Si può calcolare il rischio di violenza?

di Giuseppina Lauria

A cura di Erica Pugliese

Uno studio di ricerca sulla dipendenza affettiva e la violenza di genere presso l’SPC di RomaSono sei milioni e 788 mila le donne che hanno subìto violenza fisica o sessuale nel corso della vita. Tre milioni e 466 sono vittime di stalking. Il numero di figli che assistono a episodi di violenza aumenta dal 60,3% nel 2006 al 65,2% nel 2014.
Soprattutto nei casi di violenza domestica, è molto probabile che gli abusi non siano episodi singoli e sporadici. Dalle indagini Istat emerge, infatti, che chi si rivolge al Telefono Rosa subisce violenza fisica e psicologica da mesi (19,9%; 22,8%) o da anni (77,7%; 72,3%). La Direttiva UE del 2012 ha posto l’accento sul rischio di vittimizzazione ripetuta e ha affermato che “solo una valutazione individuale e tempestiva può calcolarlo”.  Alcuni Paesi europei – come Svezia, Spagna, Portogallo e Inghilterra – hanno introdotto all’interno delle forze dell’ordine l’uso di questionari per individuare i casi ad alto rischio.Ma questi strumenti funzionano?
La risposta della ricerca condotta nel 2019 da Emily Turner, Juan Medina-Ariza e Gavin Brown, docenti all’università di Manchester è “no”.
I questionari finora utilizzati non funzionano anche perché sono nati in un momento storico in cui gli studi sulla violenza di genere e la giurisprudenza sul tema erano solo agli inizi. Ma lo studio evidenzia un fenomeno rilevante: i casi ad alto rischio vengono individuati con maggiore cura dagli ufficiali che si dimostrano più empatici e accoglienti con la vittima. Questo dimostra che il somministratore è una variabile importante.Se incrociamo questo dato con quelli rilevati dall’Istat dal 2013 al 2019, emerge l’importanza non solo di proseguire la ricerca per affinare l’efficacia degli strumenti, ma anche di formare chi li utilizzerà e promuovere campagne di informazione.Gli anni in cui si sono registrate il maggior numero di telefonate al numero verde coincidono, infatti, con quelle della messa in onda di pubblicità progresso, indice che queste riescono a raggiungere un pubblico più ampio. Se il 78% delle vittime sceglie di non parlare con nessuno è anche per la scarsa informazione riguardo i servizi di supporto alle vittime.Ma questo non è l’unico problema.
Dei 59.975 dei casi di violenza registrati dal numero verde, solo il 17,7% decide di denunciare e non ritirare la denuncia. Le ricerche italiane confermano che la sensibilità e il tipo di reazione che gli ufficiali hanno nei confronti della vittima condiziona la sua scelta di dare visibilità al fenomeno.
Oltre alla paura e alle pressioni esercitate dal contesto familiare, ben 2.582 persone dichiarano di ritirare la denuncia perché invitate direttamente dalle forze dell’ordine a farlo.
Il Governo italiano ha comunque provato ad attuare delle misure di contrasto alla violenza domestica e di genere, stabilendo per questi casi una sorta di corsia preferenziale. Il 9 agosto 2019 è entrata in vigore la legge n.69 o “Codice Rosso” che, oltre ad inasprire le pene e a introdurre i reati di revenge porn e sfregi al viso, stabilisce un limite di tre giorni per ascoltare la vittima o chi ha sporto denuncia.
Nonostante lo sforzo, la legge ha creato nella pratica un effetto paradosso. Il fatto che non siano stati stanziati fondi, aumentato il personale e previsti corsi di formazione per lo stesso, impedisce di rispondere in maniera appropriata all’aumento delle denunce, causando un rallentamento della procedura che si voleva velocizzare.
Al fine di colmare questo gap metodologico, il project di ricerca “Dipendenze affettive e violenze di genere” della Scuola di specializzazione in Psicoterapia Cognitiva (SPC) di Roma si sta occupando dello sviluppo di strumenti adeguati che misurino questo costrutto in termini di determinanti cognitivo-comportamentali con riferimento al modello sulle dipendenze affettive proposto da Erica Pugliese, Angelo Saliani e Francesco Mancini.
Gli autori sostengono, inoltre, la necessità di una formazione specifica delle persone coinvolte nel processo di messa in sicurezza delle vittime, di un trattamento specifico che lavori sul loro presente ma anche sulle loro vulnerabilità storiche, spesso traumatiche, e la diffusione dell’informazione per contrastare il fenomeno.

Per approfondimenti

Pugliese E., Saliani A. M., Mancini F. (2019) Un modello cognitivo delle dipendenze affettive patologiche, in “PSICOBIETTIVO” 1/2019, pp. 43-58.Turner E., Medina-Ariza J., Brown, G. (2019). Dashing Hopes? The Predictive Accuracy of Domestic Abuse Risk Assessment by Police? The British Journal of Criminology.

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