a cura di Roberto Lorenzini
Ho avuto il privilegio di vedere il film “La pazza gioia” di Paolo Virzì in anteprima, in una proiezione privata in cui io e Brunella sembravamo il remake di Albertone e Augusta, immersi tra i VIP del bel mondo dello spettacolo, grazie al fatto che il regista mi aveva incontrato proprio sulle pagine di State of Mind quando stava immaginando il film e aveva voluto conoscermi, per scambiare qualche idea su come funzionino oggi le cose nell’universo della salute mentale. Serio e scrupoloso, ha svolto accurate indagini alla ricerca dei vissuti profondi che animano i protagonisti del grande teatro della salute mentale in Italia, diventandone appassionato esperto. Non tutti vengono assolti ma, alla fine, ognuno è compreso e perdonato ( insomma ci è andata bene!) per cui sarebbe interessantissimo intervistarlo al termine di questa esperienza.
Quattro anni fa pubblicammo un libro dal titolo “Territori dell’incontro”, che trattava di libri e film che parlano della sofferenza mentale e del loro possibile utilizzo in psicoterapia e nella formazione professionale. Certi disturbi, una volta visti sul grande schermo penso, ad esempio, agli ossessivi di Carlo Verdone o ai matti di Jack Nicholson, non li dimentichi più, al contrario di quando li leggi sui libri. In quel libro, oltre a trattare tutti i singoli disturbi, si parlava dei sistemi curanti. Moltissimi psichiatri della mia generazione hanno scelto questo mestiere per combattere a fianco di Nicholson in “Qualcuno volò nel nido del cuculo” ed hanno costruito quel mondo imperfetto dei servizi pubblici e del privato sociale che viene ben rappresentato anche in “Si può fare” di Giulio Manfredonia che, di quel libro, fece la prefazione. Ora mi toccherà aggiornare quel volume per far posto a questo gioiellino di Paolo Virzì.
Quando esce qualcosa che riguarda il mondo della sofferenza mentale tutti noi operatori vi ci gettiamo avidi, felici che se ne parli non soltanto nei titoli della cronaca nera e desiderosi di riaffermare appassionatamente le nostre idee, scontrandoci come solo la direzione del PD sa fare. Il livello di psicopatologia che serpeggia tra noi curanti è decisamente superiore alla media e la riforma basagliana ha avuto perlomeno il merito di togliere un po’ di operatori dalla strada. La maggior parte dei film sul sistema curante si occupa dei manicomi, per stigmatizzarne gli orrori e la soddisfazione orgogliosa di averli, primi nel mondo, chiusi e della psichiatria territoriale, per sottolinearne l’insufficienza di risorse e l’abbandono dei pazienti nonostante l’impegno di terapeuti spinti da una vocazione talvolta eroica. Dall’altro lato, quando si parla del privato, ci si concentra soprattutto sugli studi di psicoterapia i quali, che siano dell’upper west side newyorchese o “de noantri”, ci descrivono complicate relazioni terapeuta-paziente che varcano il rigido confine del setting per inoltrarsi nel territorio del codice penale. Il film di Paolo Virzì si occupa di quello spazio intermedio, in grande espansione, dove pubblico e privato si incontrano mettendo a disposizione il primo, la correttezza scientifica e il rispetto della legge il secondo, le risorse e l’efficienza. Insomma, il mondo delle comunità terapeutiche, delle cooperative e del volontariato che collaborano per produrre un’unica sinfonia sotto la direzione dei Centri di Salute Mentale. Non dirò una parola sulla trama del film che, tra risate ed occhi inumiditi, ci sorprende fino all’ultima immagine con un fuoco di fila di colpi di scena temuti e auspicati dallo spettatore, che adotta da subito le due sciagurate protagoniste che, all’inizio, si vorrebbero prendere “a schiaffi a due a due finchè non diventano dispari” e, al termine, vorresti ospitarle a casa sentendo che così anche un pezzo di sé troverebbe pace. Non c’è un personaggio che sia solo buono o solo cattivo. Virzì, lo aveva già dimostrato in tutti gli altri suoi film, non parte da una prospettiva ideologica ma compassionevole, come chi sa che l’essere angelo e demonio ad un tempo è esattamente la cifra ( scrivo così perché fa fine, ma avrei detto caratteristica) dell’essere umano. La differenza tra operatori e pazienti si confonde, alcuni curanti starebbero meglio dall’altra parte, mentre la relazione terapeutica più bella e salvifica è quella che una protagonista instaura con l’altra protagonista, la più matta di tutta la compagnia. Se non mi vergognassi della banalità della frase dopo una vita di studio direi che, alla fine, il vero ingrediente indispensabile per la cura è la relazione terapeutica, dove sperimentare un amore compassionevole in cui il curante riconosce nell’altro le sue stesse fragilità e meschinità e vi fa pace, rimandando ad altri il compito impossibile e logorante della perfezione. Il film è intessuto di queste relazioni terapeutiche, poco tecniche ma molto calde, trasversali tra i personaggi anche più marginali e, a prima vista, abietti. Ognuno visto più da vicino ha le sue ragioni e, come diceva De Andrè, “ se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo”. Non vorrei aver dato l’impressione che si tratta di un film serioso a cui far seguire il temuto dibattito. Si sta molto in apprensione. Si tifa ora per l’uno e poi anche per il suo avversario ma, soprattutto, si ride non di qualcuno ma perché quella pazza gioia è contagiosa.