di Livia Colle
Un trattamento tempestivo appropriato può migliorare la qualità della vita dei bambini affetti dal disturbo e delle loro famiglie
Lo sviluppo delle conoscenze e dell’interesse per l’autismo negli ultimi 30 anni è sorprendente. Oggi, citare l’autismo o i disturbi dello spettro autistico evoca nella maggior parte delle persone l’immagine di un individuo con gravi difficoltà sociali: “Sono quelle persone che non ti guardano mai negli occhi, stanno sempre in un angolo e hanno delle manie un po’ strane”, si pensa comunemente. La percezione può essere anche più lieve: “Sono persone molto intelligenti o semi fenomeni… Un po’ strani, però. Ogni tanto dicono delle cose che non ti aspetti, fanno commenti curiosamente ingenui, oppure inadeguati e spiacevoli rispetto al contesto d’interazione”.
Sebbene molto diverse tra di loro, entrambe queste rappresentazioni dell’autismo sono corrette e colgono il nucleo centrale del disturbo: l’incapacità di reciprocità sociale, che può manifestarsi, nelle forme più gravi, con l’assenza di linguaggio, di gesti comunicativi e di sguardi o espressioni emotive e, nelle forme più lievi, con l’inettitudine a costruire relazioni interpersonali con i coetanei e di sostenere in modo fluido e adeguato le conversazioni e il gioco con gli altri.
I risultati di ricerca di questi ultimi anni in ambiti diversi, dalla psicologia clinica e dello sviluppo alle neuroscienze e alla genetica, concordano nel riconoscere nel deficit di reciprocità la caratteristica principale del disturbo, indipendentemente dal livello di gravità.
L’interesse e l’accordo dei dati emersi ha avuto ricadute importanti sia sulla sensibilizzazione e divulgazione delle informazioni sia sulla accuratezza nel fare diagnosi di autismo.
Sono stati messi a punto, infatti, strumenti diagnostici più accurati e sensibili, capaci di individuare le difficoltà di reciprocità sia nelle forme più lievi del disturbo autistico (che il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali definiva “Sindrome di Aspeger”), sia nelle sue manifestazioni più precoci, in età preverbale. Il risultato è stato un aumento considerevole dei casi diagnosticati (l’incidenza del disturbo è passata da un rapporto di circa 7 su 10.000 negli anni ’80 ad un rapporto di 20 su 10.000 negli 2000) e di diagnosi già a partire dai 18 mesi di età. La diagnosi precoce, in particolare, si è dimostrata un elemento importantissimo per la possibilità di miglioramento e di prognosi del disturbo: l’intervento immediato, infatti, offre al bambino modelli di comportamento e di interazione alternativi che gli danno la possibilità di costruire gradualmente scambi interpersonali più adeguati.
Insegnare a un bambino ad indicare quando è interessato a qualcosa, a guardare negli occhi quando gli stiamo parlando, a imitare un’azione che abbiamo fatto è possibile e sembra poter potenziare i passaggi di sviluppo successivi. Molto più difficile è spiegare a un ragazzo che cosa significhi la reciprocità durante una conversazione con un conoscente. La diagnosi e il trattamento sembrano essere, pertanto, inestricabilmente legati l’una all’altro. L’autismo, allo stato attuale, non può essere guarito, ma un trattamento tempestivo appropriato può migliorare notevolmente la qualità di vita dei bambini affetti da tale disturbo e delle loro famiglie. Nonostante l’importanza di una diagnosi precoce, ancora oggi il più delle volte i bambini vengono segnalati ai servizi molto più tardi, dai i tre anni in poi. La mancanza di invii precoci è dovuta a diversi fattori, in primis la mancanza di familiarità da parte dei pediatri, degli insegnanti di scuola materna e dei genitori rispetto ai primi campanelli di allarme del disturbo. È auspicabile che in futuro lo stesso fenomeno di divulgazione e di sensibilizzazione di cui è stato oggetto l’autismo nel suo complesso possa ora estendersi ai primissimi segnali d’allarme, così preziosi per il trattamento.