La compartecipazione e la condivisione del significato dell’esperienza soggettiva. Un’opportunità di incontrare anche noi stessi: la commozione annuncia un’occasione di “sintesi personale”
Partiamo da una definizione di commozione (dal lat. muovere con, muovere insieme): è un sentimento intenso benevolo e amorevole di compassione, tenerezza, pietà o ammirazione, che può suscitare il pianto. La peculiarità della commozione è che le lacrime possono affiorare anche in situazioni che non sono tristi o dolorose. A volte, abbiamo gli occhi lucidi per la gioia o proviamo un sentimento misto di tristezza e felicità. Spesso, infatti, non sappiamo distinguere perché stiamo piangendo.
Se è vero che si piange quando si soffre o quando condividiamo empaticamente la sofferenza di qualcun altro, perché mai ci commuoviamo anche osservando qualcuno che sta bene o che è felice? Perché sentiamo un fondo di contentezza mentre ci si inumidiscono gli occhi?
Bisogna tenere presente che, fin dalla nascita, è parte della nostra natura ricercare la vicinanza protettiva dei nostri simili quando versiamo in condizioni di bisogno, ad esempio quando abbiamo paura, o proviamo un qualche tipo di sofferenza sia fisica sia emotiva. Questa propensione si chiama “attaccamento” ed è presente in tutte le specie che si prendono cura della prole. Il pianto è un comportamento innato che serve come segnale per i nostri simili, una specie di messaggio universale che significa: “Stammi vicino”.
La seconda caratteristica distintiva della commozione, oltre agli occhi lucidi, è una serie di sentimenti di empatia, tenerezza e compassione. Ebbene, questi sono indicatori emotivi di un’altra tendenza innata, complementare a quella dell’attaccamento: l’“accudimento”, una propensione a prenderci cura dei nostri simili quando ci appaiono in condizioni di bisogno. Riassumendo, nella commozione sembrano attivarsi contemporaneamente e in modo istintivo due ordini di motivazioni di base (o sistemi motivazionali) complementari: una che segnala il bisogno di vicinanza protettiva (attaccamento), l’altra che spinge ad essere empatici e a prendersi cura dell’altro (accudimento). In sostanza, quando ci commuoviamo, ci disponiamo istintivamente sia ad offrire sia a richiedere conforto.
Per capire verso chi siano rivolte queste nostre disposizioni d’animo, dobbiamo fare appello agli aspetti più sofisticati della nostra umanità: la capacità di attribuire un significato alle cose e di condividere questo significato con gli altri.
Facciamo un esempio. Immaginiamo un visitatore di un museo che osservi un dipinto, come i famosi Girasoli di Van Gogh. Il visitatore del museo ha saputo che l’artista aveva dipinto questo quadro per il suo amico Gauguin. Erano entrambi poveri ed emarginati: Van Gogh si preoccupava che la stanza del suo amico fosse disadorna e ha pensato di regalargli qualcosa di colorato. Il visitatore si rende conto che la bellezza del quadro racconta una storia di profonda amicizia, di povertà e di generosità, di condivisione della grazia, anche nelle avversità. Qualcosa dentro quel visitatore si riconosce, in parte nelle sofferenze dei protagonisti, in parte nella loro capacità di affrontare insieme le avversità e trasformarle in qualcosa di bello da condividere: fiori colorati che durano nel tempo. In quel momento, i girasoli diventano un dono personale anche per il visitatore che, a questo punto, si commuove.
Quando ci commuoviamo, sperimentiamo un momento di incontro profondo non solo con l’esperienza soggettiva di un altro essere umano, ma con noi stessi e con la nostra storia personale. Le lacrime affiorano come quando abbracciamo un amico ritrovato, di cui abbiamo sentito la mancanza. E in quell’abbraccio, per qualche istante, ci sentiamo parte di un tutto. Questa è quella che gli studiosi chiamano “intersoggettività”. Commovente, no?
Per approfondimenti:
Liotti G. (2005) “La dimensione interpersonale della coscienza”. Roma, Carocci.
Stern D. (2005) “Il momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana”. Milano, Raffaello Cortina.