di Monica Mercuriu
“Bisogna chiamare le cose con il loro nome, la paura del nome non fa altro che aumentare la paura della cosa stessa”, Albus Silente – Harry Potter e la pietra filosofale
Per chi si occupa di psicoterapia dell’età evolutiva, è spesso consuetudine tenersi aggiornati e documentarsi sugli interessi dei bambini e dei ragazzi in materia di film, musica e giochi, non solo per creare un filo diretto e un linguaggio condiviso all’interno del setting terapeutico, ma anche per arrivare a spiegare, in maniera chiara, interessante e accattivante, concetti, termini e vissuti che i piccoli pazienti sperimentano.
Tra le storie che negli ultimi anni hanno interessato maggiormente i bambini, non possono mancare quelle raccontate nei libri e nella serie di film dedicati a Harry Potter, un bambino, orfano di genitori, che intraprende un duro ed intricato percorso di vita che lo porterà diventare un mago abile e coraggioso e confrontarsi con il suo peggior nemico: Voldemort, il Mago Oscuro che uccise i suoi genitori quando era molto piccolo.
Harry è coraggioso, altruista, tenace e, al tempo stesso, imperfetto, un “combina guai”, un “diverso dagli altri”, caratteristiche rintracciabili di frequente nei piccoli pazienti che intraprendono un percorso terapeutico.
Utilizzare metafore, citazioni e brevi sequenze di film può diventare utile per raggiungere un grado di consapevolezza del proprio disturbo e per guardare, con fare distaccato e critico, come si comporta il protagonista della storia, quali strategie utilizza per risolvere il problema, per visualizzare e commentare i suoi stati d’animo.
Lavorando con i bambini che presentano un Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), ad esempio, lo si può spiegare come la presenza di un ospite indesiderato, che resta dentro la loro mente e, a volte, ne assume il comando, obbligandoli ad agire in maniera compulsiva. Ebbene, anche Harry Potter aveva un lato oscuro dentro di sé, più precisamente un “Horcrux”, un oggetto in cui il mago oscuro Voldemort aveva nascosto parte della sua anima, con lo scopo di raggiungere l’immortalità.
La presenza dell’Horcrux tiene Harry ancorato a Voldemort, creando tra i due un filo diretto, un canale preferenziale di comunicazione: nella mente del ragazzo appare ciò che pensa il suo nemico, scatenando paure, ansia e disperazione. A volte, il piccolo mago soccombe al volere del male, teme di poter danneggiare chi gli sta intorno, di restare ammaliato dal potere del male e della sua forza; altre volte Harry “resiste”, non cede, si oppone e, sebbene questa scelta sia faticosa e richieda molta energia e costi in termini di autoefficacia e lealtà, riesce a cavarsela.
Anche un bambino o un ragazzo con DOC può arrivare a comprendere ed immaginare come “resistere” ai rituali compulsivi, accettando livelli di rischio sempre maggiori poiché l’ansia, il timore e la paura potrebbero aumentare e diventare insopportabili.
Come l’Horcrux di Harry Potter, il DOC contribuisce a creare un’immagine negativa di sé, suscita pressione, costringe il bambino ad azioni che non risolvono il problema, rinforza i pensieri ossessivi e il timore di colpa per irresponsabilità, che sappiamo costituire uno dei temi centrali dello stato mentale regolatore dei pazienti, adulti e bambini, con disturbo ossessivo compulsivo.
La possibilità di fallire è sempre dietro l’angolo, la paura e l’ansia fanno da capolino e il paziente, proprio come Harry, riesce a cogliere alcuni aspetti controversi della faccenda, s’immedesima, osserva con distacco e commenta le strategie adottate dal protagonista della serie, si sente angosciato e coraggioso, prova a resistere o si lascia sopraffare. “Se divento come Harry Potter il mio disturbo me lo posso anche tenere – testimonia Alessio, un bambino di 11 anni affetto da DOC – mica è così male, in fin dei conti ognuno di noi ha una cosa negativa dentro, l’importante è non lasciarle troppo spazio, se guida lei mi metto nei guai e sto male, se invece la controllo va meglio”. Insomma, come direbbe Harry al Professor Silente: “È vero tutto questo? O sta succedendo dentro la mia testa?”.
Per approfondimenti:
Using metaphors in psychotherapy. Barker, Philip Routledge, 2013.