di Giulia Paradisi, Sara Di Biase e Lisa Lari
Avete presente lo stato di tensione derivante dall’essere sotto esame di fronte ad un valutatore senza scrupoli? Quella sensazione di non essere stati abbastanza all’altezza, di aver agito con mediocrità, di meritare per questo un giudizio impietoso e, insieme, il desiderio di sottrarsi alla relazione per porre fine a tale agonia? Tanto che ci sto a fare qui?
Oppure l’impressione di non essersi fatti capire, di essere stati fraintesi, magari con la rabbia di aver detto la cosa giusta al momento sbagliato e la spinta a riparare al danno fatto insieme alla paura che sia troppo tardi? Accidenti, ho sbagliato ancora una volta!
O, ancora, la percezione di essere invasi, oltraggiati e non riconosciuti nel proprio ruolo e la voglia di riscattarsi per riconquistare un po’ di rispetto da parte dell’altro? Nessuno ti ha chiesto di dirmi cosa devo fare o come devo essere… Ma che ne sai tu di me? Non ti rendi conto che di fronte hai una persona e non un oggetto?! Ora te la faccio pagare!
Tutto questo accompagnato alla credenza che sia difficile, se non impossibile, far fronte a tali difficoltà. Ma chi me l’ha fatto fare..? Quasi quasi mollo tutto!
Non sempre può risultare facile distinguere se chi elabora questi pensieri e vive gli stati d’animo appena descritti sia un paziente con Disturbo Narcisistico di Personalità oppure un terapeuta alle prese con un paziente con tale diagnosi.
Durante una seduta con un paziente narcisista, infatti, è possibile che alcune inquietanti frasi squarcino il setting e, probabilmente, la sensibilità del terapeuta al quale risuoneranno in testa alcuni commenti, quali ad esempio: “Certo che la domanda che mi ha appena posto è decisamente banale e scontata!”, “Mi sembri molto giovane… ma sei sicura di capire bene il mio problema?”, oppure “Ma cosa ne vuoi sapere te… di queste cose così importanti che mi succedono?”.
Con il paziente narcisista, così come per la maggior parte dei disturbi di personalità, uno degli aspetti più complicati e nodosi è la relazione. Ciò che può minare la possibilità di mantenere una relazione costruttiva e stabile è la difficoltà che il terapeuta può trovare nel gestire le proprie reazioni emotive che possono essere forti e negative, oppure caratterizzate da profonda frustrazione determinata da una sensazione di svilimento (Beck e Freeman, 1993).
A differenza di altri quadri psicopatologici (prevalentemente di Asse I), spesso il paziente con disturbo di personalità non discute i propri vissuti. Alla domanda “Come si è sentito?”, il narcisista non sempre esplicita il proprio stato emotivo, rispondendo ad esempio “umiliato” o “arrabbiato”, ma tende ad agire ciò che prova: “Possibile che non capisca?! Che razza di domande sono? Perché, lei non si sarebbe sentito come me?”, da una parte portando allo scoperto il funzionamento metacognitivo spesso carente, dall’altro permettendo al terapeuta di accedere direttamente all’esperienza interna che il paziente stesso vive o con la quale teme di impattarsi. L’esperienza tanto temuta può derivare dalla percezione di non considerazione da parte di altri significativi (uno a cui non importa niente a nessuno e che si può anche trascurare) e/o dall’essere stato indicato come difettato o non idoneo (che non va bene o che va bene solo a patto di avere determinate caratteristiche) e di qui il tentativo di rivalsa attraverso comportamenti di compenso (vi farò vedere che acquisirò quelle caratteristiche e a quel punto vi dimostrerò che siete voi a non andare bene e sarò io a non volervi!).
La relazione diventa così il palcoscenico sul quale paziente e terapeuta si incontrano. Il terapeuta non può affrontare la scena tirandosene fuori, sedendosi al posto del regista ma, come un attore che improvvisa la battuta, deve essere addestrato a saper “sentire” l’esperienza del personaggio che sta interpretando. In questo probabilmente risiede la maggiore difficoltà che il terapeuta, più o meno esperto, incontra sia nel tentativo di impedire che il paziente interrompa precocemente la terapia, sia nel trattamento vero e proprio.
Altro aspetto problematico riguarda, a nostro avviso, la possibilità di riconoscere, da un punto di vista diagnostico, quelle forme covert in cui la grandiosità e la tendenza a svalutare l’altro sono sostituiti da bassa autostima, da sentimenti di inferiorità e da dubbi pervasivi su di sé (Akthar, 1989), oppure quando il Disturbo di Asse II è temporaneamente “nascosto” da altri Disturbi di Asse I (Depressione, Ipocondria, abuso di sostanze, disfunzioni erettili, ecc).
Considerati gli aspetti problematici descritti, queste le nostre domande: Come riuscire a gestire le risposte emotive personali? Come trasmettere al paziente che la terapia può essere “un luogo” in cui la sua vulnerabilità è riconosciuta e rispettata? Esistono degli elementi che possono essere indicativi del fatto che il paziente interromperà la terapia? Se sì, come è possibile individuarli e riconoscerli tempestivamente per evitare che il drop-out si verifichi? Come gestire, da un punto di vista trattamentale, la comorbilità con l’Asse I?
Cercheremo di “saziare” la nostra curiosità finalizzata ad una migliore gestione psicoterapica di questi “particolari pazienti” partecipando al convegno “Il trattamento cognitivo del Disturbo Narcisistico di Personalità” che si terrà a Roma nel prossimo 22 Giugno e sarà condotto dal Prof. Arthur Freeman, considerato una delle massime autorità internazionali nel campo della ricerca e della clinica dei disturbi di personalità.
Bibliografia
Akhtar S., (1989). Narcissistic personality disorder. Descriptive features and differential diagnosis, Psychiatric Clinics North America, Sep; 12(3): 505-29.
Beck A.T., Freeman A., (1990). Cognitive Therapy of Personality Disorders. Guilford Trad it. Beck A.T., Freeman A. (1993) – Terapia cognitiva dei disturbi di personalità. Mediserve.