Esporsi a un trauma senza viverlo

di Marzia Albanese

L’ombra del trauma vicario nel trattamento del Disturbo Post-Traumatico da Stress

Michael è di New York. Ogni mattina, quando prende l’ascensore del suo palazzo, immagina gente in fiamme correre fuori, le urla riempire la hall. Prova a non pensarci e a chiudere gli occhi. Ma quando chiude gli occhi, Michael vede arti intrappolati tra le macerie e spesso, per tale ragione, non riesce a dormire e passa le sue notti girovagando per il quartiere.

Michael è uno psicoterapeuta che lavora a Manhattan e si occupa ormai da molti anni di Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD). Dall’11 settembre del 2001, ha preso in carico quasi esclusivamente pazienti sopravvissuti all’attacco del World Trade Center. Alcuni erano fuggiti dagli edifici che crollavano, mentre altri erano stati tra i primi a essere rinvenuti e soccorsi nella catastrofe.

Nel 2004, però, qualcosa cambia. Michael è spesso nervoso, si sente depresso e la notte proprio non riesce a prendere sonno. A volte invece ci riesce, ma gli incubi lo svegliano.
Il tempo scorre nella vita di Micheal. Inizia a evitare situazioni sociali, non partecipa più a feste e compleanni. Non prende più i mezzi pubblici ed è spesso vittima di veri e propri attacchi di panico.

Che cosa è successo a Michael?

La psicologa americana Laurie Pearlman lo chiama “trauma vicario” ovvero una condizione che può colpire chi lavora con persone gravemente traumatizzate (psicologi, infermieri, medici, operatori) in seguito a un forte coinvolgimento empatico che può determinare un vero e proprio cambiamento, in negativo, degli schemi cognitivi e dei sistemi di credenze che portano, come quanto accade a chi è vittima di un trauma, a un generale senso di sfiducia in sé e nel mondo. “Sono rimasta colpita dal lavoro sui traumi nei modi che non mi aspettavo o non capivo”, racconta la Pearlman rispetto alla sua esperienza iniziale con le vittime di abusi sessuali: “ho visto come le mie visioni positive venissero messe in pericolo e ho trovato difficile mantenere vivo il mio atteggiamento normalmente ottimista”.
A partire dalla sua esperienza e da altre osservazioni cliniche, la Pearlman sottolinea, dunque, con la concettualizzazione del trauma vicario, l’importanza e la difficoltà del terapeuta di gestire una concezione del mondo alterato e in definitiva distruttiva, non soltanto nel trattamento del paziente, ma anche nella sua stessa vita interiore. Per tale ragione, nonostante l’esposizione all’evento traumatico sia indiretta, la sintomatologia che si presenta in un trauma vicario è esattamente analoga a quella riscontrabile in un quadro clinico di PTSD: pensieri intrusivi, evitamento, aumento dell’arousal, flashback, visione negativa del mondo circostante vissuto come pericoloso e ingiusto.

Come lo stesso Michael insegnava durante le sue lezioni accademiche, se immaginiamo un limone, lo teniamo bene a mente e ci concentriamo sulle sue qualità (il suo vivo colore giallo, il suo profumo di agrumi) e poi immaginiamo di tagliarne una fetta per gustarne il sapore acido e forte, bhé… Difficilmente non staremo già salivando!

Pensare e immaginare produce una relazione fisica e, di conseguenza, quando un terapeuta di un paziente con PTSD ascolta una storia di violenza, l’immaginazione empatica può inavvertitamente innescare una reazione fisiologica simile a quella che la vittima ha vissuto: tachicardia, nausea e altri elementi come le risposte di lotta o fuga.

A conferma di questo, Yael Danieli, psicologo ed ex sergente delle Forze di Difesa israeliane, in una revisione delle reazioni emotive dei terapeuti che lavorano con i sopravvissuti all’Olocausto, descrive come si siano spesso trovati a condividere gli incubi dei pazienti sopravvissuti: in nove mesi di trattamento, un terapeuta ha infatti riferito di aver avuto solo due sogni che non erano legati a storie dei suoi pazienti, mentre un altro ha confessato che la prima volta in cui ha visto un numero di identificazione tatuato sull’avambraccio di un paziente, è dovuto “uscire per vomitare.”

Nonostante ovviamente, non tutti coloro che lavorano in ambito clinico, sono soggetti a sviluppare il trauma vicario a causa di diverse variabili (stili di attaccamento, risorse interne ed esterne, livello di esposizione alle memorie traumatiche) è consigliabile che chiunque lavori a vario titolo con tali tipologie di pazienti, prenda alcuni accorgimenti specifici: mantenere un collegamento costante con i colleghi con cui condividere le esperienze ascoltate e i propri vissuti emotivi connessi, effettuare una specifica formazione nel campo del trauma che possa fornire utili strategie di gestione di eventuali rischi, bilanciare il lavoro con lo svago e il riposo e, infine, mantenere sempre viva la propria rete familiare, sociale e relazionale.

E Michael? Oggi ha ripreso la sua attività clinica, dopo averla interrotta per un periodo limitato di tempo, necessario alla sua ripresa.

“Quando i miei pazienti mi diranno che non posso capire quello che hanno passato, adesso so cosa rispondere”.

Per approfondimenti:

Kogan, I. (2002) Book Review and Commentary: International Handbook of Multigenerational Legacies of Trauma. By Yael Danieli. Journal of Applied Psychoanalytic Studies 4, 93–97

Pearlman L.A., Saakvitne K.W. (1995). Trauma and the therapist: Countertransference and vicarious traumatization in psychotherapy with incest survivors. Norton, New York

Reuben A. (2015) When PTSD Is Contagious. Therapists and other people who help victims of trauma can become traumatized themselves. The Atlantic

Stamm B.H. (1995). Secondary traumatic stress: Self-care issues for clinicians, researchers and educators. MD: Sidran Press, Lutherville.

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