Mio figlio ha il DOC: come mi comporto?

di Angelo Maria Saliani

 Come approcciarsi ad un familiare affetto da disturbo ossessivo-compulsivo. Tra subire, fare, assecondare

Come si comporta di solito il familiare in risposta ai sintomi di una persona affetta da disturbo ossessivo-compulsivo (DOC)?
Delle volte finisce nelle stesse trappole del proprio caro, partecipando o sostituendosi a lui nell’esecuzione dei rituali; altre volte si limita a subirli passivamente; altre ancora lo critica aspramente. In tutti questi casi, la qualità della vita dei due e dell’intera famiglia è gravemente compromessa.
Cosa fare?

Evidentemente la prima soluzione sta nella cura del disturbo e dunque nella scelta di un trattamento di provata efficacia. I familiari, nel frattempo, come dovrebbero comportarsi? Cosa possono fare quando vedono il proprio caro in preda all’ansia, quando assistono alla ripetizione interminabile di strani gesti, lavaggi, conteggi, controlli, richieste, domande? La risposta è, in teoria, semplice: rifiutarsi di partecipare all’attività compulsiva del familiare, senza aggredirlo o criticarlo.
Questa indicazione si scontra naturalmente con numerose difficoltà pratiche e psicologiche, tuttavia è da qui che occorre partire per uscire dalla trappola del disturbo, è questo l’elemento dal quale non si può prescindere: fino a quando il familiare partecipa attivamente o passivamente alla sintomatologia, o cerca di contrastarla aggredendo e criticando il proprio caro, il disturbo si rafforza e il clima relazionale in casa si inasprisce. Come superare dunque le difficoltà che ostacolano l’uscita del familiare dalla trappola del disturbo?

Possiamo distinguere due situazioni tipo, che comportano livelli diversi di difficoltà: la prima si caratterizza per una partecipazione attiva ai sintomi del paziente, la seconda per un coinvolgimento passivo del familiare. Nella prima il familiare lava, ad esempio, le mani con un disinfettante, o controlla una porta, o porge un guanto prima del contatto con i soldi, o sistema degli oggetti secondo un dato ordine, o recita ad alta voce una certa formula: tutto per assecondare o prevenire una richiesta del paziente. Nella seconda non partecipa attivamente, ma è costretto a subire il sintomo con tutti i suoi effetti molesti: è ad esempio vittima dei ritardi causati dalla lentezza ossessiva, o del fatto di trovare la porta del bagno sempre chiusa, o di sentire i rumori notturni dovuti ai controlli ripetuti dei rubinetti e delle serrature. Sebbene nella realtà quotidiana delle famiglie con un membro affetto da DOC i due tipi di coinvolgimento si mescolino e sia a volte difficile separarli in modo netto, la loro distinzione resta fondamentale e comporta strategie terapeutiche diverse.

Nel primo tipo il familiare, una volta riconosciuta la modalità disfunzionale, ha il potere di sottrarvisi con un rifiuto gentile, motivato e al tempo stesso deciso; mentre nelle situazioni del secondo tipo può solo scegliere se far finta di niente e subire il rituale del proprio caro o provare a contrastarlo, correndo il rischio di cedere ad atteggiamenti aggressivi (che, come già ricordato, sarebbero altrettanto controproducenti). Per la gestione di situazioni del secondo tipo vale la stessa regola basilare delle situazioni del primo tipo: il sintomo ossessivo non va assecondato. Per la sua applicazione occorre tuttavia qualche accorgimento in più, ossia:

  • non lasciar correre, non fare finta di niente, non subire l’esecuzione dei sintomi del familiare, né i loro effetti molesti;
  • motivare gentilmente le ragioni della propria opposizione;
  • accogliere in modo empatico lo stato emotivo del paziente (è lui la prima vittima del disturbo, dunque opporsi al suo sintomo ma riconoscerne la sofferenza);
  • condividere un “contratto” con il proprio caro: negoziare una soluzione che tenga conto dei bisogni dei familiari e che aiuti il paziente a liberarsi gradualmente dei sintomi. Il contratto dovrà essere stipulato a freddo, in un momento di calma, non nel corso di una crisi ossessiva e dovrà essere condiviso in tutte le sue parti. Dovrà essere sintetico, chiaro e realisticamente applicabile;
  • applicare quanto previsto dal contratto, a caldo (quando cioè il paziente è in preda all’ansia e mette in atto i sintomi). Farlo con gentilezza, ma in modo fermo e coerente con gli accordi presi;
  • sostenere e incoraggiare il paziente a tollerare le difficoltà derivate dall’applicazione del contratto.

Per approfondimenti:

Saliani A.M., Cosentino T., Barcaccia B., Mancini F. (2016) “Il ruolo dei familiari nel mantenimento del disturbo ossessivo-compulsivo: psicoeducazione e psicoterapia” in Mancini F. (a cura di) “La mente ossessiva”, Parte II, cap. XXI, Raffaello Cortina, Milano.

 

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