E fattela ’na risata!

di Benedetto Astiaso Garcia

“Se non potessimo ridere, diventeremmo tutti pazzi” Robert Frost
L‘utilizzo dell’ironia in psicoterapia

La psicoterapia è una cosa seria: è proprio per questo che l’ironia gioca un ruolo importante al suo interno. Freccia nella faretra del terapeuta, essa incarna uno “scottante” strumento non sempre facile da utilizzare in termini di timing, frequenza e propensione innata al suo impiego. Promuovere una comunicazione che possa anche essere ironica, ovviamente all’interno di un contesto sicuro, significa ridurre la tensione e generare un abbassamento delle emozioni negative, utile qualora esse non siano eccessivamente attivate nel paziente. Tale atteggiamento, al fine di ottenere un’orientata efficacia, deve essere il riflesso di una indispensabile disposizione dell’animo del paziente e della figura curante, entrambi tacitamente disposti a danzare insieme sui carboni ardenti.

Come un pattinatore su un ghiaccio sottilissimo, lo psicoterapeuta utilizza l’umorismo in maniera strategica, rappresentandosi mentalmente uno scopo e un effetto, chiari e definiti, sottostanti l’approccio comunicativo stesso. L’ironia prende in contropiede la vita e favorisce l’autoriflessività. Decatastrofizzando lo scenario mentale, porta luce negli angoli più bui dell’essere, rinfrescando una torrida percezione della realtà e alleggerendo il pesante zaino di uno stanco viandante.
Forma evoluta dell’intelligenza e peculiarità della specie umana, l’autoironia non elude, ovviamente, la sofferenza, permette invece di guardarla da più lontano: non modifica l’esperienza ma offre la possibilità di mutare interpretazione e significato della stessa, rielaborando il vissuto emotivo e facendo crollare, come un castello di carte, l’autocriticismo.

Sviluppare un senso di autoironia, pertanto, è segno di attenzione e tenerezza verso se stessi, dal momento che conferisce all’individuo la possibilità di entrare maggiormente nella verità: insight ed egodistonia rispetto al proprio malessere, infatti, rompono la tensione tra ciò che la persona è e ciò che essa ritiene di dover essere, catapultandola nella sanità del reale.
Favorire la lettura della mente altrui, prendere distanza dalla propria condizione e generare nuovi significati sono solamente alcuni dei vantaggi che un atteggiamento benevolo verso se stessi può indurre. Essere autoironici, in altre parole, è un atto di fede che permette al paziente di tirarsi momentaneamente fuori dall’inferno in cui vive, ridimensionandone la connotazione disperata e tormentosa. È un salvifico strumento che permette di uscire dalle sabbie mobili di un condannante iper-razionalismo, un filo di Arianna per fuggire da un labirinto di specchi dove il cogito cartesiano, travestito da Minotauro, perseguita Teseo.  È il bacio sulla ferita del bambino, tanto utile quanto poco utilitaristico. Il tasto funzionante di un pianoforte rotto, la lacrima tenuta sulla punta del dito, l’eco del silenzio, il profumo dell’intimità, il sorriso di chi si è dissetato con le proprie lacrime.

Siamo realmente più forti quando riusciamo a sorridere delle nostre debolezze. L’ironia è, dunque, l’anticamera della libertà, specchio di un Io sano, termometro per consapevolizzare l’individuo dei propri limiti, strumento per spezzare la solitudine e la paura, asta per camminare sul filo della vita. Essa è, in fondo, l’immagine di un’anima, seppur triste, consapevole. D’altronde, parafrasando le parole di Chopin, chi non è in grado di ridere di sé non è una persona seria. Non scegliamo di essere ironici, semplicemente a volte non abbiamo altra scelta.

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