Il bias cognitivo nello scanner

di Annalisa Bello

Quando l’evidence based non risparmia nulla, anche i bias cognitivi entrano nel tubo della risonanza, riflettendosi nelle neuroimaging. Un recente studio, pubblicato su Current Biology e recensito on line come la “sorprendente” evidenza che l’ansia altera la percezione della realtà, ha catturato la mia attenzione.

Trattasi di uno studio volto ad indagare, sia a livello comportamentale che cerebrale (mediante fMRI), la generalizzazione in soggetti con Disturbo d’Ansia Generalizzato (DAG). Per far ciò, gli autori hanno articolato la procedura sperimentale in due fasi: una fase di condizionamento e una di generalizzazione. Nella prima fase, i partecipanti allo studio sono stati condizionati a tre suoni (300, 500 e 700 Hz per 300 msec) con valenza emozionale positiva, negativa e neutra. Lo stimolo sonoro “positivo” era associato ad un guadagno monetario; quello negativo ad una perdita; mentre quello neutro non comportava conseguenza alcuna. A condizionamento avvenuto, aveva inizio la fase di generalizzazione, verso cui i ricercatori erano particolarmente interessati. L’obiettivo, infatti, era quello di indagare eventuali differenze nella generalizzazione tra stimoli positivi e negativi, in pazienti con DAG rispetto ai controlli. A tal fine, ogni partecipante era chiamato ad identificare gli stimoli sonori (della sola valenza “negativa” vs. “positiva”), già ascoltati nella precedente fase di condizionamento, da suoni nuovi non ascoltati precedentemente.

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Una corretta classificazione degli stimoli, (rispetto alla quale i partecipanti non ricevevano nessun feedback) avrebbe esitato in un guadagno monetario piuttosto che in una perdita, nel caso di una classificazione errata. Sia a livello comportamentale che a livello cerebrale, gli autori riportano significative differenze tra i due gruppi, DAG vs. controlli. Sul piano comportamentale, 1) rispetto alla valenza dello stimolo (“+/gain” vs. “-/loss”), in entrambi i gruppi vi era una maggiore generalizzazione per gli stimoli negativi rispetto a quelli positivi; 2) rispetto ai gruppi, invece, i pazienti con DAG riportavano una generalizzazione significativamente più ampia sia per gli stimoli negativi che per quelli positivi, se confrontati con i controlli. Questo pattern comportamentale è stato discusso dagli autori come prova di un’alterata percezione dello stimolo. Ma come si riflette tutto ciò a livello di attivazione cerebrale? Anche a livello funzionale, è stato evidenziato un pathway neurale che distingue i due gruppi rispetto alla fase di 1) condizionamento, con un maggior coinvolgimento, per i soggetti con DAG vs. i controlli, delle regioni sottendenti la modulazione emozionale (corteccia cingolata anteriore) e alla rappresentazione sensorio-uditiva (cortecce uditive); 2) generalizzazione che per i soli soggetti con DAG si associava, a livello di corteccia uditiva primaria, ad una significativa relazione tra l’attivazione cerebrale legata allo stimolo condizionato, di entrambe le valenze, e quella relativa allo stimolo sonoro nuovo. Solo l’amigdala, invece, rifletteva tout court il pattern comportamentale rispetto ai gruppi e rispetto alle valenze. L’attivazione dell’amigdala si associava significativamente alla bassa discriminazione (e, quindi, alta generalizzazione), che i soggetti con DAG, operavano tra gli stimoli condizionati con valenza emozionale vs. quelli nuovi. La risposta che si associava agli stimoli con valenza negativa era più spiccata rispetto a quella riportata per gli stimoli positivi.

Per farla breve è come se l’esperienza emozionale e affettiva associata al condizionamento (positivo e negativo) venisse spalmata e generalizzata ad esperienze successive legate a stimoli neutri, privi di valenza emozionale.

Per Laufer e collaboratori, il (a noi noto) bias cognitivo della generalizzazione sembrerebbe avere origini percettive e coinvolge le cortecce uditive primarie e l’amigdala nella modulazione affettiva delle rappresentazioni sensoriali di uno stimolo.

A mio parere, queste interessanti evidenze sperimentali rischiano di veicolare un messaggio fuorviante che rischierebbe di spiegare la psicopatologia in termini di deficit o alterazioni. Il pericolo sarebbe proprio quello di eclissare l’individualità del paziente e con essa l’importanza che gli scopi hanno nella spiegazione della sofferenza psicologica. Pertanto, perché non impegnarsi al fine di gettare le basi di un fruttuoso dialogo tra la clinica e le neuroscienze? Da una fugace analisi costi-benefici, mi sbilancerei per i secondi! Voi che ne dite?

Bibliografia

Laufer O, Israeli D, Paz R. Behavioral and Neural Mechanisms of Overgeneralization in Anxiety. Curr Biol. 2016 Mar 2. pii: S0960-9822(16)00073-7. doi: 10.1016/j.cub.2016.01.023. [Epub ahead of print]

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