La Culturally Affirmative Psychotherapy per i pazienti sordi – parte prima

di Stefania Fadda

In questo e nel successivo post il mio intento sarà quello di proseguire nell’individuazione e condivisione delle caratteristiche che il lavoro psicoterapico deve possedere al fine di risultare efficace con i pazienti sordi. L’interesse per tale tematica nasce dalla constatazione di come la popolazione sorda ponga sfide comunicative, metodologiche e culturali alla psicoterapia cognitiva tradizionale, sia da un punto di vista etico che pratico. Inoltre, gli scorsi trent’anni hanno visto un proliferare di studi sulla storia delle persone sorde, sulla cultura sorda, sulla sociologia della comunità sorda, sulle sue norme, valori e prospettive. Ma, sfortunatamente, ad oggi, la letteratura in ambito psicoterapeutico ha dedicato solo pochi articoli agli approcci e alle pratiche efficaci nel lavoro con i pazienti sordi.

Prima di esporre le caratteristiche della Culturally Affirmative Psychotherapy (II Parte) desidero soffermarmi su alcuni dati relativi alla sordità e alla salute mentale delle persone sorde.

In Italia, circa 70 mila individui sono sordi, includendo in tale cifra sia coloro che sono nati sordi o lo sono diventati nei primi anni di vita, sia coloro che hanno perso l’udito dopo aver appreso il linguaggio parlato. I metodi comunicativi utilizzati da queste persone variano dall’approccio orale a quelli manuali, inclusa la lingua dei segni. Quest’ultima, come sancito per la prima volta dal lavoro di William Stokoe del 1969, è una lingua complessa e raffinata, capace di astrazione, di sottigliezze e di sviluppo linguistico, con proprietà fonologiche, grammaticali, sintattiche e dialogiche differenti da quelle della lingua parlata (Volterra, 1987). Molte persone sorde, alla luce della condivisione di questa unica lingua e di esperienze comuni in ambito educativo e sociale, vengono viste come appartenenti ad un unico gruppo culturale: la comunità sorda (Padden e Humphries, 1988). Tale comunità ha attraversato una lunga storia di discriminazione delineando, così, similitudini con altre popolazioni interessate dalla stessa oppressione linguistica e culturale. Biesold, (2004) ha posto in rilievo le esecuzioni naziste e le prigionie nei campi di concentramento vissute dalle persone sorde, Brantlinger (1995) ha scritto sulle sterilizzazioni forzate subite, sul divieto di matrimonio, sulla proibizione dell’utilizzo della lingua dei segni e sull’assenza di programmi educativi accessibili a bambini e adolescenti sordi. Questi atteggiamenti e comportamenti prenderebbero, oggi, il nome di “audismo”, termine sempre più utilizzato per indicare i concetti di oppressione e di invalidazione a livello personale e sociale basati sulla possibilità o non possibilità di un individuo di udire (Lane, 1992).

In riferimento alla salute mentale delle persone sorde, studi recenti hanno messo in luce come, anche a causa della marginalizzazione sociale, la popolazione sorda presenti, spesso, una più povera qualità della vita rispetto alla popolazione udente, sia da un punto di vista fisico che psicologico e come i livelli di distress emotivo, riscontrati dalla somministrazione del Brief Quality of Life Questionnaire della World Health Organization, risultino spesso elevati (Fellinger et al., 2005). Sull’incidenza dei disturbi psicopatologici nella popolazione sorda, le ricerche mostrano come essa sia significativamente più alta rispetto alla popolazione generale. Alcuni studi, inoltre, riportano episodi di ideazione suicidaria e tentativi di suicidio superiori rispetto a quelli che si verificano nella popolazione udente (Samar et al, 2007) e la presenza di un elevato rischio d’abuso (Embury, 2001), sia fisico che emotivo (Sullivan e Knutson, 2000).

È opinione condivisa quella secondo cui l’approccio psicoterapeutico cognitivo debba essere pensato e strutturato per il gruppo specifico al quale si rivolge: se, come le ricerche sopraccitate dimostrano, la comunità sorda possiede una cultura distinta, ne consegue che le persone sorde e udenti, considerate come gruppi, sono culturalmente diverse e quando gli psicoterapeuti udenti hanno come pazienti membri della comunità sorda, il loro intervento deve essere di tipo cross-culturale. (Fine I Parte)

Bibliografia

Biesold, H. (2004). Crying hands: Eugenics and deaf people in Nazi Germany. Washington, DC: Gallaudet University Press.
Brantlinger, E. (1995). Sterilization of people with mental disabilities: Issues, perspectives, and cases Westport, CT: Auburn House.
Embury, R. (2001). Examination of risk factors for maltreatment of deaf children: Findings from a National Survey. Portsmouth, NH: 7th International Family Violence Research Conference.
Fellinger, J., Holzinger, D., Dobner, U., Gerich, J., Lehner, R., Lenz, G., & Goldberg, D. (2005). Mental distress and quality of life in a deaf population. Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology, 40, 737–742.
Lane, H. (1992). The mask of benevolence: Disabling the deaf community, 1st ed. New York: Knopf.
Padden, C. e Humphries, T. (1988). Deaf in America: Voices from a culture. Cambridge, MA: Harvard University Press.
Samar, V. J., Pollard, R., O’Hearn, A., Lalley, P., Sutter, E., Klein, J. D., et al. (2007, March 13-14). Deaf young adultsself-reported suicide attempt rate: role of reading and gender. Honolulu, Hawaii: Paper presented at the Pacific Rim Disability Conference.
Sullivan, P. M., & Knutson, J. F. (2000). Maltreatment and disabilities: A population-based epidemiological study. Child Abuse & Neglect, 24, 1257–1274.
Volterra, V. (1987). LIS: La Lingua Italiana dei Segni. La comunicazione visivo-gestuale dei sordi. Bologna, Il Mulino.

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