Il senso di inferiorità della psicologia

di Claudia Perdighe

Davvero la psicologia ha bisogno sempre di numeri per essere scienza?

Qualche giorno fa ho letto un articolo del fisico, e anche bravissimo divulgatore, Carlo Rovelli.

Rovelli evidenziava che in fisica, quella che per tanti è la scienza per eccellenza, negli ultimi decenni la ricerca non ha prodotto niente di nuovo; per essere più precisi, niente di inatteso o che non ci si aspettasse in base alle migliori teorie prodotte nel ’900. Tutti i grandi risultati della fisica sperimentale degli ultimi decenni sono, in sostanza, una conferma delle previsioni prodotte da grandi fisici teorici del secolo scorso e che, dice Rovelli, si studiavano all’università cinquant’anni fa.

Il tema mi ha sia incuriosito che sorpreso. Subito dopo ho provato un moto di grande ammirazione: qualcuno, decenni fa, ha formulato delle teorie che a tutt’oggi non sono state del tutto confermate a livello sperimentale, ma che ancora stanno raccogliendo conferme della loro validità.

Poi ho pensato a quanto la grande distanza tra fisica e psicologia (“scienza umanistica e di serie B”, secondo il geniale fisico Sheldon, nella serie Big Bang Theory) sia segnalata anche dal nostro (di noi psicologi e psicoterapeuti) bisogno di numeri e di “scoperte nuove”. Il valore di un articolo o di una relazione in un convegno viene molto sovente stabilita dalla presenza o meno di numeri, cosa che lo fa quasi automaticamente qualificare come “scientifico”.

Tendiamo a dimenticare che perché l’aggettivo “scientifico” sia applicabile, la presenza di numeri non è condizione né sufficiente né necessaria.

Il fatto che un lavoro sia una ricerca non lo rende in sé un grande contributo alla scienza, non solo nel senso che possono esserci difetti metodologici, ma anche perché non è detto che sia a servizio di una conferma o falsificazione di una teoria (o sua bozza) o ipotesi basata su premesse sufficientemente solide.

D’altra parte, una teoria può essere meritevole dell’aggettivo “scientifico”, anche per la sua coerenza interna, per la capacità di dare conto di tanti fenomeni e di produrre previsioni, anche quando queste non siano ancora verificate empiricamente.

E allora ripenso a quanto da anni mi ripete un caro amico e collega: “Noi psicologi e psicoterapeuti dovremmo recuperare un po’ il piacere della speculazione che, quando fatta in modo rigoroso, è una base fondamentale per la ricerca di qualità. Speculare, pensare, teorizzare non significa rinunciare al rigore della scienza, ma porne le basi”.

(N.B. Popper contestava a Freud l’inclusione della psicanalisi tra le scienze non per la carenza di riscontri empirici, cosa che all’epoca l’avrebbe accomunata alla teoria della relatività, ma perché troppo basata sul metodo induttivo e perché incapace di produrre teorie e proposizioni confutabili). 

Per approfondimenti:

Fisica, l’entusiasmo per il muone e i dubbi sulla «risposta inattesa» all’esperimento

https://www.corriere.it/cronache/21_aprile_14/fisica-l-entusiamo-il-muone-dubbi-l-effetto-al-lupo-lupo-50335254-9d55-11eb-85f1-679fe940a2d0.shtml

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