di Giulia Paradisi e Lisa Lari
Nel branco c’è sempre un animale che ha il controllo e che predomina sugli altri, che chiameremo Alfa. Alfa è superiore ai suoi simili, riesce ad ottenere più cibo, a lui spetta la scelta del luogo dove dormire ed è spaventato dall’idea che un altro membro possa sottrargli la sua posizione di “capo”, privandolo così della specialità di cui gode. E’ con questa definizione che Arthur Freeman apre il Convegno dal titolo “Il trattamento cognitivo del Disturbo Narcisistico di Personalità”, descrivendo la personalità narcisistica nella sua natura, ben illuminando il riflesso delle sue caratteristiche sulle relazioni interpersonali. Il paziente narcisista è un individuo alla costante ricerca di prove della propria superiorità, riluttante verso termini che richiamino la “normalità” o la “media”, intensamente gratificato da aggettivi come “fantastico” o “meraviglioso” ed estremamente abile nel minimizzare o nel distruggere tutto ciò che intacca la propria specialità, per lenire il dolore della ferita narcisistica che gli è stata inferta. Discutendo e allo stesso tempo sfidando il contenuto racchiuso nel sottotitolo (Quei pazienti che amiamo odiare), Freeman rivolge la seguente domanda, ottenendo scarsa risposta dalla platea: “Vi vengono in mente delle caratteristiche positive che possano essere associate al narcisista?”.
Per definizione, si tende a considerare il narcisismo come qualcosa di negativo ma in realtà, secondo Freeman, esso non deve essere concepito in modo dicotomico come buono o cattivo ma può essere posto lungo un continuum che vede tre livelli: “mild”, che non interferisce sul funzionamento dell’individuo, “moderate” che potrebbe causare delle interferenze a livello interpersonale e “severe”, che è causa di frequenti conflitti relazionali. Su tale continuum, ad un polo troviamo persone dotate di altruismo, che riescono a far spazio all’altro, mentre al polo opposto individui completamente preoccupati e assorbiti da sé, pressoché disinteressati a ciò che accade al resto dell’umanità.
“Ci sono pochi pazienti che ci mettono così tanto a disagio quanto loro”, insiste Freeman, ma nonostante questo il terapeuta deve lavorare “con” il paziente e con il suo pattern narcisista anziché contro di esso. In questo senso, il primo passo che il terapeuta deve fare prima ancora di occuparsene è quello di chiedersi quanto si senta in grado di tollerare i comportamenti tipici di un paziente con tale diagnosi. In terapia poi, una volta identificate le esperienze che rendono il paziente vulnerabile (situazioni, luoghi, persone) e gli elementi che possono far esplodere il suo narcisismo, dovrà cercare non di distruggerli ma di sfruttarli, evitando di mettersi su un piano di scontro e di disputa col paziente stesso. Tuttavia, nonostante gli anni di esperienza professionale, è proprio Freeman a dirci che per il terapeuta è opportuno accettare l’idea che non sempre si è in grado di aiutare tutti i pazienti e che ci sono rotture di alleanza terapeutica inevitabili. A questo proposito è stata molto interessante la parte dedicata ai “clinical clues for possible treatment difficulty”, cioè agli indizi clinici che ci possono dare delle informazioni su eventuali problematiche emergenti durante la terapia, quali: cronicità e numerose esperienze pregresse di trattamento, scarse compliance e motivazione al trattamento, tutte le questioni diventano “questioni me”, comportamenti percepiti come egosintonici, assenza di cambiamenti nonostante il paziente si dichiari soddisfatto della terapia, tendenza ad incolpare gli altri (“Soffro per colpa di…”).
Per quanto riguarda le indicazioni trattamentali nel lavoro col paziente narcisista, Freeman consiglia di spingere non tanto sul tasto della relazione e quindi sul legame terapeutico, ma piuttosto su quello dell’alleanza e in particolare sugli obiettivi della terapia: “Come posso aiutarti ad ottenere ciò che vuoi?”. A questo proposito si è soffermato sull’importanza di definire in modo chiaro tali obiettivi, che devono essere anche ragionevoli, sequenziali, di valore per il paziente e condivisi dallo stesso. La tipologia e la strutturazione dell’intervento dipenderà sia dal livello di gravità del pattern (più il paziente è grave più è opportuno usare tecniche comportamentali e, viceversa, una minore gravità psicopatologica richiederà un maggiore utilizzo di tecniche cognitive), sia dalla tipologia di narcisismo (sollecito, compensatorio, vendicativo, paranoide, violento, psicotico, inerme, ecc).
Fondamentale ai fini dell’efficacia dell’intervento sarebbe la concettualizzazione del caso, che funge da mappa orientativa e che, per essere utile, deve saper rispondere ad alcune domande: E’ in grado di spiegare il comportamento del paziente? Quello attuale? Sa prevedere il suo comportamento futuro?
Centrale per Freeman il concetto di schema disfunzionale che guida i comportamenti del paziente (es. “E’ importante essere notato”), che il terapeuta deve saper individuare e gradualmente modificare, possibilmente cercando di utilizzare elementi già presenti all’interno del repertorio del paziente stesso.
Per quanto riguarda la comorbilità, spesso i pazienti narcisisti arrivano in terapia per problemi di depressione e/o di ansia. In alcuni pazienti la depressione alimenta il narcisismo, mentre in altri quadri clinici è il narcisismo a sostenere la depressione, ma per la maggior parte dei casi questa influenza è bidirezionale. In questi casi di comorbilità, è opportuno dare la priorità alle manifestazioni cliniche di asse I anche perché ci sono maggiori probabilità che il paziente possa accordare un obiettivo di questo tipo. Interessante la riflessione sulla differenza nella risposta alla perdita sperimentata da un paziente con depressione di asse I da quella vissuta da un narcisista: mentre il primo non riesce più a mobilitare le proprie energie (“Non posso far nulla”), il secondo le impiega per riacquisire il bene perduto (“Devo assolutamente fare qualcosa!”). Queste sono solo alcune delle preziose indicazioni che hanno contribuito a saziare la nostra curiosità di terapeute (vedi post precedente) e che, per esigenze di brevità, non abbiamo potuto approfondire ulteriormente. Impeccabile l’organizzazione che ha reso possibile lo svolgimento del Convegno e ammirabili la chiarezza nonché la puntualità con cui l’interprete (la dott.ssa Barbara Barcaccia) ha saputo accompagnare tutta la relazione magnificamente esposta dal Prof. Arthur Freeman.
Scarica le slides dell’intervento del Prof. Freeman
Sono stata ad ascoltare il Dr Freeman venerdì 22 giugno e, come ogni volta che ascolto un cognitivista americano, mi stupisco per la grandissima capacità che hanno di essere empirici e soprattutto pragmatici nella gestione del paziente.
Il Workshop ha fornito molti spunti di riflessione e la modalità con traduttrice simultanea è stata ottima!
Molto interessante l’aspetto sugli obiettivi e soprattutto le indicazioni comportamentali da assumere con questi pazienti.
Speriamo torni presto!
Il workshop del Dr Freeman del 22 giugno non mi ha entusiasmato, nè aggiunto nulla di innovativo sul trattamento del disturbo narcisistico. Personalmente considero ben più completo, e riscontrabile nella clinica, il modello di trattamento dei Disturbi di Personalità del III Centro dell’APC di Roma.