Il workaholism è il disturbo psicologico delle persone con un tendenza stabile e un bisogno incontrollabile di lavorare in maniera eccessiva e compulsiva
Era il lontano 1971, quando Wayne Edward Oates, psicologo statunitense, trattò e concettualizzò il tema della dipendenza da lavoro (work addiction) coniando il termine “workaholism”. Sono passati più di quarant’anni e, pur non comparendo ancora sui manuali di psichiatria come disturbo psicologico, tale fenomeno è aumentato simultaneamente ai crescenti ritmi di lavoro, altamente pressanti, imposti dalla società odierna. Secondo l’etica del lavoro attuale, un individuo che dedica tutta la sua vita al lavoro non sembra essere portatore di un disagio o di una patologia, al contrario il suo comportamento gli permette di ricevere prestigio, ammirazione e denaro.
Ma quand’è che si può parlare di “dipendenza”? Il workaholism viene oggi collocato nell’ambito delle new addiction (“nuove dipendenze”, forme di dipendenza comportamentale in cui non è implicato l’intervento di sostanze) e si riferisce al comportamento di una persona estremamente dedita al lavoro, la quale ha la tendenza stabile e il bisogno incontrollabile di lavorare in maniera eccessiva e compulsiva. La dipendenza da lavoro si manifesta, principalmente, nel dedicare volontariamente tempo eccessivo al lavoro senza che vi sia una reale esigenza, ad esempio legata a questioni di tipo economico (bassa redditività) o lavorativo (scadenze da rispettare).
Un primo campanello d’allarme è dato dalla presenza a livello cognitivo di pensieri persistenti e frequenti riguardanti il lavoro anche al di fuori dell’ambiente lavorativo (ci si preoccupa della completezza del lavoro svolto, si ha la tendenza a controllare e ricontrollare date e appuntamenti, etc.). Solitamente, inizia a diventare difficile delegare compiti e attività ad altri e si sperimenta intenso fastidio ogni qualvolta ci si deve distogliere dall’attività lavorativa, perdendo interesse per tutto quello che non riguarda il lavoro. Il forte desiderio di lavorare anche durante le ferie e nel tempo libero porta l’individuo a perdere il senso del tempo, il contatto con gli altri e a volte anche a trascurare i bisogni primari come il dormire o il mangiare. Vista l’insufficienza di tempo dedicato alla cura di sé e al riposo notturno, si iniziano a sperimentare interferenze nello stato di salute (sintomi di stanchezza, affaticamento ed irritabilità) che vengono spesso compensate con l’uso di sostanze stimolanti (ad esempio caffeina). La mancata separazione tra vita privata e professionale può portare delle conseguenze anche sul piano delle relazioni e degli affetti, andando a delineare problematiche come isolamento, scarsa assertività e atteggiamento critico verso i lavoratori che godono del proprio tempo libero.
Nei casi più gravi, la lontananza dal lavoro può portare a percepire dei veri sintomi di astinenza (come ad esempio ansia, attacchi di panico, sbalzi d’umore), portando il work addicted (dipendente da lavoro) a lavorare senza limiti.
Sebbene la ricerca in merito alla dipendenza da lavoro necessiti di ulteriori sviluppi, negli ultimi anni l’interesse per tale fenomeno è aumentato e ad oggi gli studi mostrano come la terapia cognitivo comportamentale (CBT) sia il trattamento più documentato ed efficace. In particolare, diversi studi evidence-based confermano che la CBT, combinando strategie cognitive (ad esempio identificare i pensieri disfunzionali) e strategie di interventi comportamentali (ad esempio skills training), riduce la sintomatologia, mantenendo il cambiamento nel tempo.
Per approfondimenti:
Cecilie Schou Andreassen, (2014) Workaholism: An overview and current status of the research, Journal of Behavioral Addictions 3(1), pp. 1–11.
Van Wijhe-van Iperen, C.I.; Schaufeli, W.B.; Peeters, M.C.W. (2010) Understanding and treating workaholism setting the stage for successful interventions in C. Cooper e R.Burke (Eds), Psychological and behavioral risk at work, pp. 107 – 134.