di Daniela Petrilli
Quando il peggio sarà passato e lo stress calerà, potremo percepirci cambiati al punto da sentire di aver perso i nostri punti di riferimento
Una pandemia è un trauma collettivo ma, prima di tutto, può avere la forza di uno tsunami che travolge direttamente ogni individuo sommerso dalla sua onda. È a quegli individui che dedichiamo la nostra attenzione, perché ogni trauma spezza violentemente la nostra comune rappresentazione degli eventi e può lasciare impronte indelebili sulla nostra vita. Scattiamo un’istantanea e, come pezzi di un puzzle, proviamo a ricostruire alcuni frammenti di quello che è stato l’evento più imprevedibile e ingovernabile di questo secolo.
Si pensava a una semplice influenza non a un’epidemia così devastante: l’ondata cresce con i problemi respiratori e la necessità di allestire posti letto nelle ex lavanderie, c’è allarme e siamo allo stremo delle forze, l’assenza di mascherine rompe anche le ultime speranze di protezione da un nemico invisibile e subdolo che ci lascia disarmati, stremati a contare i nostri morti, in coda senza un saluto dignitoso, senza una mano da stringere nell’ultimo respiro. Nessun funerale, solo una benedizione prima della tumulazione. È tutto così surreale e anche il dolore è strano, come sospeso, rimandato. Ma l’onda non si arresta e anche dopo tante morti, si sentono ambulanze ogni ora, le cremazioni ogni trenta minuti e i cimiteri chiudono.
Sappiamo che l’epidemia è anche una formula matematica ed è ai numeri che ci affidiamo, nella speranza che la curva prima o poi smetta di salire così vertiginosamente; ma i numeri non ci salveranno, anzi: sono destinati ad aumentare senza nessuna clemenza, senza pausa, senza respiro. È una lotta contro il tempo e intanto la solitudine emotiva, la fatica, lo stress, la disperazione aumentano.
Se proviamo a immedesimarci nella condizione di tanti tra malati, amici, parenti, medici e infermieri o di chiunque si sia trovato direttamente coinvolto nelle zone più colpite, è palpabile lo stress e la sofferenza emotiva che questa emergenza ha creato.
Molti sono i risvolti psicologici che esperienze così devastanti possono determinare. Ognuna di esse sarà, come sempre, un caso specifico: da chi ha perso un proprio caro in un lutto spezzato dall’isolamento senza un rituale che dignitosamente lo accompagni alla fine; a chi nelle retrovie di un ospedale ha guardato negli occhi il dolore, la paura e la morte, senza tregua, né sonno, né fame; a chi ha vissuto l’esperienza della rianimazione, considerandosi fortunato di poterla raccontare, ma continua a vivere con angoscia quegli interminabili giorni di isolamento sospeso tra la vita e la morte, lontano dai propri cari. Per questi e altri casi possiamo ipotizzare un ritorno difficile alla normalità con possibili strascichi emotivi e post traumatici, perché di questo si tratta. Quella semplice influenza ci ha colto impreparati, ci ha reso impotenti e ci ha condotto sotto stress, a una resistenza psicofisica, spesso oltre le nostre possibilità.
È bene sapere che quando il peggio sarà passato e lo stress calerà, potremo percepirci profondamente cambiati al punto da sentire di aver perso i nostri punti di riferimento e la sensazione di continuità con ciò che ci era più familiare, non riconoscerci nelle nostre reazioni più abituali e nel nostro solito modo di essere. Potremo sentirci depressi o inspiegabilmente arrabbiati, confusi come tra il sonno e la veglia, o ancora improvvisamente travolti dalla paura e da reazioni neurovegetative all’apparenza immotivate: l’emergenza è finita, il pericolo è passato, ma il nostro corpo non lo sa e continua a reagire anche a stimoli innocui come se fosse ancora minacciato. I lividi non sono solo sotto le mascherine ma anche nell’anima di chi è sopravvissuto e possono guarire con difficoltà, se non visti o sottovalutati.