Essere di animo sensibile: cosa significa? E soprattutto: è un bene o un male?

di Maurizio Brasini

L’iper-sensibilità non segnala soltanto una qualità positiva dell’animo ma può costituire un vero e proprio problema quando la risposta emotiva è eccessiva e difficile da regolare

In psicologia, con la parola “sensibilità” si indica l’intensità soggettiva con cui percepiamo un determinato stimolo e reagiamo ad esso. Infatti, fin dai primi studi sul modo in cui l’uomo percepisce la realtà fisica attraverso i sensi, ci si è accorti che non esiste una corrispondenza puntuale tra le variazioni nel mondo fisico e le variazioni nella percezione umana: secondo la legge di Fechner, “perché l’intensità di una sensazione cresca in progressione aritmetica, lo stimolo deve accrescersi in progressione geometrica”.
Se parliamo di emozioni, tendiamo ad attribuire una valenza positiva alla sensibilità, come ad un tratto di umanità. La sensibilità intesa in questo senso coincide largamente con il concetto di empatia: la risonanza o rispecchiamento emotivo che ci fa sentire le emozioni degli altri e, in tal modo, comprenderle. In questa accezione, si tende a considerare l’essere iper-sensibili più come una virtù che non come un difetto; al massimo si riconoscono gli effetti collaterali, un po’ come immaginare che avere un udito sensibile è un problema perché basta un brusio minimo per tenere svegli la notte. Di contro, una mancanza di sensibilità (intesa come deficit di empatia) è stata proposta da alcuni studiosi come possibile spiegazione del male, inteso come crudeltà. Tuttavia, l’iper-sensibilità non segnala soltanto una qualità positiva dell’animo ma può costituire un vero e proprio problema quando la risposta emotiva è eccessiva e difficile da regolare. In altre parole, “iper-sensibile” potrebbe essere qualcuno che “sente” alcune emozioni ad un volume troppo alto, assordante. Questa metafora aiuta a immaginare una risposta psicofisiologica eccessiva, che fa sentire ad alto volume ma rende difficile ascoltare. Le emozioni sono un linguaggio universale che, nella specie umana, si perfeziona fin dai primi giorni di vita attraverso l’esperienza di relazione con gli altri. In particolare, si impara dagli altri a riconoscere le emozioni, a dare loro un nome e un significato, a riconoscerne la naturale variabilità, a tollerarne gli alti e bassi: a gestire una “regolazione emotiva”. Si può immaginare che, in un ambiente relazionale poco favorevole ad esplorare e conoscere una o più emozioni, per alcune persone sia difficile imparare a capirne il senso, cioè rendersi conto di cosa stiano provando e perché. Le emozioni cercano di dire qualcosa a chi le prova e se non vengono capite, allora loro “aumentano il volume”; purtroppo, però, urlare non serve a rendere comprensibile una lingua che non si conosce: aumenta solo il frastuono e il senso di disagio.

In conclusione, la sensibilità d’animo coincide con l’intensità della risposta emotiva agli eventi. Il lato che considerato più “nobile” di questa sensibilità è quello che ha una funzione evoluzionistica prosociale: prendersi cura degli altri empatizzando con il loro disagio e comprendendo i loro bisogni. Ma le emozioni non servono solo a questo, servono più in generale ad orientare reciprocamente le persone nei rapporti interpersonali. È una forma di comunicazione e non è sufficiente avere un buon udito: serve anche una capacità di comprensione. A volte qui emerge il “lato oscuro” di quella che viene chiamata sensibilità: una iper-reattività emozionale accompagnata da un indebolimento nella spontanea comprensione del significato di ciò che le emozioni comunicano.

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