Eppure il vento soffia ancora…

di Benedetto Astiaso Garcia

La solitudine può portare a forme straordinarie di libertà. Fabrizio e André

Il dono maggiore di cui disponiamo, il tempo, scorre noncurante del virus, osservando curioso i figli della società moderna dagli spioncini delle loro case: non vi è più nessun trambusto, nessuna melodia, nessun caotico tentativo di rincuorare sé stessi attraverso bizzarre forme di socialità.
Il silenzio comincia a divenire assordante, tanto rumoroso da risvegliare la mente e liberarla, con le domande che suscita, dal pigro desiderio che la vita di prima, raramente apprezzata quando accessibile, possa tornare a essere vissuta. Chronos ricorda il rumore del Big Bang, quello degli zoccoli di mille cavalli durante una battaglia, l’esplosione della polvere da sparo, la bomba di Hiroshima, il crollo del muro di Berlino… Riscopre un nuovo caos, quello delle strade tacite, solitarie e mute.

Sono passati due mesi da quando il coronavirus, come un ospite indesiderato, si è presentato alle porte dell’Italia, stravolgendo la vita di ogni suo abitante. Come in un lutto improvviso, difficile da elaborare, seppelliamo l’illusione di essere immortali: la perduta libertà, infatti, lascia il posto a un saggio silenzio che ci permette di uscire da una fase negazionista e rifiutante della realtà.

Prima rabbiosi e poi tristi, riacquistiamo il senso reale di ciò che sta accadendo, entrando nell’indispensabile fase di consapevolezza del dolore: il bene perduto assume una valenza di insostituibilità, predisponendo così l’individuo a un successivo step di accettazione.

Nell’attesa di riorganizzare noi stessi, aspettiamo che l’onda lunga del Covid-19 si ritragga, sperando che il domani deponga sulla battigia qualche diamante in mezzo a tanti cocci di bottiglia. Bramare che le cose tornino esattamente come era prima, limitandosi ad attendere che questo tempo passi in fretta significa, però, perdere un’importante occasione di crescita personale e sociale. Come pesci a cui è stato tolto il mare, senza incappare in goffi tentativi di tirar fuori a tutti costi del bene dalla situazione attuale, l’emergenza sanitaria mondiale ci rimarca l’urgenza di porre importanti riflessioni.

L’individualismo, in primo luogo, sembra lasciare evoluzionisticamente il posto a una necessaria forma di cooperazione, socialità e senso di appartenenza, unica modalità per reggere l’urto di un silenzioso tsunami. Combattere contro un mostro invisibile, infatti, pone l’uomo nella costrittiva condizione di guardare l’altro, specchio di una comune esperienza emotiva vissuta, quella della paura. È solamente nel timore che è possibile maturare la coscienza della nostra finitudine, incrementare l’auto-riflessività e sviluppare l’indispensabile capacità di chiedere aiuto all’altro.  La paura rende gli uomini esploratori di significati e ricercatori di senso: indaffarati minatori nei meandri dell’essere, che scavano tra dubbi e certezze per ritrovare sé stessi.

Nella noia, inoltre, viene riscoperta l’ardente speranza di un futuro migliore. Nella quiete, la possibilità di vivere l’oggi alla luce di un enigmatico domani. Nell’incertezza, l’opportunità di ricordarsi delle certezze dimenticate della propria vita. Evitare che questa condizione ci cambi significa rassegnarsi a un’involuzione: non facciamoci trovare uguali da un mondo che sarà invece diverso. Il virus annulla qualsiasi distinzione, non ha passaporto, non conosce confine. Ci pone di fronte alla verità di noi stessi e delle nostre vite, eliminando la polvere da relazioni e insuccessi troppo a lungo giustificati e tacitamente assecondati. La sofferenza odierna decontamina l’aria da un delirio di onnipotenza, talvolta anche economico e scientifico, e ripone l’uomo nella sua realtà, meravigliosa, se accettata, o terrificante, se illusoriamente rinnegata.

In un tempo in cui è difficile dare risposte, porsi le giuste domande diviene necessario. Accettare il presente, senza attendere un futuro che non tarderemo a disprezzare nuovamente, significa sentire la brezza di un vento che continua a soffiare dentro case sigillate.

Rimanere in apnea, invece, limitandosi a trattenere il fiato per sopravvivere nella difficoltà, rappresenterebbe l’amara incarnazione delle parole del cantautore e poeta Fabrizio De André: “Passano gli anni, i mesi e se li conti anche i minuti, è triste trovarsi adulti senza esser cresciuti”.

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