Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te

di Laura Pannunzi

La direzione che assume il senso di colpa nell’emissione di una condotta antisociale

La regola d’oro nella filosofia dell’antica Grecia era un principio comune: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Secondo tale concezione, ogni ingiustizia avrebbe origine da una precisa violazione del “principio di reciprocità” tra individui. Per cui, chi decide di vivere in base all’etica della reciprocità deve trattare con rispetto tutte le persone, non solo i membri della propria comunità di appartenenza. Questo concetto, apparentemente ovvio, trova un senso anche nel campo della psicopatologia, in particolar modo nell’emissione di condotte antisociali.
Il Disturbo Antisociale di Personalità è caratterizzato da una grave e sistematica violazione dei diritti altrui come anche delle fondamentali regole morali e sociali nell’atto di soddisfare i propri desideri e aspirazioni, in associazione, generalmente, a scarsa empatia e senso di colpa per i danni inferti alle altre persone.
Ma quali sono le ragioni che spiegano tali comportamenti? E, nello specifico, quale direzione assume l’emozione di colpa?
Secondo la tradizione interpersonale, il senso di colpa nasce dalla consapevolezza di aver danneggiato ingiustificatamente l’altro. Tale emozione dispone l’individuo alla riparazione del danno causato e alla manifestazione di atteggiamenti positivi verso la vittima. La sua funzione sarebbe, infatti, il mantenimento del cosiddetto “reciprocal altruism” (una forma di altruismo in cui un individuo procura un beneficio a un altro senza aspettarsi una ricompensa), che motiva le persone a compensare gli effetti dei propri danni e a prevennire le rotture nelle relazioni.
Evidenze e studi scientifici dimostrano che esistono diverse emozioni di colpa: il senso di colpa deontologico e il senso di colpa altruistico. Si tratta di due emozioni distinte, caratterizzate da manifestazioni, funzioni e ingredienti cognitivi diversi.
La colpa deontologica è quell’emozione che deriva dall’assunzione di aver violato le regole morali; implica sia un feeling di indegnità sia l’aspettativa di ricevere una punizione, dando luogo ad un dialogo interno del tipo: “Come mi sono permesso?”.  Tale senso di colpa può essere alleviato scusandosi o confessando.
La colpa altruistica produce, invece, un senso di pena per la vittima, associato a una tendenza a focalizzarsi sulle sofferenze dell’altro e a tentare di alleviarle, assumendo un atteggiamento compassionevole nei suoi riguardi.
Ma che ruolo assumono questi due sensi di colpa all’interno di una mente che persegue azioni caratterizzate da basso senso morale?
I comportamenti antisociali risentono delle rappresentazioni mentali di un’autorità ingiusta, dove le punizioni, essendo vissute come vere aggressioni, non meritano colpa.
Il rapporto con un’autorità percepita come prevaricante legittima il ricorso a investimenti esclusivi sulla dominanza verso l’altro, esercitata spesso con strategie di tipo coercitivo.

Quindi, nei casi di trasgressione delle regole, nei soggetti antisociali risulta particolarmente labile la rappresentazione di autorità che prescrive di “non fare”, di non commettere azioni che violino principi morali condivisi, con la conseguenza di una scarsa propensione a provare senso di colpa deontologico.
Inoltre, le condotte antisociali sono spiegabili  anche grazie alla difesa attiva di quei sentimenti empatici che, dando luogo a senso di colpa altruistico, interferirebbero con la realizzazione di scopi antisociali congrui con la loro tipica rappresentazione mentale dell’autorità.

Per approfondimenti:

BUONANNO C. (2013), I disturbi della condotta: la perdita del senso morale, in “Psicopatologia e psicoterapia dei disturbi della condotta, a cura di Lambruschi F., e Muratori P., Carocci Editore.

MANCINI F.( 2008), I sensi di colpa altruistico e deontologico, in “Cognitivismo clinico”, 2, pp.123-44.

MANCINI F., CAPO R., COLLE L. (2008), La moralità nel Disturbo Antisociale di Personalità, In “Psichiatria e Psicoterapia”, 27, pp.275-278.

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