di Valentina Silvestre e Caterina Parisio
In un clima di condivisione e appartenenza, per un progetto comune di formazione e di ricerca, l’AIDAS (Associazione Italiana Disturbi dell’Ansia Sociale) e la SITCC (Società Italia Terapia Cognitivo-Comportamentale) hanno organizzato una giornata di studio che si è tenuta sabato 3 Ottobre a Napoli, giornata in cui si è parlato di “non condivisione” e “non appartenenza”.
Nel Convegno su “Psicoterapia Cognitiva dell’Ansia e del Ritiro Sociale” è stato fatto il punto sullo stato dell’arte rispetto agli aspetti psicopatologici e alle modalità di trattamento dell’ansia sociale. Disturbo che rappresenta una realtà clinica di sempre maggiore impatto nella pratica quotidiana di psicoterapeuti e psichiatri e che impone un costante aggiornamento per poter fornire le migliori risposte e saper applicare efficaci protocolli di trattamento.
Il primo contributo è stato quello del Dr. Michele Procacci, che ha affrontato il delicato tema della “connessione” con gli altri attraverso l’uso delle moderne tecnologie.
Quanto, oggi, gli spazi virtuali hanno sottratto il posto ai reali spazi di condivisione e conoscenza? E quanto, l’uso massivo di social e nuovi strumenti di comunicazione ci porta ad aprire spazi di riflessione riguardo il modo di “sentirsi parte” di un giovane oggi? Potremmo tracciare tre strade per cercare di capire e mettere insieme concetti come esclusione e solitudine con social network e tecnologia: la prima riguarda l’uso funzionale degli odierni mezzi e le grosse potenzialità che essi offrono nel creare legami, tenersi in contatto e condividere, senza rappresentare una modalità di isolamento. La seconda riguarda chi, pur non giungendo ad osservazione clinica e non lamentando difficoltà nello stare con gli altri, fa ormai di un computer o di un cellulare “l’amico” prossimale a cui rivolgersi per gran parte del tempo, distorcendo così la qualità dei rapporti reali fatti di emotività e contatto. Abbiamo poi un terzo aspetto, forse il più interessante dal punto di vista clinico per gli addetti al mestiere: quello di chi, vivendo il rapporto con l’altro con estremo dolore, in un continuo stato mentale di minaccia per il timore del giudizio, fa della solitudine, dell’isolamento e del ritiro sociale, attraverso una vita vissuta “al di là” dello schermo, l’unica modalità di fronteggiamento di un malessere profondo. Ed una nuova domanda sorge così spontanea: quanto la solitudine rappresenta uno stato desiderato e l’isolamento una condizione voluta e quanto, invece, non sono altro che manifestazione di un disturbo?
Pensiamo al caso degli Hikikomori: nonostante non sia ad oggi presente in nessuna categoria diagnostica del DSM 5, numerosi studi lanciano l’allarme circa un esponenziale aumento del fenomeno (Koyama et al., 2010). Adolescenti e giovani adulti che cominciano a manifestare una specifica serie di sintomi, caratterizzati essenzialmente da letargia, incomunicabilità, depressione e soprattutto marcato, spesso totale, isolamento e ritiro. Quadro sovrapponibile a soggetti che soffrono di Ansia Sociale, di un Disturbo Evitante di Personalità o altri quadri psicopatologici? Allo stato attuale non esistono dati certi in merito, ma ciò che sappiamo, con sicurezza, è quanto il non riuscire ad entrare in contatto con l’altro causi disagio, quanto il sentirsi a disagio nelle relazioni spinga un soggetto ad evitare situazioni sociali e a ritirarsi.
Il Dr. Pietro Grimaldi ha affrontato il tema del giudizio da parte degli altri, costrutto che risulta essere fondamentale per l’essere umano, in quanto costruisce la base per la “stima” di sé ed è funzionale al raggiungimento di un altro importante scopo, frequentemente terminale: la buona immagine. Temere di ricevere un giudizio negativo, inoltre, espone le persone alla paura di essere esclusi e sperimentare dolore (dolore sociale come il dolore fisico)
L’intervento tenuto dal Dr. Giuseppe Romano, che si è concentrato maggiormente sull’età evolutiva, ha affrontato argomenti quali il timore del giudizio negativo, il senso di inadeguatezza come fattore di vulnerabilità, l’emozione di vergogna e le principali linee guida nel trattamento dei disturbi d’ansia.
Immaginiamo un adolescente e proviamo a pensare quanto per lui sia fondamentale raggiungere lo scopo della “buona immagine”; questo avrà una doppia valenza in quanto, da un lato assolverà alla funzione evolutiva di essere “adottato” dagli altri, scelto, visto e sperimentare, così, senso di appartenenza; dall’altro servirà a perseguire lo scopo della buona immagine in senso terminale (Castelfranchi C., Mancini F., Miceli M., 2002). Quando tale scopo è attivo e viene minacciato, il soggetto sperimenterà vergogna, leggendo tale emozione come mancanza di potere e senso di inadeguatezza; diventerà, quindi, segnale di debolezza che potrà essere giudicata negativamente dall’altro (metavergogna). Una riflessione interessante, fornita nel corso dell’intervento, ha riguardato il ruolo dell’evitamento che, in certe circostanze, può assumere la valenza di risorsa, adottata dai giovani pazienti per sottrarsi a situazioni connotate in modo estremamente doloroso.
Discussi i vari passaggi da affrontare in un protocollo CBT per DAG-FoS-AS (psicoeducazione, gestione componenti somatiche, ristrutturazione cognitiva, problem solving, esposizione), un accento particolare si è posto sulle modalità da utilizzare per favorire l’autosvelamento, attraverso cui i pazienti si esporranno non solo all’ansia, ma anche alle parti di sé giudicate negativamente, così da produrre un cambiamento di visione sui propri limiti e normalizzare episodi come, ad esempio, rossore del viso e sudorazione vissuti sempre in modo estremamente negativo e doloroso.
Una volta esposte nella prima parte della giornata le caratteristiche principali dei disturbi d’ansia e aperta la strada ai protocolli di trattamento, si è proseguito nella ripresa pomeridiana verso la trattazione dei principali piani di intervento.
Il Dr. Nicola Marsigli, ad esempio, riprendendo concetti quali condivisione del modello con il paziente e individuazione dei principali fattori di mantenimento, ha concentrato l’intervento sull’importanza dell’auto focalizzazione nell’ansioso sociale, così da allenare l’attenzione a non dirigersi esclusivamente sui segnali interni di imbarazzo e disagio, e ha approfondito punti quali la rappresentazione della mente altrui e il miglioramento delle abilità di decentramento.
Se nei primi interventi si è parlato di vergogna/timore della vergogna quale emozione fondamentale sperimentata dall’ansioso sociale, con il Dr. Nicola Petrocchi, il focus si è spostato verso il concetto di autocritica, anch’essa centrale nel mantenimento del disturbo (Cox et all., 2004).
A tal riguardo un importantissimo aiuto nel trattamento sembra giungere da un approccio psicoterapeutico (o meglio psico-fisioterapico, Gilbert 2005) di recente diffusione: la Compassion Focused Therapy. La CFT offre una spiegazione della psicopatologia e del suo mantenimento basata sulle dinamiche di attivazione di alcuni sistemi di regolazione emotiva presenti nel nostro cervello e propone una visione del processo di cambiamento che si basa sulla modulazione di sistemi motivazionali e affettivi connessi all’attaccamento, la cui attivazione garantirebbe un cambiamento nel paziente che spesso non è possibile solo attraverso un intervento diretto sulle sue credenze disfunzionali. La CFT nasce proprio a seguito dell’osservazione clinica che alcuni pazienti, particolarmente autocritici e auto-colpevolizzanti, non migliorano con la terapia standard. Secondo Gilbert in questi pazienti così autocritici c’è uno squilibrio, acquisito nell’infanzia, nei sistemi di regolazione delle emozioni. La terapia mira pertanto all’attivazione del sistema di consolazione in modo che sia utilizzato per regolare le emozioni basate sul senso di minaccia, come la rabbia, la paura, il disgusto e la vergogna. In particolare, essendo il sistema di sicurezza e benessere estremamente sensibile a input di tipo sociale, la relazione terapeutica costituirebbe, secondo Gilbert, la relazione ideale nella quale il paziente può sperimentare (in alcuni casi per la prima volta) l’esperienza emotiva dell’accudimento, della gentilezza, del contenimento affettivo e di tutti quei vissuti interiori che, in una parola, egli definisce “compassione”.
Al di là degli aspetti tecnici di conduzione della Compassion Focused Therapy, il messaggio che a tutti è arrivato riguarda la necessità di fare della “compassion” una vera e propria cornice contornante tutte le tecniche.
“Gli approcci terapeutici assumono che la psicoterapia dovrebbe essere condotta in un modo compassionevole che sia rispettosa, di sostegno e, in generale, gentile con i pazienti “(Gilbert, 2007).
Nell’ambito dell’ultimo intervento della giornata, il Dr. Fabio Moroni e il Dr. Giovanni Pellecchia hanno presentato le linee di un nuovo interessante intervento di gruppo per il ritiro sociale: il social skill training. Il trattamento illustrato ha l’obiettivo di promuovere le abilità metacognitive ed emotive alla base dei processi di inclusione sociale e di ridurre quei vissuti di estraneità e non appartenenza che caratterizzano i pazienti socialmente ritirati. L’intervento si struttura in 4 moduli: Regolazione emotiva, Metacognizione, Competenza Interpersonale, Mindfulness. Ogni modulo prevede una parte di psicoeducazione, in cui viene spiegata una nuova abilità; l’esercitazione dell’abilità, con l’ausilio di compiti a casa, role playing e simulate di gruppo; l’esperienza di condivisione, con revisione dei compiti a casa, problem solving di gruppo, role playing e simulate di gruppo.
Ampia rilevanza è stata riservata alla definizione del costrutto di condivisione e alle sue implicazioni cliniche. A tale scopo è stato illustrato un modello di condivisione che si struttura su quattro livelli differenti: a breve termine, a lungo termine, stati piacevoli e spiacevoli, confidenze e intimità.
Il primo passo per intervenire sulla condivisione sarà quello di ridimensionare l’aspettativa di dover entrare in intimità con tutti e promuovere un livello graduale che permetta di avere obiettivi percepiti come raggiungibili.
Durante la presentazione, sono state proiettate due videoregistrazioni di simulate effettuate durante il trattamento di gruppo: la scena riproposta è quella di due persone in macchina che tengono una conversazione. Nella prima si nota come i due pazienti sono focalizzati sulla prestazione con conseguente disagio, ansia, imbarazzo. La difficoltà maggiormente riscontrata è stata verbalizzata con “Cosa dico adesso?”. Segue l’intervento del terapeuta sugli aspetti della condivisione, riprendendo il principio della gradualità del modello dei quattro livelli: a partire da un drive esterno il paziente è sollecitato ad iniziare la condivisione. Nella seconda simulata, le caratteristiche principali sono, questa volta, la spontaneità, il piacere e la condivisione di stati emotivi. Uno spazio, questo, che ha consentito una maggiore interazione con i partecipanti, domande e curiosità.
La condivisione, intesa come capacità che questi pazienti possiedono ma che richiede un costante allenamento, resta l’aspetto principale di questo trattamento.
Ultimo contributo è stato quello della Dr.ssa Giulia Brescia, che ha interamente dedicato la propria esposizione alla presentazione dell’esperienza di lavoro clinico del gruppo “Conosci Te Stesso”. Inizialmente nato per il trattamento in coterapia dei Disturbi di Personalità, il gruppo è stato poi rimodulato per pazienti con Disturbo (e tratti) di Disturbo Evitante di Personalità. Si tratta di un gruppo aperto, guidato da un terapeuta e coterapeuta, articolato in incontri mensili, paralleli alla psicoterapia. Il ruolo del coterapeuta è quello di osservatore distaccato, facilitatore e memoria del gruppo. L’obiettivo dell’intervento illustrato è il potenziamento di quelle funzioni metacognitive che risultano tipicamente carenti in pazienti con ritiro sociale: monitoraggio, decentramento, mastery e differenziazione.
Strumento molto utile e ampiamente descritto è stato il lavoro con le “Carte della Personalità” o “Carte degli Stati Mentali”, rinominato dai pazienti “Gioco delle carte”. Le carte sono divise in quattro categorie:
Emozioni: colpa (autodiretta)-rimorso, ansia, empatia-compassione, disgusto-rifiuto-disprezzo, gelosia, gioia-conforto-fiducia-condivisione, orgoglio-superiorità-trionfo, invidia
Pensieri: accudimento non ricevuto, autostima negativa, autostima positiva, costrizione
Relazioni: accudimento, agonismo in dominanza, agonismo in resa, attaccamento, cooperazione, sessualità
Risorse: “Mi capisco”, “Ti capisco”, “So che quello che penso non coincide con la realtà”, “So cosa fare!”.
Durante l’incontro, il paziente è invitato a prendere una carta per le prime tre categorie e a raccontare una storia, personale o inventata. Attraverso la costruzione della storia, viene sollecitato il confronto e la condivisione della narrazione: in questo modo il paziente è portato all’identificazione e all’acquisizione di nuove risorse, nonché al riconoscimento dei cicli interpersonali e alla gestione degli stati mentali problematici, fine ultimo del trattamento.
La giornata si è conclusa con un breve spazio dedicato alle domande, nello stesso contesto di condivisione e appartenenza iniziali ma con molti più spunti di riflessione e con l’entusiasmo e la voglia di un nuovo e ravvicinato incontro e aggiornamento.