La purezza morale è un fenomeno psicologico universale e lavarsi svolge da secoli una funzione purificatrice
Lavare le mani fino ai polsi, sciacquarsi la bocca, lavare l’interno del naso per tre volte, sciacquarsi il viso, lavare le mani fino ai gomiti per tre volte, strofinarsi i capelli e le orecchie per una volta, lavare i piedi fino alle caviglie per ben tre volte. Sono le abluzioni minori che gli islamici compiono prima della preghiera. Le abluzioni maggiori, invece, servono a recuperare la purità dopo che il fedele ha commesso impurità di più alto livello e sono sempre accompagnate da una silenziosa espressione di pentimento. Anche nell’ebraismo esiste una simile distinzione. Il lavaggio delle mani prima dei pasti, prima delle benedizioni sacerdotali o dopo il sonno rappresentano un esempio del primo tipo. Abluzioni maggiori, invece, implicano la totale immersione del corpo nel mikveh, un rituale da eseguire nei casi di contatto con una persona che ha perso fluidi corporei, che ha contratto malattie della pelle o che è entrata in contatto con carcasse di animali o cadaveri umani. Differenti religioni, con una concezione analoga della moralità e con regole molto rigide da rispettare. Peccati veniali e peccati mortali ai quali corrispondono rituali di purificazione che investono parti differenti del corpo. Rituali da svolgere seguendo dettami e prescrizioni la cui violazione implica l’inefficacia del rituale stesso. Nelle società umane, la purità del corpo è dunque garanzia di moralità e le preoccupazioni circa la propria purezza sembrano essere a fondamento di quella che per molti è una vera e propria intuizione morale. In più, le violazioni morali e la contaminazione fisica condividono l’attivazione dello stesso set di muscoli facciali e la mobilitazione degli stessi network neurali, a dimostrazione di una sovrapposizione strutturale tra impurità fisica e immoralità. Ma perché in alcuni casi le mani, in altre il viso, in altre ancora un rituale prevede la pulizia di tutto il corpo? Alcuni ricercatori cinesi hanno indagato forme di purificazione specifiche per la cultura asiatica, una realtà in cui è la faccia a essere investita da significati morali. I ricercatori cinesi hanno chiesto a un gruppo di soggetti di ricordare e riferire un’esperienza caratterizzata da comportamenti non etici e di valutare le proprie emozioni su una scala della vergogna e della colpa. Successivamente, i partecipanti dovevano valutare delle salviettine per la pulizia della pelle e scegliere se provare a usarle sul viso o sulle mani oppure esaminarle senza toccare. Infine, ai soggetti veniva chiesto se sarebbero stati disponibili ad aiutare uno studente che aveva un disperato bisogno di dati, ma che non aveva soldi per ottenerne. Ebbene era quattro volte più probabile, rispetto a chi non si puliva, che i partecipanti che utilizzavano i fazzolettini per il viso si rifiutassero di fornire aiuto. Pulirsi il viso riduceva le risposte prosociali, diminuendo o inibendo il senso di colpa. In un secondo esperimento, a un secondo gruppo di soggetti veniva chiesto di ricordare comportamenti etici e non e successivamente valutare venti prodotti per la pulizia di diverse parti del corpo. Ricordare comportamenti eticamente discutibili aumentava il desiderio dei partecipanti di pulire il proprio viso, oltre che la disponibilità ad acquistare prodotti specifici per farlo. A fronte della differenza di valori, credenze e punti di vista, i comportamenti di purificazione morale sono presenti in tutte le culture, ma assumono sembianze differenti. Il principio sembra essere quello secondo il quale la purificazione morale sia specifica di modalità salienti per quella cultura. Insomma, lavarsi le mani assolve i peccatori occidentali, lavarsi la faccia rende puri i cinesi. Ma per favore, non chiamateli ossessivi.
Per approfondimenti:
Spike W. S. Lee, Honghong Tang , Jing Wan, Xiaoqin Mai, Chao Liu. A cultural look at moral purity: wiping the face clean. Front. Psychol., 12 May 2015 https://doi.org/10.3389/fpsyg.2015.00577