“Dottore! Come mi devo comportare con papà?”

di Brunetto De Sanctis

La demenza dal punto di vista dei familiari del paziente. Aumentare le loro conoscenze e competenze così da non farli diventare dei “sintomi aggiuntivi” alla diagnosi del proprio caro

Capita di frequente che i familiari di persone colpite da una della varie tipologie di demenza (malattia neurodegenerativa che porta alla progressiva perdita di capacità cognitive e autonomia, di cui la malattia di Alzheimer risulta essere la più frequente) si trovino di fronte a un coniuge o un genitore che risulta difficilmente comprensibile e gestibile nelle sue azioni quotidiane. I parenti delle persone affette da demenza spesso descrivono il proprio caro con frasi del tipo: “Si comporta come un bimbo!”. Oppure: “Mi sembra di avere un altro figlio!”.
Il “cargiver” (colui che si prende cura) ha un totale coinvolgimento nel sostegno e nel supporto del proprio caro. Secondo alcuni studi, i familiari dedicano circa sette ore al giorno all’assistenza diretta verso i pazienti con demenza e quasi quindici ore di sorveglianza. In aggiunta, la famiglia rappresenta, ad oggi, il principale supporto per l’anziano con demenza: l’80-85% dell’assistenza, infatti, è fornita dai familiari. Una donna di 60 anni su tre, ad esempio, ha ancora in vita la madre di età compresa tra 80 e 90 anni e, nel 33% dei casi, la cura di una persona molto anziana ricade, perciò, su una persona già anziana. Inoltre, il 36% degli anziani con demenza vive con un figlio adulto, l’80% dei familiari presta assistenza al proprio congiunto sette giorni su sette e il 20% di essi è impegnato in tale compito da almeno cinque anni. Questi dati sono molto importanti se si considerano le conseguenze che implicano: oltre il 50% dei familiari che assistono anziani non autosufficienti va incontro a una sindrome da disadattamento. L’impatto della demenza sul caregiver è stato spesso definito come “caregiver burden”, vale a dire come “carico dell’assistente”, per l’insieme di sofferenze fisiche e psicologiche a cui è sottoposto nel fornire assistenza, per la fatica, l’isolamento sociale, la riduzione della qualità della vita e la compromissione delle relazioni familiari. Più del 50% dei caregiver primari è a rischio di depressione, usa il 70% in più di farmaci prescritti rispetto ad altri familiari che non prestano assistenza al malato e usano una maggiore quantità di psicofarmaci rispetto alla popolazione generale.
La struttura di azione che un terapeuta potrebbe affrontare con queste persone poggia su tre ambiti di intervento:

  • Informazione: un intervento di psicoeducazione rispetto alla demenza che aiuta a etichettare come sintomi le condotte che il familiare riporta rispetto al proprio caro. Il nucleo è riconoscere i sintomi e non applicare false etichette del tipo “me lo fa apposta” oppure “è fatto cosi”. Questo lavoro favorisce il distanziamento dalla persona con i sintomi e favorisce il riconoscimento e la gestione applicando poi la giusta manovra comportamentale di contenimento della condotta sintomatica.
  • Formazione: si applicano tecniche comportamentali e si cerca di aumentare la competenza di gestione. Inoltre si accompagna il familiare verso una ri-lettura delle abilità residue del paziente con demenza per interfacciarsi verso questi con un obiettivo di stimolazione adeguata alle sue potenzialità.
  • Supporto alla gestione delle emozioni: attraverso l’uso di tecniche di gestione dello stress, si aiuta il caregiver a contenere l’enorme costo emotivo proveniente dalla relazione di assistenza con il proprio familiare cercando di identificare, dove presenti, i “nodi” personali o relazionali che aumentano la sofferenza emotiva della gestione del proprio caro.

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