di Chiara Lignola
“E ora cosa gli faccio?” “E se mi capita un paziente così? Lo invio? Cosa gli dico?”
Ammettiamolo: la parte che tutti noi psicoterapeuti, soprattutto in formazione e neospecializzati, attendiamo nei seminari, workshop, convegni, simposi, è il trattamento: quando, dopo l’esposizione delle caratteristiche del disturbo e del profilo interno da parte dei docenti e relatori di turno, arriva l’ansia di sapere cosa fare con il paziente! Certo c’è da dire che i pazienti con disturbo da accumulo, come è stato spiegato durante il simposio di venerdì 25 settembre 2015 (Il Disturbo di Accumulo: diagnosi e psicoterapia cognitivo comportamentale), sono poco motivati al trattamento e difficilmente si presenteranno spontaneamente nel nostro studio ma piuttosto è più probabile entrare in contatto con loro su invio e segnalazione dei servizi sociali o dei familiari, ma proprio perché, quindi, sappiamo ancora poco di questo disturbo e risulta piuttosto spinoso da affrontare, il nostro senso di smarrimento davanti a un potenziale paziente accumulatore potrebbe sicuramente risultare forse maggiore.
Niccolò Varrucciù, specializzatosi presso la sede SPC di Grosseto, nel corso del simposio, ha esposto esaustivamente i punti salienti di quello che ad oggi si conosce sul trattamento del disturbo da accumulo.
Il protocollo di trattamento, illustrato da Varrucciu, coniuga l’ERP con altre componenti della terapia cognitivo-comportamentale.
Lo scopo centrale del trattamento è addestrare i pazienti a imparare a sopportare di più̀ la sensazione che tipicamente essi vivono e cioè quella di sentire di “buttare via qualcosa d’importante”.
Tramite assessment e psicoeducazione il terapeuta cerca di incentivare la consapevolezza nel paziente sia del disturbo stesso sia, nello specifico, degli aspetti disfunzionali che lo portano a non buttare via nulla e ad accumulare nuovi oggetti.
Il trattamento prevede uno skills training mosso ad addestrare il paziente verso quelle abilità che risultano tipicamente carenti come la capacità di selezionare e organizzare gli oggetti da tenere, definendo i criteri che tengano conto dell’utilità e di un’adeguata numerosità.
La peculiarità di questo addestramento è che viene fatto in vivo, nel quotidiano del paziente, alternando sedute in studio con sedute a casa, che è tipicamente l’ambiente gravemente compromesso dal disturbo stesso, o nelle situazioni tipiche dove l’hoarder è solito accaparrare gli oggetti, applicando l’esposizione con prevenzione della risposta (ERP) e seguendo la regola “dell’evitare di evitare”. L’obiettivo che si intende raggiungere è quello di ridurre il disagio che i pazienti hoarder vivono, connesso alla possibilità di dare via o di non acquisire qualcosa di potenzialmente importante. Il trattamento prevede, inoltre, ristrutturazione cognitiva, interventi di prevenzione della ricaduta, follow up e intervento psicoeducativo sui familiari.
Ma ancora, a mio avviso, più interessante è stata la variante al modello di trattamento CBT di Frost e Steketee, illustrataci da Varrucciu: la terapia gruppo.
Le fasi previste sono sostanzialmente le stesse del trattamento individuale articolato per un totale di 5 mesi e prevede, comunque, sedute parallele individuali condotte da un terapeuta diverso dal conduttore della terapia di gruppo.
Quali sono le risorse quindi del gruppo? Il senso di inclusione, in un contesto in cui altre persone sperimentano le stesse difficoltà, riducendo il senso di stigma e vergogna rispetto al proprio disturbo, la coesione e la conseguente pressione dei pari che motivano al trattamento e al cambiamento.
Essendo gli accumulatori solitamente persone socialmente isolate, il gruppo può risultare una risorsa utile ad aiutare a ridurre l’isolamento, favorire la creazione di una rete sociale e la messa in pratica di social skills, aumentare la consapevolezza del proprio problema condividendolo con altre persone che vivono le stesse difficoltà.
La terapia di gruppo risulta, inoltre, maggiormente fattibile sia per basso costo rispetto al percorso individuale sia per portare gradualmente la persona ad accettare l’idea di affrontare il proprio problema non vivendolo più come un tabù.
Questo intervento ha dato a molti di noi spunti e idee da applicare nella propria pratica clinica. Insomma è stato uno di quegli interventi che ti fanno sentire collegato al filo dell’aggiornamento e dell’approfondimento, fonte indispensabile dalla quale ricavare nuovi stimoli e strumenti per la nostra professione.