un po’ in sospeso, esame di specializzazione alle porte, sorry!) sui vari aspetti della compassione (in questo caso, verso se stessi) e sulla sua possibile utilità in ambito psicologico. Visto il clima d’esame ho trovato interessante un articolo di Kristin Neff (creatrice del costrutto della Self-Compassion che ho descritto nello scorso post) di un po’ di tempo fa (2005… non il post, l’articolo!) che mette in relazione un atteggiamento compassionevole verso sé stessi con alcune variabili cognitive che agitano i sonni e i risvegli all’alba di molti di noi che (ancora!) studiano: gli scopi relativi alle performance accademiche e le strategie di coping rispetto a (ipotetici….) fallimenti accademici. Avere compassione verso di sé, ci ricorda l’autrice, è radicalmente diverso dall’avere (e cercare di mantenere) stima di sé: un atteggiamento compassionevole verso noi stessi si basa sulla capacità di essere gentili con noi anche nei momenti in cui non vorremmo altro che criticarci e punirci, essere in contatto con la nostra esperienza presente e consapevoli di far parte, in modo indissolubile, di un’umanità che sperimenta ogni giorno, tutto sommato, le stesse nostre fatiche (se non peggiori).

Questo approccio ci consente di avere emozioni positive verso di noi senza che si debba strenuamente difendere il nostro “concetto di sé”, spesso (da bravi lettori di manuali self-help sull’autostima) totalmente coincidente con l’esito delle nostre performance. La compassione di sé ci permette di non considerare le performance come barometro del nostro valore personale ma, mette in guardia l’autrice, non significa diventare incapaci a discernere la qualità delle nostre prestazioni né, tantomeno, non più motivati a crescere e a migliorarci. Ci aiuterebbe, piuttosto, a smussare gli aspetti nevrotici e dolorosi del nostro perfezionismo (Neff, 2003a), dove ciò che ci anima è il terrore di fallire e di essere criticati piuttosto che la curiosità e il desiderio di massimizzare il nostro potenziale. Nella prima ricerca descritta in questo articolo, condotta su 222 studenti universitari, la Neff rileva che chi fra gli studenti ha una maggiore tendenza alla compassione di sé è anche più motivato (intrinsecamente) a diventare bravo e padroneggiare la materia che studia, a sviluppare nuove competenze e acquisire nuove conoscenze, piuttosto che spinto dalla voglia di primeggiare sugli altri, avere successo o evitare il fallimento e ipotetiche frustrazioni. In generale, questi soggetti appaiono meno ansiosi rispetto al loro percorso di apprendimento. L’elemento interessante di questa prima ricerca è, a mio avviso, questo:  l’analisi della regressione mostra che la compassione di sé consente agli individui di avere scopi intrinseci e dedicarsi al “gusto dell’apprendere” proprio perché, chi ha un attitudine compassionevole verso se stesso ha anche meno paura del fallimento (forse perché sa come gestirlo e non lasciarsi schiacciare da esso) e, in generale, ha una maggiore sensazione di competenza rispetto a ciò che fa. Questo tipo di scopi (mastery goal), nella letteratura specialistica, è generalmente considerato più adattivo (anche in termini di risultati) rispetto a scopi di successo (performance approach goal) o evitamento del fallimento (performance avoidance goal).

La compassione di sé sembra migliorare anche il modo in cui reagiamo ai fallimenti: dei 110 studenti reduci da un brutto voto ad un esame importante, chi era più compassionevole verso se stesso rimaneva anche più motivato a crescere e riprovare alla sessione successiva e non perdeva il suo interesse e coinvolgimento verso la materia in cui aveva fallito. Mostrava anche un modo “più saggio” di gestire le emozioni negative che non venivano evitate o soppresse ma accettate e vissute come “pungolo” per stimolare la crescita e una maggiore competenza nella materia; diminuiva invece, in modo significativo, la tendenza alla ruminazione e alla lamentela con gli altri riguardo al proprio fallimento.

Nei prossimi post, oltre a proporvi altre ricerche interessanti in questo campo, cercherò di delineare gli elementi caratteristici della Compassion Focused Therapy che mette, al suo nucleo, la compassione (e un training specifico per svilupparla) e che può insegnare a noi, e a nostri pazienti, come tratte vantaggio da questa attitudine positiva verso noi stessi e gli altri.

Bibliografia

Neff, K. D., Hseih, Y., & Dejitthirat, K. (2005). Self-compassion, achievement goals, and coping with academic failure. Self and Identity, 4, 263–287.

2 risposte a “La compassione di sé e la voglia di imparare”

  1. La mia riflessione spontanea: esiste un legame stretto tra assenza di compassione di se’ e identificazione della performance con il proprio se’. Quindi, rispetto alle ultime riflessioni di Nicola, io aggiungerei che non solamente chi e’ compassionevole ha meno paura del fallimento perche’ ha piu’ strumenti per gestirlo, ma anche perche’ la compassione, riducendo l’identificazione della performance con il Se’, cambia la rappresentazione di quello che e’ il giudizio degli altri, il quale non e’ visto piu’ come un giudizio nei confronti del Se’ ma come un giudizio nei confronti della performance. Questa differente rappresentazione permette all’individuo di poter agire sul mondo esterno e di potersi impegnare nel miglioramento della performance.

  2. ciao Anna, effettivamente hai colto un aspetto importante della teorizzazione della Neff, per come la conosco io. non soltantanto si ha meno paura del fallimento, ma un approccio di questo tipo dovrebbe spingerci a non identificarci con le performance e a rivedere il concetto di fallimento in sè. mi sembra che tu suggerisca il concetto di fallimento venga meno poichè il nostro valore personale non è più misurato sulla bontà delle nostre prestazioni o sul giudizio degli altri. suggerisce la Neff (2003a) che non è più misurato affatto, ed è questa la differenza sostanziale con il concetto dell’autostima (che è, appunto, una stima di qualcosa; anche se positiva, sempre una misurazione è!). di fatto, a pensarci bene, ogni misurazione ha in sè il concetto di confronto, appunto, con una qualche unità di misura; ed è proprio questo bisogno ( e timore) continuo di confrontarci con qualcuno che l’approccio della Self-Compassion (come altri ben più conosciuti come la REBT) vuole superare.
    ciao
    Nicola

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