Il disprezzo è l’altra faccia del disgusto?

di Irene Tramentozzi e Erika Cellitti 
a cura di C. Castelfranchi e M. Miceli   

Dal ­momento che la rabbia viene spesso utilizzata per riferirsi alle emozioni di disprezzo e disgusto, alcuni autori suggeriscono che il disprezzo sia una “miscela” di rabbia e disgusto, altri, invece, mettono persino in discussione che il disgusto sia una vera e propria emozione. Pur condividendo un nucleo comune basato sull’ostilità, disprezzo e disgusto sono, in realtà, come suggerito dagli autori Castelfranchi e Miceli, due emozioni completamente differenti, contraddistinte da diverse caratteristiche cognitivo-motivazionali. Ontologicamente tali emozioni sono accomunate dal possedere un aspetto “morale” e uno “non morale”, inoltre implicano una valutazione negativa di tipo disposizionale ed entrambe innescano tendenze all’azione di evitamento ed esclusione. Tuttavia, nonostante questi elementi comuni, il disprezzo è rivolto, esclusivamente, verso gli esseri umani e comporta un senso di superiorità nei loro confronti, pessimismo riguardo un loro possibile miglioramento, distacco da essi ed evitamento. Al contrario, il disgusto può essere rivolto ad una vasta gamma di stimoli e comporta una certa sensibilità alla contaminazione ed un conseguente evitamento guidato dalla paura stessa. Un’altra differenza significativa tra disprezzo e disgusto è correlata, in primo luogo, ai diversi tipi di “standard” rispetto ai quali viene valutato lo stimolo, in secondo luogo, alla mancanza di rispetto generato dalla stessa valutazione negativa.  

L’emozione del disprezzo implica un confronto con un altro individuo e la conseguente valutazione di quest’ultimo come al di sotto dei propri standard. È possibile distinguere due forme di disprezzo, una “non morale” ed una “morale”. Il disprezzo “non morale”, definito anche “di base”, può essere rappresentato da tre caratteristiche qualificanti: implica una valutazione negativa riguardo le capacità del soggetto a cui viene attribuita una mancanza di potere e inadeguatezza nel rispecchiare gli standard del valutatore, la caratteristica disprezzata viene riconosciuta come un tratto intrinseco del soggetto e, in ultimo, valutata come totalmente negativa e rilevante per gli standard del valutatore. La mancanza di rispetto in questo caso è legata al fatto che la persona disprezzata è considerata carente di quelle capacità necessarie a soddisfare lo standard e gli viene riconosciuta l’impossibilità di acquisirle nel tempo: “non c’è niente da fare”.

Le conseguenti condotte di evitamento saranno supportate non dalla paura in quanto tale, ma dalla considerazione che esso è immeritevole di interesse e “inutile” in un eventuale interscambio sociale. Il disprezzo “morale” ha le stesse componenti cognitive di quello di base, ma oltre all’inadeguatezza, al soggetto disprezzato viene attribuita anche una componente di responsabilità rispetto alle proprie mancanze. Ma come è possibile essere inadeguati e allo stesso tempo responsabili per una propria “mancanza”? Gli autori suggeriscono che vi sia una valutazione, da parte del disprezzante, basata sul “poter acquisire” tale mancanza grazie ad uno “sforzo” di apprendimento, che però il soggetto disprezzato evidentemente non compie. Inoltre, l’evitamento assumerà una forma di esclusione sociale, non solo inteso come allontanamento, ma anche come punizione verso l’altro.  

Il disgusto è identificato da Charles Darwin come una delle sei emozioni di base degli esseri umani, ma secondo quanto suggerito da Castelfranchi e Miceli, è necessario operare un’essenziale distinzione: quando questa emozione è una risposta immediata ad uno stimolo rivoltante, va considerata semplicemente come un effetto sensoriale negativo associato ad una reazione fisiologica (come nausea e vomito) ed affinché il disgusto sia identificabile come un’emozione in quanto tale, è necessario che questa reazione venga ri-simbolizzata cognitivamente, cioè gli venga attribuita una valutazione ed un’interpretazione che gli forniscano una valenza affettiva. Tutte le forme di disgusto condividono delle caratteristiche chiave: sensibilità alla contaminazione, intesa come riconoscimento di uno stimolo come contaminante e causa di minaccia alla propria integrità attraverso il contatto o l’associazione con esso, la paura della contaminazione come diretta conseguenza di tale riconoscimento, e in ultimo, l’evitamento dello stimolo motivato dalla paura stessa. Queste caratteristiche pongono una differenza netta tra disgusto e disprezzo, attribuendo loro delle qualità distintive che permettono di definirle come due emozioni differenti, infatti nel disprezzo non c’è né sensibilità alla contaminazione né paura della contaminazione e la persona disprezzata non è percepita come contagiosa: è solo inferiore e indegna di stima (non suscita paura).  

Il disgusto appare quindi come un’emozione complessa, le cui componenti cognitive non sono facili da identificare, a causa dell’ampia varietà dei trigger che l’attivano. Gli autori pongono un’ulteriore distinzione inerente alle varie tipologie di disgusto, identificando sia il disgusto sociale sia il disgusto morale: il primo può essere considerato come una forma di disgusto associata al ricordo nel comportamento o nell’aspetto, a quelli propri degli animali, come ad esempio mangiare cibo marcio o contaminato, o mangiare animali che in una certa cultura non sono socialmente accettabili, oppure diretto a persone il cui aspetto fisico assume connotati “animaleschi”, e può pertanto essere considerato come legato a convenzioni sociali; il secondo, sembra invece essere associato a violazioni del codice morale di cui la persona è ritenuta responsabile e questo tipo di violazione è considerata talmente grave che la persona viene giudicata come “non conforme allo standard di essere umano” e quindi dis-umanizzata, pertanto il conseguente evitamento non sarà legato solo al distanziamento fisico, ma al distanziamento sociale che assume una doppia valenza, una punitiva (come nel disprezzo morale) e l’altra difensiva, al fine di operare un distacco “protettivo” dal rischio di contagio morale. La mancanza di rispetto generata da questa forma di disgusto, assumerà, pertanto, un aspetto contraddittorio: come può una persona dia-umanizzata moralmente, essere al tempo stesso responsabile di un illecito? La risposta consiste nel fatto che chi è oggetto di disgusto è percepito come un traditore della dignità umana che non combatte le sue tendenze disumane. Pertanto il disgusto è legato all’etica, alla dignità e all’integrità umana, che assume una funzione adattiva in quanto misura autodifensiva e punitiva, che non sempre assume un’accezione negativa e può apparire appropriata quando questa è rivolta a condannare determinati illeciti comportamentali.

In conclusione, quindi, appare evidente che tali emozioni siano differenziate da specifici connotati cognitivi-motivazionali. Il disprezzo implica un elemento di “freddezza” poiché correlato ad una bassa attivazione fisiologica e per sua natura, è caratterizzato da un aspetto piacevole nello sperimentare tale emozione poiché basata su una percezione del sé come superiore all’altro (come ricordano Miceli e Castelfranchi “un caso particolare è rappresentato dal disprezzo verso sé, in cui il soggetto valuta se stesso, o meglio il sé reale percepito, tanto al di sotto degli standard sostenuti dal proprio sé ideale”), mentre il disgusto è ancestrale e “viscerale” poiché derivato da esperienze legate alla paura della contaminazione, è caratterizzato pertanto da un’esperienza spiacevole. Tale distinzione può assumere rilevanza, non solo in ambito clinico, per individuare le specifiche attivazioni fisiologiche, i correlati cognitivi e le attitudini comportamentali legati a queste due emozioni al fine di imparare a riconoscerle e discriminarle.

Riferimenti bibliografici

Miceli M, Castelfranchi C. Contempt and disgust: the emotions of disrespect. J Theory Soc Behav. 2018;1–25. https://doi.org/10.1111/jtsb.12159

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *