di Sandra Rienzi
curato da Francesco Mancini
Già Darwin (1871) sapeva che l’altruismo costituiva un problema per la sua teoria dell’evoluzione basata sulla selezione naturale. La soluzione a questa impasse proviene dalla genetica moderna e, in particolare, dalla Teoria della selezione di parentela di Hamilton e dalla Teoria dell’altruismo reciproco di Trivers. Questi meccanismi contribuiscono a spiegare le condotte altruistiche nell’uomo adulto. Meno si sa invece sul modo in cui la tendenza all’altruismo si sia sviluppata nell’uomo sia da un punto di vista ontogenetico che filogenetico. In questo articolo gli autori sostengono la tesi per cui i bambini piccoli siano intrinsecamente altruisti. Questa ipotesi si basa sui risultati provenienti da un insieme di recenti studi condotti sulla propensione di bambini di un anno di età ad aiutare il prossimo in maniera strumentale.
Da un punto di vista filogenetico, in ricerche condotte sugli scimpanzè, è emerso che anch’essi sembrano essere mossi da una motivazione di base ad agire altruisticamente osservabile più in alcune circostanze che in altre. Tutto ciò ha fatto ipotizzare l’esistenza di più radici filogenetiche distinte per ciascun dominio di attività.
Da un punto di vista ontogenetico, gli autori hanno osservato che lo sviluppo dell’altruismo è radicato nella tendenza dei bambini ad aiutare il prossimo spontaneamente (ossia in situazioni nuove o che prevedevano dei costi, senza essere incoraggiati ad aiutare, senza l’aspettativa di essere ricompensati).
In breve, ciò che gli autori rivendicano è che le tendenze altruistiche osservate nella prima ontogenesi umana sarebbero il risultato di una naturale predisposizione, dalla quale potrebbero poi svilupparsi le pratiche di socializzazione. La cultura avrebbe quindi un ruolo nel nutrire l’altruismo nella psiche umana piuttosto che instillarlo in essa. L’internalizzazione delle norme prosociali suggerisce a sua volta una complessa interazione tra predisposizioni biologiche e inculturazione durante l’ontogenesi.
Sembra, quindi, che i bambini aiutino gli altri indiscriminatamente, senza tener conto del fatto che il beneficiario sia un parente o uno sconosciuto, se quest’ultimo ricambierà il favore o se, e in che modo, il loro comportamento avrà degli effetti sulla loro reputazione. Ad ogni modo, come ha affermato Dennis Krebs (2006), è implausibile, da una prospettiva evolutiva, che un altruismo naive di questo tipo possa sopravvivere. E’ stata quindi ipotizzata l’esistenza di misure di sicurezza nell’agire altruisticamente che da una parte impediscono all’”helper” di essere sfruttato dagli altri, e che dall’altra guidano la messa in atto di gesti altruistici verso alcuni individui e situazioni piuttosto che verso altri. Queste distinzioni concettuali nel dominio del comportamento prosociale iniziano ad essere acquisite dai bambini già nella media infanzia. Gli autori concludono aggiungendo che le ricerche future dovrebbero indagare il successivo sviluppo dell’altruismo umano nell’arco dell’infanzia, specificando in che modo i fattori evolutivamente cruciali che sostengono i comportamenti altruistici in età adulta, divengono gradualmente parte del processo di sviluppo.
Molto interessante in questo ambito è l’articolo di Luverà (2012) nel quale l’autrice vuole indagare il fenomeno dell’altruismo utilizzando un punto di vista naturalistico ed evoluzionistico, dalla comparazione tra l’altruismo umano e animale, alla discussione delle implicazioni sul sistema etico specificatamente umano.