di Katia Tenore
Un uso eccessivo e aspecifico delle pratiche meditative può portare a esiti non auspicabili
La meditazione è una antica pratica spirituale, di cui si trova traccia già nei trattati vedici, antichissime raccolte sanscrite risalenti al 2000 a.C..
In sanscrito, la pratica della meditazione è chiamata “Dharana” e si riferisce allo stato in cui un flusso attentivo intermittente si indirizza su un oggetto. Quando il flusso diviene continuo, viene definito “Dhyana”, stato che precede il “Samadhi” (letteralmente: “sono come il più alto”, cioè in unione con l’Assoluto).
Nella tradizione Buddhista, importata in maniera diffusa in Occidente insieme con la tradizione Zen, la meditazione “Samatha” ha lo scopo di conseguire una dimensione di pacificazione interiore ed è propedeutica alla meditazione “Vipassana” che, in lingua pali, allude a una “visione profonda, intensa e potente”, come una torcia che fa luce su qualcosa di opaco.
Ma cosa succede se si illumina qualcosa che non si è in grado di gestire? Può questo metodo essere idoneo per tutti?
Nell’uso moderno, con la parola “meditazione” ci si riferisce al fare esperienza di sé, al processo di autorealizzazione, ma anche a una pratica spirituale per raggiungere la verità ultima. Il risultato è che questo termine è divenuto un calderone in cui concetti come rilassamento, distacco, consapevolezza, autenticità, trascendenza, verità, benessere, si sfumano così tanto da diventare una miscellanea informe. La confusione nella definizione di cosa sia la meditazione ne ha comportato un uso indiscriminato, che trasforma questo metodo in una panacea per tutti i mali. Come riportato da un articolo sul quotidiano britannico The Guardian, in alcuni contesti aziendali, classi di meditazione sono offerte per ridurre lo stress lavorativo. A una superficiale analisi, una tale iniziativa può sembrare encomiabile, ma non sarebbe più semplice rimuovere le cause dello stress? A voler pensar male, viene in mente che possa trattarsi di un modo per ammansire i lavoratori e renderli meno tenaci nel difendere il diritto a lavorare in condizioni accettabili.
Ritornando a una prospettiva clinica, la disseminazione delle pratiche meditative sta comportando un uso eccessivo e aspecifico di questa tecnica. Diversi articoli hanno descritto l’insorgenza di episodi psicotici acuti a seguito di una pratica massiccia di meditazione, proposta anche a persone con passato psichiatrico, invitate a praticare meditazione e a recitare mantra addirittura per diciotto ore di seguito. Una medicina, se è potente, non si somministra a tutti e, come sempre, quando a guidare una scelta non è un solido rationale, l’esito piò essere spiacevole. Può accadere, infatti, che una persona, meditando, sperimenti degli stati ansiosi, li interpreti come il segno di un’imminente catastrofe per la sua salute, arrivando cosi a sperimentare un attacco di panico. Cosa succederebbe, per esempio, se una persona sperimentasse stati dissociativi, se ne sorprendesse ma nessuno sapesse aiutarla?
La Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) e la Mindfulness Based Cognitive Therapy (MBCT), protocolli di meditazione basati sulla consapevolezza, si sono dimostrati efficaci nella gestione dello stress e nella prevenzione delle ricadute in pazienti depressi. Il loro campo di applicazione si sta ampliando, tanto da allargarsi a quello delle psicosi. Secondo alcuni ricercatori, se applicata in una cornice terapeutica stabile e protetta, la mindfulness meditation può essere utile nel riconoscimento e accettazione dell’esperienza psicotica.
Attenzione particolare, oltre a casi che necessitano di specifica cautela, dovrebbe essere posta al tema dei valori e degli scopi che sottostanno alle emozioni negative che spesso motivano una persona a meditare.
Se la pratica spirituale propone un distacco dagli “oggetti” terreni, essa valorizza, allo stesso tempo, il conseguimento di scopi di trascendenza, dotando la persona di una direzione a cui tendere. Cosa accadrebbe, se si utilizzasse la meditazione non come una tecnica per defondersi dai pensieri ma la si estendesse a tutti gli ambiti dell’esistenza? Probabilmente si inizierebbe a vivere in uno stato di vuoto disinteresse.
Per approfondimenti:
Perez-De-Albeniz, A., & Holmes, J. (2000). Meditation: concepts, effects and uses in therapy. International Journal of Psychotherapy, 5(1), 49-58.
SHAPIRO, D.H. (1994). Examining the content and context of meditation: a challenge for psychology in the areas of stress management. Psychotherapy and Religion Values, 34(4), pp. 101-135.
Shonin, E., Van Gordon, W., & Griffiths, M. D. (2014). Do mindfulness-based therapies have a role in the treatment of psychosis?. Australian and New Zealand Journal of Psychiatry, 48(2), 124-127.
Dawn Foster, Is mindfulness making us ill?, The Guardian, Lifestyle, Health & Fitness, 23 gennaio 2016 (https://www.theguardian.com/lifeandstyle/2016/jan/23/is-mindfulness-making-us-ill)