di Miriam Miraldi
Il dolore fisico come tentativo di soluzione al dolore emotivo tra gli adolescenti
Negli ultimi anni, se da una parte i dati sul suicidio, seconda causa di morte nei giovani, hanno mostrato un generale calo, dall’altra sono invece aumentati i comportamenti autolesivi, ovvero di aggressione diretta verso di sé, attraverso tagli, bruciature, ferite.
Secondo uno studio del 2017 dell’Osservatorio Nazionale per l’adolescenza, due giovani su dieci hanno questo tipo di esperienza. Alcuni studi rilevano maggiore frequenza nelle ragazze, altri sembrano invece non rilevare significative differenze tra ragazzi e ragazze nella frequenza, piuttosto le differenze di genere sono più evidenti nelle modalità: mentre le ragazze utilizzano maggiormente il cutting o il tagliarsi, attraverso l’uso di lamette o altri materiali come pezzi di vetro, i ragazzi tendono a utilizzare prevalentemente colpi autoinferti o bruciature, per esempio di sigaretta o con accendini. I dati possono essere sottostimati in quanto tali comportamenti vengono agiti segretamente e possono essere accompagnati anche da vergogna e colpa, contrastando il diffuso malinteso che l’autolesionismo sia prevalentemente una forma di ricerca di attenzioni.
Solitamente il primo episodio avviene tra i 13 e i 14 anni, tuttavia si osservano alcune più rare situazioni anche in età precedente; in ogni caso si tratta generalmente di giovani che riportano caratteristiche associate al disagio emotivo come la forte autocritica, la depressione, l’ansia e la disregolazione delle emozioni. Inoltre, la letteratura indica che questi fenomeni si associano ad altri tipi di comportamenti autodistruttivi, come le difficoltà legate all’alimentazione e l’abuso di sostanze.
La ricercatrice americana Jennifer Muehlenkamp, in una recente analisi sul tema, condotta insieme ai suoi colleghi, ha evidenziato come nella letteratura scientifica il termine “autolesionismo intenzionale” o “auto-danneggiamento intenzionale” (DSH, deliberate self-harm) viene spesso impiegato come un termine più comprensivo per comportamenti autolesionistici, con o senza intenzionalità suicidaria, che hanno esiti non fatali; questa espressione tende a essere utilizzato principalmente nei paesi europei. Al contrario, molti studi pubblicati da ricercatori del Canada e degli Stati Uniti utilizzano “autolesionismo non suicidario“ (NSSI, non-suicidal self injury) per intendere l’aggressività deliberata e autoinflitta al proprio corpo, senza intento suicidario. In quest’ultima accezione, l’autolesionismo è riconosciuto anche come disturbo specifico nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM 5). Uno dei criteri diagnostici, in particolare, sottolinea anche l’aspetto “motivazionale”, per cui si osserva che l’individuo è coinvolto in attività autolesionistiche con una o più delle seguenti aspettative: ottenere sollievo da una sensazione o uno stato cognitivo negativi; risolvere una difficoltà interpersonale; indurre una sensazione positiva.
L’autolesionismo può associarsi a diverse condizioni psicopatologiche, è positivamente correlato al suicidio, e assolve a differenti funzioni sia interpersonali che intrapersonali; lo si riscontra in particolare tra i giovani affetti da disturbi ansioso-depressivi e in coloro i quali mostrano alti livelli di disregolazione emotiva, caratterizzata da marcati e repentini cambiamenti dell’umore.
Ma perché i giovani e giovanissimi attivano tali comportamenti?
Le emozioni costituiscono un potente trigger e l’autolesionismo può essere al servizio di vari scopi: può servire per esprimere rabbia autodiretta o disgusto verso di sé, per punirsi o espiare una colpa, per porre fine a momenti di dissociazione o depersonalizzazione (dovuti per esempio a traumi o abusi); in generale, comunque, viene per lo più eseguito per “dare sollievo”, per alleviare – seppur solo temporaneamente – intense emozioni negative e per interrompere stati mentali indesiderati di frustrazione, solitudine, tristezza, distacco, angoscia o vuoto. Le condotte autolesionistiche consentono di spostare l’attenzione sul dolore fisico, non occupandosi di quello emotivo da cui, di fatto, originano. Anche da un punto di vista psicofisiologico, diverse ricerche sostengono l’ipotesi per cui esso eserciti la funzione di “regolatore delle emozioni”, in quanto si riscontra un abbassamento dell’arousal durante e dopo la messa in atto comportamenti autolesivi, che avrebbero dunque un potere “calmante”; questi studi derivano per lo più dalla teoria di Marsha Linehan sulla disregolazione emotiva nel Disturbo borderline di personalità, e sostengono che l’autolesionismo sia quindi una strategia di coping, ovvero di fronteggiamento delle situazioni emotivamente stressanti, per quanto chiaramente maladattiva. Il fatto che tale strategia in qualche modo “funzioni”, inducendo stati positivi, può attivare un circolo vizioso di mantenimento, favorendo la reiterazione di tali comportamenti.
Per approfondimenti
Muehlenkamp, J. J., Claes, L., Havertape, L., & Plener, P. L. (2012). International prevalence of adolescent non-suicidal self-injury and deliberate self-harm. Child and adolescent psychiatry and mental health, 6(1), 10.
Linehan M.M. (2011). Trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo borderline. Il modello dialettico. Raffaello Cortina Editore.
Klonsky E.D., Victor, S.E e Boaz Y.S. (2014). Nonsuicidal Self-Injury: What we know and what we need to know. The Canadian Journal of Psychiatry, 59(11), 565-568.
Andover M.S., Morris B.W., (2014). Expanding and Clarifying the Role of Emotion Regulation in Nonsuicidal Self-Injury. Can J Psychiatry, 59(11): 569–575.