La Terapia Cognitiva è la forma di intervento psicoterapeutico più indicato e più studiato: ma quali sono i fattori che lo rendono così efficace?
La terapia cognitiva (TC) è il trattamento di riferimento più efficace nella cura della depressione. In un noto studio di meta-analisi di Cuijpers del 2014 è stato riportato che questo modello è efficace nel 42-66% dei casi. Eppure, nonostante l’evidente e comprovata efficacia del modello, nessuno sa come concretamente la TC influisca nella riduzione dei sintomi depressivi.
La premessa è che chi soffre di depressione ha dei pensieri e delle convinzioni (spesso inaccurate) eccessivamente negativi riguardo a sé, agli altri e al mondo, la cosiddetta “triade cognitiva di Beck”. Il nocciolo del cambiamento consiste nell’aiutare il paziente a imparare ad esaminare in modo critico i propri pensieri, correggendo il modo di ragionare e favorendo un pensiero più ottimista e positivo. In realtà, però, è stato osservato che allo stesso modo, anche gli antidepressivi, quando efficaci (ovvero nel 22-40% dei casi), hanno lo stesso effetto e favoriscono una prospettiva più ottimista! Ma, allora, cos’è che spiega il processo di guarigione favorito dalla TC? e cosa rende i suoi effetti più duraturi nel tempo (è stato dimostrato che i suoi effetti persistono maggiormente rispetto a quelli ottenuti con la farmacoterapia)?
Alcuni ricercatori hanno mostrato che la capacità di intervenire e modificare attivamente il proprio modo di pensare, correggendo le convinzioni negative distorte e imparando a pensare in modo “diverso”, predice la guarigione dalla depressione. Chi, tra una seduta di terapia e l’altra, percepisce e favorisce un cambiamento attivo nel proprio modo di interpretare gli eventi guarisce di più e mantiene i miglioramenti anche nel lungo termine. Un altro aspetto che garantisce la maggiore efficacia della TC, rispetto altri trattamenti, riguarda l’apprendimento di nuove strategie di fronteggiamento e di maggiori abilità mentali. Questo, per esempio, avviene favorendo una maggiore distanza critica dal contento dei propri pensieri, accettando in modo non-giudicante il loro contenuto, riconoscendo la loro inacuratezza, modificando le distorsioni cognitive, etc.. Queste strategie vengono apprese in terapia e si possono usare in qualsiasi momento e situazione, per tutto il resto della vita (“Continuo ad avere pensieri negativi sulla mia inadeguatezza, ma ora ci credo di meno e non lascio che influenzino i miei agiti e quindi la mia vita”)!
Anche il settore delle neuroimmagini (con tutti i suoi limiti) ha contribuito a spiegare il funzionamento della TC. È stato osservato che chi soffre di depressione ha un’attivazione specifica nella corteccia prefrontale (PFC), implicata in funzioni quali l’autocontrollo e la pianificazione, e dell’amigdala, coinvolta nell’elaborazione delle emozioni. Mentre negli individui sani la PFC riesce ad inibire l’amigdala, mantenendo quindi un controllo sulle emozioni, nei pazienti con depressione la PFC è meno attiva, lasciando più potere all’amigdala. In uno studio di Risonanza Magnetica funzionale è stato osservato che individui depressi mostravano una iper-attività nell’amigdala durante l’elaborazione di stimoli emotivi e una ipo-attività nella PFC, quando impegnati in un compito cognitivo. Ma dopo 14 settimane di TC efficace questa alterazione cerebrale si annullava e il funzionamento del cervello degli ex-depressi diveniva uguale a quello dei sani. Gli autori della ricerca hanno interpretato questi dati come la conferma del fatto che la TC interviene sul modo di pensare, e lo fa anche aiutando la PFC a ri-attivarsi, inibendo un’amigdala “troppo attiva”. Al contrario la farmacoterapia interverrebbe non sulla ridotta attivazione della PFC, ma sull’iper-attività dell’amigdala, diminuendo in modo a-specifico l’attivazione emotiva.
Un’altra serie di ricerche ha identificato dei fattori specifici che possono predire chi risponderà positivamente a quale tipo di intervento. Per esempio, è stato osservato che chi, oltre ad essere depresso ha un disturbo di personalità, risponde meglio ad un trattamento farmacologico, mentre essere sposati renderebbe più efficace la TC. Similmente, sul piano “neuro”, mentre i depressi che mostrano una iper-attività nell’insula destra rispondono meglio ai farmaci, quelli con un’insula meno attiva traggono maggiore beneficio dalla TC. Infine, per non scivolare nel riduzionismo, va ricordato il ruolo imprescindibile, e di difficile investigazione, giocato dall’alleanza terapeutica, ingrediente primario nell’aderenza e nell’efficacia alla TC, così come in qualsiasi forma di psicoterapia.
Articoli di riferimento:
E. Anthes (2014), Science 515.
Una risposta a “Perché la terapia cognitiva “funziona””