Tu chiamale, se vuoi, emozioni

di Manuel Petrucci

L’importanza di trovare le parole per descrivere l’esperienza emotiva

«Spesso canta il lupo nel mio sangue

e allora l’anima mia si apre

in una lingua straniera».

Mariella Mehr (Ognuno incatenato alla sua ora)

 

Cercano di tenerci lontano dai pericoli, ci invitano a ribellarci ai torti subiti, ci fanno sorridere dei successi e degli incontri felici, sferzano il nostro corpo con energie, brividi, vampate, impulsi, dolori. Le emozioni ci guidano nelle nostre imprese con la loro conoscenza di ciò che per noi è importante, segnalando valori e implicazioni, suggerendo azioni, possibili soluzioni. Eppure, nel momento in cui ci troviamo a riflettere su di esse, o a raccontarle, spesso ci troviamo disorientati: potremmo non sapere quando si sono attivate, le cause, e nemmeno riuscire a dar loro un nome, esprimendo solo un generico “sto bene/male”. Questo perché l’emozione, per svolgere quella essenziale funzione di “bussola”, non ha bisogno della nostra consapevolezza, non completa almeno. E, non di secondario rilievo, spesso non siamo allenati a essere consapevoli e a riconoscere le emozioni, non abbiamo le coordinate, le abilità per farlo. Abilità che si rendono indispensabili quando vi è necessità di regolare o tollerare gli stati emotivi ad alta intensità. Il punto di partenza cruciale a tale scopo è proprio quello di trovare parole per definire, “etichettare” (labeling) l’emozione provata o che si sta provando. Gli approcci cognitivisti alla psicoterapia offrono numerosi strumenti per lo sviluppo di questa capacità, a partire da una delle colonne portanti, il modello ABC, che una volta appreso diviene per il paziente risorsa agevole e preziosa di comprensione non solo dell’emozione esperita, ma anche dei nessi tra eventi (A), valutazioni (B) ed emozioni (C). La Dialectical Behavior Therapy (DBT), specificamente disegnata per la costruzione di abilità di regolazione emotiva, prevede un modulo sulla denominazione delle emozioni, con schede da presentare al paziente in cui, oltre agli eventi attivanti, le credenze, le espressioni e le tendenze alle azioni tipiche, vi è per ciascuna emozione una “famiglia” di parole che afferiscono a tale emozione e ne descrivono variazioni e sfaccettature. L’attenzione alle parole per definire le emozioni nella DBT si inserisce all’interno di un più ampio approccio in cui la descrizione, intesa appunto come capacità di mettere in parola, costituisce una delle abilità nucleari della Mindfulness, supportando quindi in maniera fondamentale la possibilità di stare consapevolmente nel momento presente.

Identificare un’emozione rappresenta già di per sé un atto di regolazione emotiva, come mostrano diversi dati di ricerca. Secondo la ricercatrice californiana Lisa Burklund, gli effetti del labeling affettivo sull’attivazione di aree cerebrali coinvolte nell’elicitazione e nella regolazione delle emozioni, come la corteccia prefrontale e l’amigdala, sono comparabili a quelli di altre strategie di regolazione, come la ristrutturazione cognitiva. Altri studi coordinati dallo statunitense Jason Lee mostrano, inoltre, che l’abilità di riconoscere e descrivere le emozioni in maniera dettagliata, differenziando non solo le diverse emozioni, ma anche le sfumature all’interno della stessa emozione (granularità emozionale) si associa a una migliore capacità di regolazione, come indicato dalla modulazione delle attivazioni neurali che segnalano l’allocazione dell’attenzione e il controllo cognitivo in risposta a stimoli emozionali.

Perché una semplice “etichetta”, senza alcun intervento concreto, senza alcuna strategia di problem solving ancora attuata, riesce di per sé a modificare un’emozione? La portata di questa influenza è spiegata dal fatto che le parole non possono essere considerate dei semplici input o output percettivi, né meri mezzi di trasmissione di informazioni. Mentre la percezione di un oggetto, ad esempio un libro, è sempre una percezione specifica, di quel libro in quel particolare momento, e la parola “libro” ha il potere di essere categoriale. Ad ogni livello di astrazione, la parola trascende la percezione, divenendo contesto, cornice all’interno della quale l’elaborazione delle informazioni è orientata. Le parole rappresentano dunque categorie dell’esperienza, lenti di significato attraverso cui leggere e vivere frammenti della complessa realtà che ci circonda, o di quella che portiamo dentro di noi come esseri pensanti e senzienti. Dare un nome all’emozione ne favorisce quindi l’accoglienza come qualcosa di comprensibile, accettabile e gestibile, contrastando una tendenza potente all’evitamento o alla soppressione che è innescata soprattutto dalle emozioni negative ad alta intensità, e che può condurre ad adottare strategie di regolazione con esiti molto dannosi sia per la salute psicologica che fisica. Per citare ancora la poetessa Mariella Mehr, “il linguaggio dell’inverno porta in giro le gemme”: della consapevolezza, della conoscenza, della padronanza.

 

Per approfondimenti

Burklund, L.J., Creswell, J.D., Irwin, M.R., & Lieberman, M.D. (2014). The common and distinct neural bases of affect labeling and reappraisal in healthy adults. Frontiers in Psychology, 5:221.

Lee, J.Y., Lindquist, K.A., & Nam, C.S. (2017). Emotional granularity effects on event-related brain potentials during affective picture processing. Frontiers in Human Neuroscience, 11:133

Lupyan, G., & Clark, A. (2015). Words and the world: predictive coding and the language-perception-cognition interface. Current Directions in Psychological Science, 24(4), 279-284.

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