di Massimo Claudio Bachetti
curato da Elena Bilotta
Un recente articolo di Bateman e coll. cerca di far luce su un problema di non facile soluzione, ovvero, il trattamento dei disturbi di personalità (DdP). Il numero di studi di esito su questo tema è scarso e riguarda principalmente il disturbo borderline di personalità e altri DdP afferenti al cluster B.
Come è noto, i DdP riconosciuti dall’attuale sistema nosografico, il DSM 5, sono divisi in tre cluster: A, B e C. La cosa interessante che gli autori ci pongono di fronte è come questa classificazione rappresenti anche una sorta di divisione che rappresenta il livello di difficoltà clinica che, come terapeuti, si incontria.. Si parte dal cluster C (evitante, dipendente, ossessivo), che è quello il cui trattamento ha le maggior probabilità di ottenere buoni risultati, per passare al B (borderline, istrionico, narcisistico, antisociale), dove questi risultati sono drasticamente ridotti, fino ad arrivare al cluster A (paranoide, schizoide, schizotipico), dove le probabilità di riuscita sono estremamente limitate e dove la letteratura è quasi assente. Gli autori passano in rassegna i vari cluster e i singoli disturbi delineandone i caratteri generali e i vari tipi di approccio terapeutico. L’approccio terapeutico che dalla letteratura, per la maggior parte basata su studi longitudinali comparativi, risulta ottenere i migliori risultati è la terapia cognitiva-comportamentale. In aggiunta alla terapia psicologica è discussa la appropriatezza di una terapia farmacologica che risulta essere attualmente molto dibattuta tra i vari comitati scientifici internazionali. Ultimo, ma non per importanza, rientra anche l’intervento socio-ambientale che non viene descritto nello specifico, ma che riveste sicuramente un ruolo fondamentale in particolare in alcuni tipologie di cluster.
Nell’articolo gli autori si soffermano in particolare sul trattamento del DdP borderline.
Gli autori descrivono i vari approcci psicosociali a questo disturbo a partire dalle terapie psicodinamiche fino alle moderne terapie cognitive-comportamentali ed evincono, come già riportato in precedenza, la maggiore efficacia di questo approccio rispetto ai precedenti. L’approccio che rappresenta il gold standard è la Dialectical Behaviour Therapy (DBT), ma vi sono anche approcci come la Schema Therapy e altri approcci cognitivo-comportamentali elaborati ad hoc per il DdP borderline. Il limite applicativo di queste terapie è che richiedono un training specifico, risultano essere troppo specialistiche e, probabilmente, non adeguate a rispondere alle esigenze della popolazione affetta dal disturbo borderline, che rappresenta il 20% dei pazienti che richiedono cure psicologiche.. Da queste considerazioni nasce la necessità di cercare alternative meno dispendiose e più attuabili anche nel territorio. Una possibile soluzione è giunta da uno studio comparativo tra la DBT e un approccio aspecifico condotto da terapeuti che non hanno ricevuto nessuna formazione specifica per il trattamento di questo DdP. Il risultato è stato che non vi erano differenze statisticamente valide a breve e lungo termine tra i due tipi di approcci. Da qui l’idea di formulare un tipo di intervento di tipo generalista, che si auspica rientrare nella formazione base di tutti i terapeuti, basato sulle seguenti caratteristiche: i terapeuti devono avere una certa dimestichezza con i pazienti borderline; deve essere un approccio supportivo che incoraggi, consigli e fornisca una certa psicoeducazione al paziente; non intensivo; l’approccio psicofarmacologico risulti essere parte integrante del trattamento, come anche eventuali interventi familiari.
Problema delicato risulta essere invece l’approccio farmacologico. Attualmente l’utilizzo di stabilizzatori dell’umore, antipsicotici atipici e in alcuni casi antidepressivi di ultima generazione, è off-label. Ciò significa che non vi sono evidenze scientificamente valide che approvino il loro utilizzo in clinica, ma il loro uso è dato a discrezione del medico su evidenze abbastanza ridotte. Il loro uso, comunque, è universalmente accettato a patto che sia destinato a trattare quei sintomi che tendono a causare sofferenza al paziente in acuto, o con comorbilità sindromiche, ma andrebbero sospesi non appena possibile. Bisogna anche considerare che un trattamento mirato come questo può solo che migliorare la compliance del paziente anche nei confronti del trattamento psicosociale.
In conclusione, rispondendo alla domanda iniziale, il trattamento dei disturbi di personalità, almeno per i cluster C e B, non solo è possibile, ma è anche efficace. Le poche evidenze dimostrano che le possibilità di successo aumentano se i trattamenti sono il più possibile strutturati e molto importante risulta essere anche l’alleanza terapeutica con il paziente, il quale è soggetto attivo nella terapia e deve anche sentirsi incoraggiato da parte del terapeuta ad assumere il controllo della propria vita. Proprio in virtù di ciò, il terapeuta dovrebbe essere attivo, responsivo, validante, concentrato sulla gestione degli eventi che accadono nella vita del paziente e ben supervisionato. L’auspicio che dovremmo porci, in concerto con gli autori dell’articolo, è che con il tempo si raggiunga una sempre migliore comprensione delle basi biopsicosociali che sottendono questi disturbi e di poter, in conseguenza di ciò, elaborare trattamenti psicoterapici, ma anche farmacologici sempre più mirati, precisi ed efficaci.
Bibliografia
Anthony W Bateman, John Gunderson, Roger Mulder (2015) Treatment of personality disorder