di Roberta Trincas
La sessione è stata ricca di interventi e spunti di riflessione su tematiche diverse, dal ruolo della vergogna nelle difficoltà interpersonali, all’effetto dell’induzione emotiva sui bias attentivi, infine al ruolo del criticismo percepito nella disregolazione emotiva e nei comportamenti problematici del disturbo borderline di personalità.
Il primo intervento Il ruolo della vergogna nel malfunzionamento psicologico e nelle difficoltà interpersonali (di Annamaria Libera Lauriola, Fabiola Bianco, Marta Morbidelli, Cristina Salvatori, Barbara Basile) parte dall’osservazione che la vergogna ha un ruolo nell’insorgenza e nel mantenimento di disturbi come quello depressivo, l’ansia sociale e l’ideazione paranoide, e influisce sulle difficoltà relazionali. In particolare, in questo studio è stato dimostrato che la vergona correla con specifiche difficoltà relazionali come la mancanza di socievolezza, il bisogno di approvazione sociale, la sensibilità sociale. Inoltre, si associa a maggiori sintomi di ansia fobica, depressione, ostilità e ideazione paranoide. In aggiunta, dato che spesso la vergogna si associa ad esperienze precoci negative con i caregiver, come il rifiuto, l’umiliazione, le critiche, è stato ipotizzato che la vergogna potesse associarsi a schemi disfunzionali specifici, in particolare della madre. Mediante le analisi della mediazione si è visto che la vergogna media la relazione tra le difficoltà interpersonali e l’ansia, ma si nota solo una mediazione parziale con la depressione e l’alessitimia.
Tra le riflessioni riguardanti i risultati di questo studio alcune di rilievo riguardano innanzitutto l’ipotesi dell’esistenza di una “vergogna caratteriale”, in altre parole riguarda la vergogna rispetto alle proprie abilità sociali e stili interpersonali, quindi riguardante il proprio carattere “percepito come tratto stabile e immodificabile del sé”. Inoltre, la vergogna sembra avere un ruolo di maggior rilievo in relazione alla mancanza di socievolezza; in particolare media la relazione tra specifiche difficoltà interpersonali e il malessere psicologico. Mentre gli stili parentali non sembrano avere un ruolo preponderante nello sviluppo della vergogna. Rispetto a quest’ultimo punto, l’interessante intervento del discussant dott. Simone Gazzellini, ha sottolineato che il dato non significativo sull’influenza degli stili genitoriali può non essere rilevante se consideriamo che la vergogna potrebbe invece essere associata ad un particolare stile educativo genitoriale, per esempio critico, piuttosto che a schemi maladattivi specifici.
Il secondo intervento Emozioni, Benessere Psicologico e Perdono Interpersonale: Una Ricerca Correlazionale (di Federica Brindisino, Federica Ariano, Marianna Barucca, Rosanna Camino, Piergiorgio Carraro, Maria Dettori, Claudia Garano, Massimiliano Iacucci, Isabella Massaroni, Martina Valentini, Simona Venga, Giuseppe Vitali, Stefania Fadda, Barbara Barcaccia) ha indagato gli effetti della terapia del perdono su emozioni negative, sull’autostima, e sulla salute fisica. Ciò che attualmente si osserva è che il perdono è associato ad un umore più positivo, ad una maggiore soddisfazione per la vita, minore stress fisiologico, e meno rancore e desiderio di vendetta. In particolare, le persone più disposte a perdonare provano più emozioni positive, minore tendenza a ruminare sulla condizione attuale/fisica e umorale, maggiori sentimenti benevoli verso di sé e verso gli altri. Mentre coloro che provano desiderio di vendetta e tendenza all’evitamento mostrano più emozioni negative, depressione e tendenza alla ruminazione, sentimenti negativi verso sé (come odio e inadeguatezza), attribuzioni rigide sul comportamento dell’altro, ruminazione rabbiosa per cui è più difficile intervenire in psicoterapia. Inoltre, si osserva che nel raggiungimento del benessere non bastano i principi mindful del “non evitare” e “non desiderare vendetta” piuttosto la benevolenza verso sé e gli altri sembra essere un aspetto fondamentale. Infine, la rilevanza clinica di questo lavoro consiste nell’idea di incrementare la disposizione al perdono in terapia al fine di agire indirettamente sulle variabili considerate (sentimenti positivi/depressione/ruminazione/ecc.). Interessante l’intervento del dott. Simone Gazzellini che introduce l’ipotesi di una difficoltà di intervento terapeutico su chi non riesce a perdonare e mostra ruminazione rabbiosa, dato che il tal caso vi sarebbero due scopi attivi in conflitto fra loro (da un lato la vendetta, dall’altro il perdono).
Il terzo intervento Il ruolo della corteccia prefrontale nei bias attentivi verso la minaccia: dati preliminari di uno studio tms (di Laura Sagliano, Francesco Panico, Francesca D’Olimpio) riguarda uno studio che ha indagato il ruolo della stimolazione della corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC) nell’elaborazione di stimoli minacciosi e, quindi, il suo effetto sui bias attentivi di facilitazione, disancoraggio ed evitamento. L’idea è partita dall’osservazione che diversi studi hanno dimostrato che una singola sessione di stimolazione magnetica transcranica (Transcranial Magnetic Stimulation; TMS) ad alta frequenza della corteccia dorsolaterale destra (dorsolateral prefrontal cortex; DLPFC) determina una difficoltà a inibire l’elaborazione delle informazioni negative. A tal proposito hanno utilizzato un paradigma attentivo di Posner con la presentazione di stimoli emotivi. Ciò che ha colpito gli autori di questo studio è che diversamente dalle evidenze empiriche che dimostrano il ruolo della DLPFC destra, nel loro studio la stimolazione della corteccia DL sinistra sembra essere associata a bias di disancoraggio, ossia dalla difficoltà a staccare l’attenzione dallo stimolo minaccioso. La presenza di questo bias in seguito a stimolazione della DLPFC sinistra suggerisce che, per aiutare a ridurre il bias di disancoraggio, tale area deve essere stimolata nelle prime fasi di elaborazione della minaccia con un paradigma di stimolazione online.
Gli autori spiegano tale risultato con l’idea che la DL sinistra avrebbe un ruolo nel controllare l’amigdala e ridurre l’attenzione rivolta a stimoli emotivi (disancoraggio da stimoli emotivi); in altre parole stimolando quest’area si attiverebbe un maggiore controllo e quindi una tendenza ad evitare tali stimoli. Un’altra osservazione interessante riguarda il fatto che le aree prefrontali sembrano essere implicate nei bias attentivi già nelle prime fasi di elaborazione dello stimolo.
Il quarto intervento, Bias attentivi verso la minaccia: effetto dell’induzione dello stato emotivo (di Laura Sagliano, Valentina Di Mauro, Marina Di Domenico, Caterina Cozzolino, Luigi Trojano, Francesca D’Olimpio) sulla stessa onda del terzo, ha indagato l’effetto dell’induzione dell’umore sui bias attentivi partendo dall’ipotesi secondo cui gli stati emotivi possono orientare e influire sui processi attentivi (facilitazione nell’individuazione di stimoli emotivi e difficoltà di disancoraggio da questi ultimi). In questo studio l’induzione emotiva consisteva nel chiedere ai soggetti di descrivere un evento in cui avevano avuto paura, uno in cui avevano provato felicità e una giornata tipo (gruppo di controllo neutro). Anche in questo caso i soggetti eseguivano un compito di Posner. Ciò che emerge è che i soggetti a cui era stata indotta paura mostravano un bias di disancoraggio maggiore rispetto al gruppo di controllo, e ciò si può interpretare con l’idea che lo stato emotivo di paura è associato ad una difficoltà a spostare l’attenzione da contenuti minacciosi. Questo dato conferma che l’attenzione visiva può essere influenzata dallo stato affettivo dell’osservatore coerentemente con altri studi (Jefferies et al., 2008), e sono un utile indicazione del modo in cui gli individui reagiscono in condizioni di percezione di minaccia.
Una delle osservazioni emerse durante la discussione riguarda il fatto che bastano 100 millisecondi per identificare una minaccia, la relatrice risponde citando studi che dimostrano che bastano anche 20 millisecondi per identificare stimoli sottosoglia. La spiegazione che viene data è che ci sarebbe una prima elaborazione limbica priva di consapevolezza e un successivo intervento della corteccia prefrontale. Inoltre, lo studio sottolinea che anche i soggetti normali possono mostrare bias attentivi in condizioni di induzione dell’umore o di stimolazione.
Il quinto intervento Il ruolo del criticismo percepito nelle strategie di regolazione emotiva e comportamentale del disturbo borderline di personalità (di Lo Sterzo E., Martino F., Bortolotti B., Monari M., Sasdelli A., Tedesco P., Manzo V., Menchetti M., Berardi D.) parte dalla teoria della Linehan secondo cui nel disturbo borderline la vulnerabilità emotiva e un ambiente familiare invalidante sarebbero associati ad una disregolazione emotiva e comportamentale. Per ambiente invalidante si intende un insieme di risposte estreme/inappropriate/imprevedibili al bisogno di comunicare le proprie esperienze. In particolare questo studio si focalizza sul ruolo del criticismo percepito nei processi di regolazione emotiva e comportamentale. Per criticismo percepito si intende il “ricorso ripetitivo al rimprovero. Il criticista vuole modificare e controllare il comportamento altrui tramite rimproveri in modo da stabilire ciò che è bene o male per l’altro”. Un aspetto importante del disturbo borderline è che non sembra essere rilevante quanto oggettivamente è critico l’ambiente familiare, piuttosto quanto la persona percepisce soggettivamente un certo livello di criticismo. Gli studi sul criticismo nel borderline osservano che un alto criticismo percepito si associa a più strategie di regolazione disfunzionali, coping maladattivo, evitamento, più sintomi borderline, maggiore disregolazione emotiva, e ad una maggiore tendenza a percepire invalidazione nelle relazioni significative attuali così come in quelle passate (Sturrock et al., 2009; Saver e Baer, 2010; Sturrock e Mellor, 2013). Sulla base di queste osservazioni lo scopo dello studio è di verificare se nei borderline il criticismo percepito predice l’aggressività verso di sé (autolesionismo) e verso gli altri; inoltre, se le difficoltà di regolazione emotiva sono un fattore che media la relazione tra criticismo e comportamenti problematici. I risultati mostrano che il criticismo percepito effettivamente predice in modo significativo la tendenza a mettere in atto comportamenti aggressivi e gesti autolesivi. Mentre le difficoltà di regolazione emotiva sembrano avere un ruolo parziale nella mediazione tra criticismo e comportamenti problematici. Inoltre, mentre il criticismo sembra avere un forte impatto sull’aggressività etero-diretta, l’autolesionismo sembra essere più influenzato dalle difficoltà di regolazione emotiva di fronte a situazioni interpersonali
Gli autori spiegano il fatto che il criticismo predice comportamenti problematici auto ed etero-diretti con l’idea che i borderline avrebbero una sensibilità/reattività emotiva più marcata rispetto a individui con altri disturbi, e sulla base di tale osservazione confermano l’idea della vulnerabilità biologica della Linehan. Tuttavia, la discussione successiva rispetto a quest’ultimo punto ha generato riflessioni importanti. Il prof. Mancini ha sottolineato che i risultati sembrano essere in linea con una falsificazione del modello della Linehan, proprio perché il criticismo sembra essere indipendente dalla disregolazione emotiva mentre è un fattore rilevante nello sviluppo di comportamenti aggressivi. Quindi, è possibile che nello sviluppo dei comportamenti problematici borderline non sia in gioco la disregolazione emotiva, piuttosto sembra avere più importanza l’ambiente e il criticismo percepito. Un’altra osservazione ha sottolineato che probabilmente la differenza osservata tra borderline e soggetti con altri disturbi possa essere riconducibile ad un differente livello di criticismo percepito tra i due gruppi, aspetto che rimane da indagare. Infine, l’intervento del dott. Gazzellini sottolinea l’importanza di spostare il focus dall’idea di un ambiente totalmente invalidante che influisce sullo sviluppo di problematiche di tipo borderline, alla possibilità che i pazienti borderline abbiano invece una percezione distorta dell’ambiente di appartenenza e delle figure significative, percependole come eccessivamente critiche rispetto a quanto lo siano oggettivamente.
L’ultimo intervento Soddisfazione Sessuale Percepita e Stati Emotivi Negativi: Studio Correlazionale (di Benedetti G., Boccasecca A., Maestri L., Loppo M., Pellegrino V., Pilia G., Rignanese M. e Caselli G) indaga il ruolo del rimuginio/ruminazione sul funzionamento sessuale indipendentemente da ansia e depressione. A tal fine è stato costruito uno strumento che misura il rimuginio, quindi le preoccupazioni a contenuto sessuale. E’ stato poi somministrato ad un campione di donne insieme ad altri test sul funzionamento sessuale, STAI, BDI, e ruminazione su contenuti diversi. Ciò che si osserva è che le preoccupazioni di tipo sessuale influiscono sulla soddisfazione sessuale, ad esempio hanno un effetto negativo come il calo del desiderio o ansia da prestazione, o ancora mancanza di spontaneità. Dalle analisi della regressione si osserva che sia l’ansia che il rimuginio a contenuto sessuale sono predittori del funzionamento e della soddisfazione sessuale. Una spiegazione rilevante dei risultati fornita dagli autori è che i risultati andrebbero a favore dell’importanza del contenuto del rimuginio, diversamente dalla corrente attuale che focalizza ad esempio l’intervento terapeutico solo sul processo di pensiero. Infatti, in questo studio emerge che se il rimuginio è su contenuti di tipo sessuale ciò influisce negativamente sulla soddisfazione e il funzionamento sessuale, diversamente da forme di rimuginio riguardanti altri contenuti.