Tutti i guai dell’uomo derivano dal non saper star fermo in una stanza.
Blaise Pascal
Sono tempi duri. Sembra l’intro di un film apocalittico e invece eccolo qui, il nostro film. Un virus che ci costringe chiusi in casa, chiusi in noi stessi.
Diversi sono stati i gesti di dissenso a questa richiesta, dolorosa ma necessaria: imperterrite uscite per l’aperitivo, affollamenti nei posti più disparati, manifestazioni pubbliche, proteste per eventi cancellati. Sembra quasi che il nostro piccolo mondo ci spaventi più del virus.
Ma di cosa abbiamo paura?
Imporci un cambiamento che non prevede più la solita routine ci pone inevitabilmente davanti alla necessaria ristrutturazione delle nostre giornate e della loro utilità, facendo del nostro “sempre troppo poco” tempo, un tempo più lungo e risentendone emotivamente.
La variabile percezione affettiva della durata del tempo era già stata oggetto di riflessione nella mente di Kant che nell’ “Antropologia pragmatica” scriveva: “Sentire la vita, divertirsi, non è dunque altro che sentirsi continuamente spinto a uscire dalla condizione presente (la quale deve quindi essere un dolore che spesso ritorna). Così si spiega anche la pena opprimente e angosciosa che procura la noia a tutti coloro che badano alla propria vita e al tempo”.
Inconsapevolmente schiavi di una ideologia “emozionalista”, che assegna predominio sociale solo alle “emozioni forti” a scapito invece delle forme più sfumate del sentimento e della dimensione contemplativa della vita (che hanno in realtà dato terreno fertile ad arte e letteratura), il tempo diviene, infatti, fonte di vero e proprio “disgusto” quando “è considerato solo come un intervallo tra mezzo e fine e allora diventa lungo”.
Ecco, quindi, che quando ci manca il fine del nostro agire, si fa spazio quella sensazione di “vuoto”, avvertita con orrifico disgusto: è qui che nasce la noia. La noia che tanto temiamo, che fa assumere alle nostre giornate quella forma lineare che così poco ci piace. Quella “nebbia” di cui parlava Pietro Verri riferendola al “tedio abituale in cui gli uomini temono di restare immersi”. Quella nota di “intemporalità”, di “sterilità” che tanto detestiamo, a noi che ormai nel tempo piace affogare. È una sorta di regno celeste da cui si vorrebbe evadere per tornare a respirare un’aria più libera. Ci fa sembrare tutto eterno. E infatti eccoci qui, a chiederci: quando finirà?
E invece Ramón Gómez de la Serna diceva che “se si potesse sfruttare la noia disporremmo della più potente fonte di energia”. Allora giriamo la faccia di questa moneta obbligatoriamente messaci nelle mani: accogliamo la noia, riconosciamole un valore. Facciamola sedere accanto alle altre emozioni, assopite per un po’. Non importa. Si risveglieranno. Lasciamo che la noia occupi i suoi spazi, occupi il nostro tempo. La noia serve. Serve a liberare la mente, a rafforzare attenzione e creatività. Ci apre gli occhi, ci costringe a guardarci attorno e a valutare come poter rivalorizzare il tempo. Ed è così che capiamo che forse ha ancora valore qualcosa: un mobile da tempo abbandonato, che potremmo riverniciare. Quel piatto che vorremmo provare. Quell’amico che non abbiamo più chiamato, ma che vorremmo tanto sentire. Quel quadro che starebbe proprio bene su quella parete se solo avessimo il tempo per appenderlo. Quel libro da finire. Quell’idea da rispolverare.
La noia è un diritto. E questa è l’opportunità, sebbene sfortunata, per ognuno di noi di goderne. Solo così da questa situazione possiamo imparare una grande lezione: quella – citando Vinicio Capossela – di “ricondurre il mondo all’umile e al piccolo, fuori dal tempo dell’utile e del lavoro”. Ma soprattutto, come fa la lumaca: “rallentare il tempo e godersi la scia”.
Per approfondimenti:
Vigorelli A. (2009). Il disgusto del tempo. La noia come tonalità affettiva. Mimesis