di Olga Ines Luppino
Qualche sera fa ricevo da una collega la segnalazione di un interessante lavoro di Decety e collaboratori, dell’Università di Chicago, che negli ultimi mesi ha fatto il giro del web.
Gli autori, hanno indagato la presenza nei ratti di comportamenti prosociali mossi, come sovente è per l’uomo, da una risposta empatica alla sofferenza di un proprio simile.
Il paradigma utilizzato ha previsto che una coppia di ratti venisse inizialmente tenuta, per un periodo di due settimane, in una stessa gabbia. I due “compagni di cella”, venivano successivamente separati: uno di essi liberato all’interno di un’arena al cui centro, in una cella rettangolare, veniva rinchiuso l’altro (condizione ratto in trappola, n=30, 6 femmine). Il ratto libero aveva la possibilità di liberare il compagno, aprendo la porticina della cella o facendo leva o spingendo con il muso; nel caso in cui, dopo un certo lasso di tempo, non vi fosse riuscito, lo sperimentatore provvedeva all’apertura, in modo da liberare il ratto prigioniero e da consentire l’interazione tra i due roditori. Le sessioni si sono susseguite per 12 giorni consecutivi. Diverse le condizioni di controllo: ratto libero e cella vuota (condizione cella vuota, n=20, 6 femmine); ratto libero e cella con ratto giocattolo in trappola (condizione oggetto in cella, n=8 maschi); ratto libero, cella vuota e compagno anch’esso libero ma posto al di là di un pannello forato (2+ cella vuota, n=12 maschi). I roditori hanno imparato ad aprire la gabbia in circa 7 giorni; al procedere delle sessioni si sono evidenziati inoltre un progressivo aumento della proporzione di ratti che liberavano il compagno ed una parallela diminuzione del tempo di latenza della risposta di apertura della gabbia. Un numero maggiore di ratti ha aperto la gabbia nella condizione sperimentale (23/30) rispetto a quelle di controllo (5/40), mostrando inoltre un netto incremento dell’attività all’apertura della porta, a riprova dell’ipotesi secondo cui la liberazione del compagno rappresentasse un evento saliente. Significativa poi la progressiva acquisizione di uno “stile” di apertura della cella e l’interruzione, all’avanzare dei giorni, dell’iniziale risposta di freezing successiva all’apertura della gabbia, a dimostrazione di come l’apertura fosse diventata con il tempo un evento atteso, risultato di un comportamento deliberato ed orientato ad uno scopo.
Una prima ipotesi formulata dagli autori è stata quella secondo cui il ratto libero si adoperasse a liberare il compagno con lo scopo di terminarne le sofferenze, dimostrate dall’emissione di segnali ultrasonici a 23 Herz, tipici di una condizione di disagio. Per escludere la possibilità che a motivare l’apertura della gabbia fosse l’anticipazione di un’interazione sociale, si è proceduto a modificare il paradigma base, facendo in modo che il ratto in trappola, una volta liberato, uscisse in un’arena diversa e separata da quella del compagno. Nonostante la variazione al disegno standard, i ratti liberi hanno continuato ad aprire la gabbia, mostrando di agire con l’unico fine di liberare i compagni in trappola. Per indagare infine il valore dato alla liberazione del compagno, gli autori hanno messo i roditori nella condizione di poter scegliere se aprire una cella contenente del cioccolato (stimolo in precedenza risultato molto appetibile) o una con intrappolato un consimile, non registrando, dopo circa 6 giorni, differenze significative nella latenza con cui i roditori liberi aprivano l’una o l’altra cella.
Di notevole impatto le suggestioni fornite dagli autori a conclusione del lavoro: i ratti, empatizzando con la sofferenza di un loro simile, danno vita a comportamenti prosociali e si prodigano per ridurne le pene; il comportamento occorre anche in assenza di una ricompensa ed in alternativa ad uno stimolo molto appetibile.
Diverse le opinioni che si sono rincorse sul web in seguito alla pubblicazione del lavoro: gli autori avrebbero “ristretto” il concetto di empatia alla sola percezione della sofferenza altrui ed al prodigarsi per interromperla; i ratti utilizzati per l’esperimento non erano deprivati di cibo, condizione artificiale rispetto a quella “naturale” per l’animale; non del tutto critica e forzatamente antropomorfica l’interpretazione dei risultati a parere di molti, secondo i quali risulta fuorviante riconoscere dietro un comportamento del ratto, apparentemente simile a quello dell’uomo, la stessa motivazione.
Mi ha fatto effetto, lo ammetto, pensare al topo, nell’immaginario collettivo abitante delle fogne e veicolo infettivo per antonomasia, come ad un essere in grado di “empatizzare” e comportarsi da “umano”…non mi muovo però nell’ambito delle neuroscienze e non ritengo perciò di avere gli strumenti necessari per interpretare criticamente gli esiti del lavoro in questione…
Passo dunque la palla a colleghi del settore ed attendo commenti…
Bibliografia
Inbal Ben-Ami Bartal et al. (2011), Empathy and Pro-Social Behavior in Rats. Science, 334, 1427-1430.