di Luca Cieri
Come attivare una rete terapeutica e familiare di prevenzione e di sostegno
In queste ultime settimane si è tanto parlato del Blue Whale, fenomeno che, al netto delle polemiche sull’attendibilità delle notizie e sull’effettivo numero di ragazzi che ne sono realmente venuti a contatto, ha acceso ancora una volta i riflettori sui tanti rischi che i minori corrono attraverso l’uso di Internet e dei social network: la possibilità di essere adescati da adulti, la dipendenza da internet e videogiochi, l’esposizione precoce a immagini e video (con contenuti espliciti sessuali, violenti o horror) non idonei per l’età adolescenziale e pre-adolescenziale.
Tali fenomeni possono facilmente generare nell’opinione pubblica, nei genitori e negli adulti che si ritrovano ad essere figure di riferimento dei ragazzi (insegnanti, educatori, allenatori e così via) reazioni contrastanti. Da una parte reazioni di indiscriminato allarme (“anche mio figlio passa molto tempo su internet e ha pochi amici, allora ci dobbiamo preoccupare?” ) alle quali si può reagire con controlli e divieti eccessivi (divieto di andare su internet) e invasioni della privacy (controllare di nascosto il telefonino ai figli). Dall’altra, atteggiamenti di sottovalutazione (“è soltanto una moda!”), di stigma e negazione (“ne sono vittima solo ragazzi fragili/problematici già in precedenza!”) o di impotenza (“non posso controllare i miei figli, speriamo bene”!).
Dei tantissimi spunti di riflessione che questa vicenda pone, uno su tutti è quello di aver riportato l’attenzione sul fenomeno del suicidio in adolescenza, che rappresenta, almeno nelle società con condizioni igienico-sanitarie minime garantite e senza guerre in corso, la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali in questa fascia d’età.
Un punto da cui partire è sicuramente quello della prevenzione, che in questo caso coincide con il riconoscimento, il più possibile precoce, degli adolescenti in difficoltà a potenziale rischio suicidario. Fra questi, lo sono quelli che presentano alcuni disturbi psicologici, in particolare il disturbi depressivi e bipolari, la schizofrenia, il disturbo borderline di personalità. Altri ragazzi a rischio possono non presentare questi disturbi, ma vivere tuttavia uno stato di intenso e intollerabile disagio psicologico, un vissuto di solitudine e l’esaurimento delle forze personali, della speranza di uscire da questa situazione, della capacità di provare piacere e delle energie. In queste condizioni, il suicidio comincia ad essere percepito come una soluzione praticabile.
Occorre, inoltre, sfatare il mito che parlare di suicidio sia controproducente: al contrario, è importante comunicare che si può parlare di suicidio, in un contesto calmo, sicuro, accudente e non giudicante. Il suicidio non è un atto improvviso ma un processo, durante il quale la persona dà segnali (parlare di suicidio, isolarsi, trascurarsi, esprimere mancanza di speranza).
Riconoscere questi stati a rischio in un adolescente, come nell’adulto, è quindi fondamentale per intervenire attraverso l’attivazione di una rete terapeutica (che passa per la psicoterapia, il trattamento farmacologico e l’eventuale possibilità di un ricovero) e familiare di sostegno.
Parlare di suicidio, in modo semplice e calmo ai ragazzi, a scuola come in famiglia, aiuta a ridurre lo stigma presente storicamente in molte culture e società, a dare strumenti di aiuto a chi potrebbe esserne a rischio e a diminuire i rischi di emulazione.
Per i genitori che hanno timore che il figlio stia vivendo un malessere di questo tipo è utile, in modo discreto e disponibile, offrire vicinanza e ascolto e chiedere una consulenza psicologica per dirimere dubbi e interrogativi.
E anche qualsiasi adolescente, che avverte o viene a conoscenza di un simile stato di disagio in un compagno o amico, può esprimere vicinanza all’interessato e condividere le proprie impressioni con un adulto di riferimento.
Per approfondimenti:
Tatarelli L. e Pompili M. (2009). La Prevenzione del Suicidio in Adolescenza. Alpes