di Barbara Basile
Il 19 gennaio 2018 si è tenuto presso il Teatro Italia a Roma un evento in cui sono stati celebrati i 40 anni della Psicoterapia Cognitiva in Italia. Il convegno ha visto la partecipazione dei principali protagonisti che hanno contribuito alla realizzazione e alla diffusione del Cognitivismo nel nostro paese.
Ha aperto e diretto i lavori Tony Fenelli il quale, dopo una breve panoramica sulla storia del cognitivismo romano e la citazione dei primi libri di Vittorio Guidano e Gianni Liotti (tra cui Elementi di Psicoterapia Comportamentale), ha introdotto quest’ultimo. Il grande clinico ha subito rotto il ghiaccio ricordandoci il ruolo della dissociazione, o disintegrazione, della coscienza e la sua funzione fondamentale nel salvaguardare la mente di fronte ad eventi traumatici. A proseguire nell’approfondimento del tema gli è subentrato Benedetto Farina il quale ha citato i principali studi scientifici che, a partire dagli anni ’70, hanno diffuso e supportato le ipotesi di Liotti. In seguito Mario Reda ha ripercorso la sua esperienza personale in questi quarant’anni ricordando simpatici aneddoti di cui sono stati protagonisti Vittorio Guidano e Gianni Liotti e sottolineando il ruolo innovativo della Scuola Romana.
Dopo una pausa caffè in cui gli oltre 500 partecipanti, molti dei quali ex-allievi formatisi presso le diverse sedi della Scuola di Psicoterapia Cognitiva sparse sul territorio nazionale, si sono rincontrati, Francesco Mancini ci ha ricordato l’importanza della comprensione del funzionamento dei processi cognitivi ed emotivi di base per poter conoscere la mente in condizioni di psicopatologia esplorando, in particolare, il conflitto intrapsichico, il cui ruolo è stato trascurato dalla psicoterapia cognitiva. Richiamando magistralmente alcuni concetti relativi alla psicologia cognitiva e sociale, Mancini ha mostrato quali sono i processi mentali (per esempio la distanza psicologica, il goal shielding, le valutazioni secondare e le meta-valutazioni) che entrano in gioco quando ci si trova di fronte ad una scelta conflittuale. A seguire Antonio Semerari ha celebrato il ruolo delle abilità metacognitive in psicopatologia, con particolare riferimento ai Disturbi di Personalità. Lo psichiatra e psicoterapeuta ha ripercorso le ricerche dell’ultimo decennio in cui la metacognizione e le sue funzioni sono state indagate in pazienti con personalità disfunzionale, mostrando come il livello di gravità del deficit metacognitivo sia in grado di differenziare i disturbi egodistonici da quelli egosintonici. A chiudere i lavori la brillante presentazione di Roberto Lorenzini il quale ha spiegato, arricchendolo con esperienze cliniche, il senso del delirio e gli scopi, solitamente ragionevoli e comprensibili (se adeguatamente indagati) che si celano dietro ad esso, nella speciale individualità di ciascun paziente.
In un dibattito finale si sono tirate le conclusioni rispetto a quanto è stato fatto in questi 40 anni e quanto è ancora da fare. I protagonisti di questo grande evento invitano, unanimemente, a porre particolare attenzione, se non addirittura a mostrare scetticismo, verso alcune discipline mediche, in particolare le neuroscienze e la genetica. Il grande rischio che gli psicoterapeuti oggi corrono, sottolinea Mancini, è di affidarsi superficialmente a quanto proposto da queste discipline, senza tenere a mente le vulnerabilità individuali e le precise motivazioni che contraddistinguono ciascun paziente. A nostro favore, invece, i meccanismi studiati dall’epigenetica che, a differenza della genetica, studia come i geni o le informazioni memorizzate nel DNA interagiscono e si esprimono in ciascun individuo tenendo conto delle specifiche variabili ambientali (come quelle psicologiche, alimentari, sociali, culturali ed economiche, per citarne alcune) che questi incontra nella propria esistenza. Analogamente, viene ricordato come sia più esaustivo, nella pratica psicoterapica, favorire un approccio dimensionale, a dispetto della diffusa tassonomia categoriale. Questo tema riecheggia anche nell’applicazione di protocolli clinici eccessivamente rigidi e dogmatici che non considerano l’esperienza soggettiva ed individuale del paziente che si ha di fronte. Il rischio, come afferma da Lorenzini, sarebbe quello di “finire per utilizzare protocolli che potrebbero benissimo essere replicati da robot”!
Sicuramente, concludendo, quello che ad oggi ha permesso la diffusione della Terapia Cognitiva nel nostro paese sono le smisurate competenze, la ricerca scientifica basata sull’evidenza e la qualità indiscussa dei centri didattici che hanno caratterizzato, e tutt’ora contraddistinguono, il lavoro pioneristico dei nostri Grandi protagonisti.