di Caterina Parisio
Da Umberta Telfener a Cesare Cremonini: solitudine, social media e legami liquidi
Cesare Cremonini, cantante italiano dal cuore pop-romantico, per scrivere un brano come “Nessuno vuole essere Robin”, deve essersi interessato a concetti quali: empatia, solitudine, dipendenza dai social media, esibizionismo. Probabilmente, anche una buona lettura del caro Bauman, con la sua società liquida, ha fatto da cornice.
“Nessuno vuole essere Robin” dà voce agli eterni secondi, a chi è sempre stato ricordato come “l’aiutante di…”; è una traccia della solitudine dell’uomo moderno, concentrato a vivere la virtualità piuttosto che la realtà.
Impotenza e frustrazione sono le condizioni dell’uomo contemporaneo. In una stagione ricca di cambiamenti come quella che sta vivendo attualmente il nostro Paese, diviso tra un progresso tecnologico che avanza e la perdita dei valori e delle sicurezze che caratterizzavano la società di un tempo, la paura rischia di essere una compagna permanente.
Dallo slogan di Herbert Marcuse “l’uomo a una sola dimensione” siamo arrivati alla “modernità liquida” teorizzata da Bauman che, nonostante la nascita di nuove reti e connessioni si è fatta inafferrabile e difficilmente definibile.
Anche il progresso tecnologico si è sviluppato sempre più velocemente lasciando indietro lo sviluppo delle coscienze, dei rapporti umani e uno dei primi effetti di questa nuova società è la paura della solitudine, il bisogno di non sentirsi soli.
Incerti, flessibili, ma soprattutto liquidi: sì, siamo diventati un po’ tutti così nella vita quotidiana, nel lavoro, nelle relazioni affettive. Le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono da un lato l’apparire a tutti costi, l’apparire come valore e il consumismo. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di “bulimia senza scopo”.
“E quanti scemi per strada o su Facebook che si credono geni, mentre noi ci lasciamo e di notte piangiamo”, prosegue Cremonini: non sarà mica una mancanza di empatia quella che denuncia il cantante nella società dell’amor liquido?
In un’intervista del 2014, la psicologa Umberta Telfener parla di una difficoltà dei giovani nel decodificare le emozioni e definisce tale difficoltà “analfabetismo emotivo”: le relazioni sono uno dei principali motori dell’odierno boom delle consulenze, perché sono talmente complesse e difficili da sbrogliare, che è raro che gli individui ce la facciano da soli. Uomini e donne si sentono abbandonati a sé stessi. Si sentono degli oggetti a perdere e cercano sicurezza. Come ogni altro fenomeno della società liquido-moderna, anche le relazioni umane sono provvisorie, precarie e instabili. Uomini e donne parlano sempre più spesso di “connessioni”, di “essere connessi”; anziché parlare di partner, preferiscono parlare di “reti”: i social media imitano l’intimità che desideriamo, ma non ci riescono.
Mentre Facebook, Twitter, Instagram guadagnano miliardi dai nostri desideri “virtuali” di trovare contatto umano restando collegati, i legami profondi che veramente riempiono possono essere trovati solo offline. In “rete” è possibile con facilità entrare e uscire, connettersi e disconnettersi, mentre la relazione implica reciproco impegno e sottolinea i rischi, i problemi e le angosce del vivere insieme. “Rete” suggerisce momenti in cui si è “in contatto”, intervallati a periodi di libera e autonoma navigazione. In conclusione, si privilegiano le connessioni come “relazioni virtuali” a quelle reali. Anche qui la provvisorietà impera.
“Ti sei accorta anche tu che siamo tutti più soli? Tutti con il numero dieci sulla schiena e poi sbagliamo i rigori”: siamo continuamente stimolati e incoraggiati a formare legami deboli con estranei e conoscenti, fili sottili che scattano alla minima pressione. C’è qualcosa di inquietante in tutto questo: si è stati creati per legami profondi, per l’intimità, per la famiglia, non per i gruppi di chat su Whatsapp.
Lungi dal voler suggerire di abbandonare i social. Il vero punto è: quanti bramano i milioni di like che riescono a raggiungere le celebrità? Quanti vivono il virtuale piuttosto che il reale? E quanti ancora per soffocare il senso di solitudine dell’uomo moderno, costruiscono identità “altre” alla ricerca di notorietà?
La verità è che “in questo mondo di eroi, nessuno vuole essere Robin!”.