Dopo i manicomi sono arrivate le comunità, uno degli anelli della catena dei servizi di salute mentale presenti sul territorio
La comunità psicoterapeutica è una struttura residenziale che si occupa della cura delle persone con disturbi psichici di ogni tipo. È costituita da un gruppo di persone coinvolte in un ambiente teso a favorire la cooperazione nella vita quotidiana (chi pulisce, chi cucina, chi ha cura dei nuovi arrivati, chi degli incontri di gruppi, chi degli spazi individuali). Lo spirito di cooperazione, favorito e tutelato dai responsabili della comunità, si estende alla cura delle reazioni del singolo. La reazione e il comportamento dei membri, che vivono e interagiscono in essa e con essa, rappresenta l’oggetto su cui la comunità si prefigge di impiantare la nascita e lo sviluppo dello spirito di cooperazione, quello generante sentimenti di fiducia, senso di amicizia, appartenenza. La comunità lavora sui fatti, i vissuti, le aspettative, le dinamiche coscienti e incoscienti del gruppo nel suo insieme e fa capo a un conduttore con formazione ed esperienza psicoterapeutica e di gruppo.
Le strutture residenziali costituiscono una risorsa del Dipartimento Salute Mentale (DSM), come individuato dal Progetto obiettivo Tutela Salute Mentale 1998 -2000 (DPR 1 novembre 1999), dedicata al trattamento di pazienti affetti da disturbi psichiatrici che necessitano di interventi terapeutico riabilitativi o di interventi di supporto sociosanitario, effettuabili in regime residenziale.
Il percorso territoriale di un paziente con difficoltà di funzionamento personale e sociale, con bisogni complessi, ivi comprese problematiche connesse a comorbidità somatica e con necessità di interventi multi professionali, deriva da una presa in carico da parte del Centro di Salute Mentale (CSM) che elabora un Piano di trattamento individuale (PTI); nell’ambito del piano, può essere previsto l’invio e il temporaneo inserimento in una struttura residenziale psichiatrica per un trattamento riabilitativo con un supporto assistenziale variabile.
All’interno di una comunità, l’operatore, unità lavorativa protagonista del privato sociale e del terzo settore in generale, svolge un ruolo polivalente e lo fa per tutto l’arco della sua permanenza in struttura: aggrega, unisce, comprende, accoglie, dirige, mette in pratica misure educative, organizza eventi ludici, fa anamnesi, ipotesi di lavoro terapeutico, colloqui psicologici, gruppi. Dall’altra parte c’è il paziente, cliente, utente: la persona, con i suoi limiti, le risorse, i piani terapeutici individualizzati, i suoi piani di vita, che spesso sono opposti ai precedenti. Nella struttura si vive tutti insieme e i confini si distruggono e ricostruiscono in continuazione in un equilibrio da cercare costantemente tra dentro e fuori, tra accettazione e cambiamento. Si lotta contro lo stigma, si cerca di ritrovare dei valori che permettano di vivere insieme per un po’ di tempo e di non perdere di vista il mondo, ma si procede fuori dai suoi ritmi frenetici.
E il bello arriva alla fine: la persona entrata in comunità, alla fine del suo percorso, esce con le dimissioni, accompagnate da una pomposa festa, fatta di rumori, risate, grida, pianti, ringraziamenti e regali, proprio come quando ci si laurea. Il titolo che si spera di consegnare è quello di “persona”, senza il peso dell’etichetta “matto”.