di Monica Mercuriu
Un gioco di ruolo come strategia d’intervento sui bambini con Disturbo di tipo oppositivo provocatorio o Disturbo della condotta
A chi si occupa di età evolutiva e di psicoterapia con bambini e adolescenti, spesso risulta difficile comprendere che idea il piccolo paziente si faccia dello psicoterapeuta e in cosa consista il suo lavoro. Se la motivazione al cambiamento e alla richiesta di aiuto costituisce uno dei prerequisiti per una presa in carico efficace, non si può ragionare negli stessi termini con un bambino, soprattutto se ha un Disturbo di tipo oppositivo provocatorio od un Disturbo della condotta, poiché la richiesta di aiuto arriva direttamente dai genitori. Uno dei modi per instaurare un dialogo e comprendere che idea un bambino si è fatto del perché è seguito da uno psicoterapeuta, è coinvolgerlo, con il consenso dei genitori, in“un gioco di ruolo”, scambiare cioè, per un tempo limitato (venti minuti), i ruoli di psicoterapeuta e paziente: mettere a disposizione del bambino la postazione del terapeuta, i materiali, i giochi, senza limite di azione, tranne farsi del male e rovinare gli oggetti nella stanza.
Durante un esperimento messo in atto su cinque bambini di 9 anni all’interno dell’Associazione di Psicologia Cognitiva APC-SPC di Roma, ognuno dei piccoli pazienti ha messo in campo mille e più strategie per cercare d’instaurare un dialogo: chi si è offerto di accompagnare lo psicoterapeuta dai propri genitori, visto che non la smetteva di tirare oggetti a terra; chi lo ha minacciato con una punizione; chi gli ha offerto una caramella per “tranquillizzarlo” mentre rovistava in ogni cassetto o ripiano dell’armadio senza autorizzazione; chi cercava di tirarlo fuori da sotto al tavolino dove aveva deciso di rintanarsi. Quando il terapeuta ha chiesto ai piccoli che lavoro facessero e perché avrebbe dovuto parlare con loro, le risposte sono state sorprendenti: “Io sono un dottore che cura la mente, io lavoro con i bambini, con tanti bambini che hanno dei problemi e quando non riescono a risolverli da soli, vengono da me”. Alla domanda se questi problemi potessero essere risolti dai genitori, le repliche sono state: “Mamma e papà non possono aiutarti perché nemmeno loro hanno capito perché fai così, io invece posso spiegartelo”; “Ti capita che mamma ti dia un sacco di punizioni? Ecco, se vieni da me forse prendi meno punizioni”.
Durante la seduta successiva, a distanza di una settimana, i bambini hanno commentato: “È stato proprio divertente, hai fatto un casino in stanza! Anche io avevo fatto la stessa cosa e ho capito che potevo parlarti, che non avresti detto nulla a mamma”; “Non mi piace il tuo lavoro, è troppo faticoso, però è divertente, quindi quando devo venire da te e devo lasciare il gioco alla play mi sta bene”.
In conclusione, lo scambio di ruoli, anche se impegnativo, può costituire una strategia d’intervento interessante, utile ed efficace: può fornire allo psicoterapeuta molte informazioni, spunti di riflessione e consapevolezza circa le idee e le credenze che i piccoli pazienti hanno sviluppato circa il loro lavoro, monitorare gli obiettivi terapeutici e verificare, in maniera semplice, se e quali strategie, all’interno del setting terapeutico, abbiano funzionato sul quel bambino; può essere d’aiuto al bambino per comprendere meglio le ragioni che hanno spinto i genitori a portarlo in terapia e quali sono gli obiettivi, i risultati e i traguardi che il suo terapeuta vuole raggiungere con lui, il tutto condito da un pizzico di ironia, un’ottima sintonia, una collaborazione divertente e una spinta diversa a proseguire il lavoro con i piccoli pazienti.