di Alessio Congiu, specializzando 2° anno SPC Verona
a cura di Alberto Chiesa
Nel presente articolo, Chambers, Gullone e Allen (2009) passano in rassegna una gran mole di studi inerenti le pratiche basate sulla Mindfulness e gli interventi psicologici basati sulle tecniche cognitivo-comportamentali standard, mostrandone i fondamenti concettuali ed empirici. Nell’incontro tra ideologie di pensiero distinte, la scienza cognitiva, qui incarnata nel modello di regolazione emozionale di Gross (1998), viene posta quale spartiacque capace di delimitare le aree di divergenza tra queste due grandi prospettive d’intervento sul disagio emozionale. Da un lato troviamo gli psicologi cognitivisti che, rifacentisi agli assunti teorici materialisti di gran parte della cultura filosofica occidentale, esaltano il ricorso a tecniche finalizzate ad intervenire sul processo emozionale a livello dei processi di valutazione cognitivo-affettiva primari dell’esperienza emozionale (es., ristrutturazione cognitiva); dall’altra troviamo invece gli psicologi buddisti che, aventi negli assunti teorici metafisici della tradizione filosofica buddista il proprio quadro di riferimento concettuale, propongono tecniche di gestione dell’attenzione finalizzate ad intervenire a livello dei processi di valutazione cognitivo-affettiva secondari (es., atteggiamento accogliente e non giudicante). Ad un livello più superficiale di disputa, l’elemento di discussione diventa così il ruolo imputabile alla persona che si trovasse in balia di un’esperienza affettiva indesiderata, con i primi a rimarcare l’importanza della modifica strategica degli elementi cognitivi determinati la stessa esperienza emozionale (affective re-appraisal), ed i secondi a promuovere tanto l’inibizione della tendenza comportamentale della risposta emozionale (principio della non azione), quanto la modifica degli elementi cognitivi determinanti la “meta-emozione”, ossia l’esperienza emotiva dell’emozione stessa (principio dell’accettazione incondizionata). È parere di chi scrive che entrambe le prospettive omettano di riconoscere come un utilizzo dell’una o dell’altra tecnica che non si accompagni all’acquisizione dei fondamenti concettuali o degli scopi per cui queste fossero state proposte, possa far intendere entrambe le pratiche come forme di evitamento esperienziale. Gli autori, a dire il vero, sottolineano questo particolare, ma soltanto in direzione della prospettiva della Mindfulness, non riconoscendo piuttosto come gli stessi esponenti della terapia cognitiva standard imputino un ruolo alla tecnica non slegabile dal fine più alto dell’accettazione incondizionata di ogni vissuto caratterizzante la propria esperienza (Ellis, 1962). Quanto infatti sembra differire tra le due prospettive sembra puramente il metodo utilizzato per la messa in discussione del giudizio che la persona starebbe attribuendo alla propria esperienza: mediante dialogo interiore, per la terapia cognitivo-comportamentale standard; mediante focalizzazione attentiva e distanziamento cognitivo, per i sostenitori delle pratiche di Mindfulness. Diversamente, come giustamente sottolineano gli autori, se una differenza rilevante potrà essere rintracciata, la si dovrà ritrovare nel modello di genesi dell’esperienza emotiva, con la prospettiva buddista riconoscente l’ontogenesi dei processi di valutazione cognitivo-affettiva primari nella presenza di una convinzione distorta circa colui che percepisce (Io), ciò che viene percepito (contenuto dell’Io) e processo percettivo stesso (processi dell’Io).