Benedetta noia: esiste una scala per valutare l’intolleranza alla noia?

a cura di Giuseppe Femia

“Ciò che mi colpiva, soprattutto, era che non volevo fare assolutamente niente, pur desiderando ardentemente fare qualche cosa. Qualsiasi cosa volessi fare mi si presentava accoppiata come un fratello siamese al suo fratello, al suo contrario che, parimenti, non volevo fare. Dunque, io sentivo che non volevo vedere gente ma neppure rimanere solo; che non volevo restare in casa ma neppure uscire; che non volevo viaggiare ma neppure continuare a vivere a Roma; che non volevo dipingere ma neppure non dipingere; che non volevo stare sveglio ma neppure dormire; che non volevo fare l’amore ma neppure non farlo; e così via.” (A. Moravia, La noia)

L’articolo “Development, validation, and psychometric properties of the Italian and English version of the Boredom Intolerance Scale (BIS)” di Valerio Pellegrini, Estelle Leombruni, Stefania Iazzetta, Marco Saettoni e Andrea Gragnani rappresenta un contributo significativo alla ricerca sulla noia e sulla sua intolleranza, proponendo e validando la Boredom Intolerance Scale (BIS). La BIS rappresenta il primo strumento specifico per misurare il grado di tolleranza individuale all’esperienza della noia.

La noia, spesso trascurata in ambito clinico, è descritta in letteratura come uno stato emotivo transitorio in cui si avverte uno stallo rispetto ai propri scopi di vita. Questo stato gioca un ruolo cruciale nella nostra psicologia, non solo nella normalità ma soprattutto in relazione a diversi fenomeni psicopatologici rilevanti. Alcuni individui la vivono come un’emozione neutra o gestibile, mentre per altri diviene un’esperienza intollerabile, innescando strategie di “fuga” che possono diventare disfunzionali. Per alcuni la noia è un’emozione spaventevole e da evitare con conseguenze sul piano comportamentale.  Ciò che appare rilevante, quindi, non è tanto la presenza o assenza della noia, quanto piuttosto la capacità individuale di gestione di questo stato emotivo e delle sue caratteristiche. L’intolleranza alla noia è infatti concepita come una carente capacità di accettazione e tolleranza di quello stato di stallo della mente che si manifesta in assenza  di attività interessanti o significative da perseguire  in modo finalizzato. 

Chi è intollerante alla noia non riesce, dunque, a modulare quell’l’incapacità e/o impossibilità di perseguire qualcosa di rilevante e di definito nel proprio sistema di valori e scopi. Tale difficoltà nell’esperire la noia sembra avere un ruolo in molteplici forme di disregolazione emotiva e/o di manifestazioni di tipo depressivo. 

In generale, la letteratura ha mostrato come la noia sia associata con vissuti di sofferenza psicologica, affettività negativa, anedonia, coping maladattivi, disinibizione e ricerca spasmodica di sensazioni intense. Nello specifico, numerose ricerche hanno evidenziato i suoi potenziali correlati negativi. Studi empirici hanno collegato la noia a diverse condizioni avverse di salute mentale, come depressione e ansia (Farmer & Sundberg, 1986), affettività negativa (Vodanovich et al., 1991), ostilità e rabbia (Rupp & Vodanovich, 1997), alessitimia (Eastwood et al., 2007), disturbi di somatizzazione (Sommers & Vodanovich, 2000), iperalimentazione e binge eating (Stickney & Miltenberger, 1999), gioco d’azzardo patologico (Mercer & Eastwood, 2010), uso di marijuana (Lee et al., 2007), abuso di alcol (Wiesbeck et al., 1996), insoddisfazione lavorativa (Kass et al., 2001) e scarso rendimento accademico (Jarvis & Seifert, 2002). La noia è stata inoltre associata alla percezione di uno scarso significato della vita (Fahlman et al., 2009), ridotta autorealizzazione (McLeod & Vodanovich, 1991) e soddisfazione esistenziale (Farmer & Sundberg, 1986).

Pertanto, la noia sembra essere correlata a sfide significative sul piano sociale, psicologico e fisico.

L’articolo di Pellegrini et al. (2025) si propone proprio di rispondere a questa esigenza, sviluppando e validando una scala in grado di misurare il costrutto di intolleranza alla noia. Nel complesso, la ricerca ha evidenziato che la BIS mostra solide proprietà psicometriche, sia nella versione italiana che in quella inglese, rivelandosi uno strumento affidabile e utile per la ricerca e la clinica. Il lavoro, articolato in tre studi che hanno coinvolto un totale di 1.397 partecipanti, mirava a sviluppare e validare la BIS, e a testarne le proprietà psicometriche della scala. Nello specifico, i risultati dell’analisi fattoriale esplorativa (Studio 1) hanno suggerito una struttura unidimensionale composta da sei item con elevata affidabilità. Questa struttura è stata successivamente corroborata attraverso un’analisi fattoriale confermativa (Studio 2). Lo Studio 2 ha fornito un ulteriore contributo alla solidità dello strumento mostrando l’invarianza della versione italiana della BIS rispetto al genere dei partecipanti. Lo Studio 3 ha mirato alla validazione della versione inglese della scala, confermandone l’affidabilità e l’invarianza di genere anche in questo contesto linguistico. Inoltre, è stata dimostrata l’equivalenza tra le versioni italiana e inglese, rendendo la BIS utilizzabile in diversi contesti culturali e linguistici.

Infine, gli Studi 2 e 3 hanno esaminato la validità di costrutto della BIS evidenziando associazioni significative tra il nuovo strumento proposto e vari costrutti psicologici. In particolare la BIS è risultata associata a misure di noia di tratto e stato, sensibilità al rilassamento, nevroticismo, ansia, rabbia, impulsività, depressione, soddisfazione di vita e senso di scopo nella vita.

I risultati ottenuti indicano che la Boredom Intolerance Scale è uno strumento affidabile e valido per la misurazione dell’intolleranza alla noia, con potenziali applicazioni in ambito clinico e di ricerca. In particolare, la sua utilità potrebbe estendersi allo studio di fenomeni psicologici legati alla disregolazione emotiva, all’impulsività e ai disturbi dell’umore, aprendo nuove prospettive per la comprensione e l’intervento su individui con difficoltà nella gestione della noia.
In conclusione, l’articolo offre una solida base empirica per l’uso della BIS in contesti internazionali e sottolinea l’importanza di considerare l’intolleranza alla noia come un tratto psicologico rilevante circa la salute mentale e per il benessere individuale.

L’articolo è disponibile al seguente link: https://www.sciencedirect.com/…/pii/S0191886925001138

Riferimenti bibliografici

Pellegrini, V., Leombruni, E., Iazzetta, S., Saettoni, M., & Gragnani, A. (2025). Development, validation, and psychometric properties of the Italian and English version of the Boredom Intolerance Scale (BIS). Personality and Individual Differences, 217, 112041. Doi  https://doi.org/10.1016/j.paid.2025.113151

 

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Una valutazione degli stati desiderati e degli scenari temuti: sviluppo preliminare e validazione del goals and anti-goals inventory

a cura di Maurizio Brasini

Gli autori di questo studio (Giuseppe Femia, Isabella Federico, Guyonne Rogier, Francesca D’Olimpio, Francesco Mancini e Andrea Gragnani) meritano la gratitudine di chi ha a cuore la prospettiva cognitivista che il gruppo SPC rappresenta e a cui noi (loro ed anche io) facciamo riferimento. Per comprenderne il motivo bisogna fare una premessa, ed è che la conoscenza è costituita di domini per i quali vale il principio dell’usucapione: appartengono a chi li coltiva. Se cercate oggi il termine “anti-goal” su Google, troverete una proliferazione di contributi rivolti ad un pubblico interessato ad ottenere la chiave del successo e della realizzazione personale; a costoro, si propone l’idea che la soluzione sia ridefinire i propri obiettivi di vita concentrandosi su ciò che si vuole evitare, cioè: trasformandoli in anti-scopi.

Chi ha conosciuto Roberto Lorenzini, o ne ha anche solo sentito parlare, non potrà evitare di immaginarlo commentare questa trovata con qualche battuta fulminante, ed è forse per questo che nei suoi ultimi anni di insegnamento e di scrittura – con i suoi “Ciottoli” – andava sempre di più ad evidenziare il ruolo cruciale degli anti-goal nella sofferenza psicologica. Forse proprio per evitare che la trascuratezza di quel campo lasciasse spazio a questo genere di derive culturali, confezionava appunti e studi, anche di carattere divulgativo, che potessero rafforzare il concetto e la formulazione degli anti-scopi come componenti centrali della psicopatologia.

Infatti, in linea con una tradizione di ricerca e concettualizzazione che in Italia ha visto in prima linea studiosi come Castelfranchi, Miceli, Mancini, Lorenzini e altri collaboratori per oltre quarant’anni, il lavoro di Femia e colleghi ci ricorda innanzitutto che quando i nostri investimenti diventano eccessivi e “irrevocabili” è più probabile che ci complicheremo la vita nel tentativo di raggiungerli ad ogni costo; inoltre, viene ribadita l’ipotesi che gli scopi definiti in negativo, quelli orientati a prevenire un esito temuto piuttosto che a raggiungere un esito desiderato, tendano più facilmente ad essere iper-investiti perché generalmente riguardano i timori e le paure, o per meglio dire minacce, e perché non hanno una “regola di stop”, ovvero non si riesce a stabilire quando è che siamo definitivamente scampati da ciò che tentavamo di evitare e possiamo considerarci al sicuro dalla minaccia.

Si capisce ora perché gli autori abbiano il merito nell’aver raccolto, con questo lavoro, il lascito di Lorenzini e rinnovato più in generale questa eredità culturale della Scuola di Psicoterapia Cognitiva: per rimettere la chiesa al centro del villaggio, come si suol dire. 

La costruzione di uno strumento come l’IGAG (Inventory of Goal and Anti-Goals, cioè scala degli scopi e anti-scopi) ha numerosi obiettivi di pregio: consentire l’indagine del tipo di scopi investiti dalle persone e dell’intensità degli investimenti; consolidare la nozione che investimenti rigidi ed eccessivi siano portatori di sofferenza psichica; investigare il rapporto tra i diversi scopi che possono diventare predominanti negli individui e le diverse forme della psicopatologia della personalità. Considerati nel loro insieme, tutti questi obiettivi convergono su un unico intento sovraordinato: dare impulso alla ricerca e al dibattito sulla motivated cognition, cioè su quell’accezione di scienza cognitiva che da Miller, Galanter & Pribram in poi considera gli scopi come il principio organizzatore della conoscenza e dell’azione umana, e che su questo principio informa anche la concettualizzazione e l’azione clinica.

E allora, l’auspicio è che ad amici, colleghi ed allievi piaccia, in occasione di questa pubblicazione, immaginare che Roberto Lorenzini avrebbe accolto questo lavoro con il suo sorriso sornione, sebbene sia solo un primo passo e nonostante la distinzione tra scopi e anti-scopi, così come formulata nella prima versione del questionario, il più possibile vicina alle sue stesse indicazioni, richiederà forse ulteriori studi per essere perfezionata. D’altronde, è così che procede la conoscenza scientifica: per aggiustamenti; ma un altro passo è stato compiuto nella direzione giusta.

Riferimenti bibliografici

Femia, G., Federico, I., Rogier, G., D’Olimpio, F., Mancini, F., Gragnani, A. (2025). Preliminary development and validation of the Inventory of Goals and Anti-Goals. Clinical Neuropsychiatry, 22(1), 99-108

doi.org/10.36131/cnfioritieditore20250108

l’articolo è scaricabile gratuitamente a questo link:

https://www.clinicalneuropsychiatry.org/download/preliminary-development-and-validation-of-the-inventory-of-goals-and-anti-goals/

 

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Le storie e il potere di aiutare chi le scrive e chi le legge

a cura di Giordana Ercolani

Breve recensione del testo “Natalina teneva le fila. Il ponte rosso e le storie che curano.” di Giuseppe Femia, edito da Albatros

Ai tempi dell’università un professore suggerì a me e ai miei colleghi matricole, di leggere un libro che ci avrebbe spiegato perché scrivere delle nostre esperienze, soprattutto se dense di sofferenza, avrebbe favorito in noi un processo di rielaborazione e definizione di cosa avessimo vissuto emotivamente. Oggi più che a quel tempo, dopo anni di formazione professionale e pratica clinica nel mondo del cognitivismo, aggiungerei che tale processo non solo ci insegnò ad identificare ciò che sperimentammo a livello emotivo ma soprattutto ci permise di scoprire come “ci raccontammo” quello che era accaduto. Fu davvero una grande scoperta e un’esperienza immersiva nella storia di ognuno di noi!
Di recente, dopo quel viaggio introspettivo nel racconto di qualcosa di mio, ho vissuto la stessa cosa leggendo le vicende della vita di altri. Natalina, Maria, Alessia, David e tante altre persone, per mano dello scrittore, narrano se stesse e le proprie vicende dolorose. Percorrono con la memoria “…un ponte rosso… tra passato e presente” e arricchiscono gli eventi con interessanti letture soggettive che accompagnano noi lettori verso le credenze più profonde del loro modo di vedere e sentire se stessi, gli altri e il mondo intorno a loro.
Al pari di questi personaggi, veri nella loro essenza ma di fantasia nella forma così da proteggerne il diritto alla riservatezza, si può leggere molto anche dell’autore. Di fatto, non resta invisibile il coraggio di chi decide di parlare anche di sé, dei propri bisogni e dei propri dolori pur potendosi appellare, anche nella stesura di questo libro, a quel distanziamento protettivo che generalmente serve nel setting clinico per svolgere un buon intervento terapeutico.
Sarà appassionante scoprire, pagina dopo pagina, l’emergere di similitudini e differenze tra il parterre dei personaggi e perché no?! Forse anche del lettore. Nel corso dei dialoghi avvenuti nella stanza di terapia e il dispiegarsi delle storie raccontate da ogni protagonista, è tangibile il rapporto che intercorre tra loro e il terapeuta (ognuno impegnato a fare avanti e indietro su quello stesso ponte rosso della memoria). Interagiscono, scambiano pensieri, emozioni e processi relazionali che permettono al clinico di trasferire prodotti terapeutici impercettibili, non per questo irreali o improvvisati, in grado di aiutare chi, in tanti modi diversi, chiede aiuto e ne riceve.
Per chi saprà non farsi spaventare dal dolore emotivo che proverà arrivando in fondo a questa storia, ci potrebbe essere una bella sorpresa. Auguro ad ognuno un poco di tempo da trascorrere insieme a questo libro, per scoprire, magari, che la propria sofferenza parla una lingua simile a quella di chiunque, a quella di uno psicoterapeuta e a quella dei suoi cari pazienti.

NATALINA TENEVA LE FILA. Il ponte rosso e le storie che curano – Giuseppe Femia

La relazione terapeutica nel trauma complesso

a cura di Federica Visco Comandini

Il concetto di intimità nel trauma complesso è fortemente dibattuto in quanto la vicinanza con l’altro è al contempo desiderata e temuta, condizionando il funzionamento interpersonale di coloro che ne soffrono.

L’attivazione del sistema dell’attaccamento può provocare stati emotivi intensi e intollerabili, portando alla messa in atto di strategie di potere e controllo per non sentirsi in balìa di una realtà vissuta come terrifica.

Come tutto questo può esprimersi nella relazione terapeutica che è, per definizione, una relazione di accudimento?

È quello che hanno provato a descrivere Carolina Papa, Erica Pugliese, Claudia Perdighe, Ramona Fimiani e Francesco Mancini nell’articolo “I Am Longing and Afraid to Depend on You”: A Case Report on Breakdowns of Therapeutic Alliance and Interpersonal Cycles in Complex Trauma.

Attraverso un’esemplificazione clinica vengono descritti i cicli interpersonali tra paziente e terapeuta in un caso di forte paura dell’intimità in cui la paziente combatte per riuscire a non sentirsi emotivamente dipendente dalla terapeuta.

Il lavoro suggerisce come la regolazione delle proprie attivazioni all’interno della relazione terapeutica rappresenti un prerequisito fondamentale per i terapeuti che lavorano col trauma complesso e sottolinea la rilevanza della qualità della relazione terapeutica con questo tipo di pazienti.

L’articolo è disponibile in open access al seguente link:  https://www.mdpi.com/2076-3425/14/12/1207

 

La scelta di Alida

a cura di Giordana Ercolani

Soffrire è, senza dubbio, un’esperienza soggettiva che può essere difficile da sperimentare e ancor più da condividere. Possono emergere infatti valutazioni di auto-critica, poichè il solo fatto che si stia soffrendo può farci sentire fragili, minacciati, sbagliati e dunque più soggetti a perdite e/o giudizi negativi. Tutto questo amplifica il dolore emotivo, alimentando anche un senso di incomprensione e solitudine molto comune.

Per questa ragione vogliamo condividere la storia di Alida; affinché il coraggio di raccontarsi anche nella sofferenza psicologica possa essere dimostrazione di “normalità” e perché la condivisione dell’esperienza terapeutica di cambiamento possa aiutare chi sta soffrendo a considerare la possibilità di chiedere aiuto.

Ciao,
mi chiamo Alida e ho 28 anni; soffro di DOC dall’età di 10.

Non sapendo cosa fosse esattamente, mi sono sempre sentita una “bambina strana”, “un po’ particolare”, un po’ troppo fissata per la pulizia e con pensieri ricorrenti su contaminazione e contatti con cose/persone che avrebbero potuto in qualche modo danneggiarmi.

Resa insicura da queste paure e vergognandomene molto, facevo di tutto per camuffare, compiacere gli altri, fare ironia su di me, tutte cose che (col senno di poi) sono state nocive per la mia autostima.

Dopo il 2020, la situazione è esplosa, sfuggendo dal mio controllo. Se fino a quel momento ero riuscita ad imbrigliare il DOC nella mia quotidianità di studentessa universitaria con una buona media, figlia presente e affidabile, sorella e amica con (apparentemente) nessuna difficoltà…di lì in poi tutto cambiò.

Ero terrorizzata, impaurita dal contatto con gli altri e con gli oggetti. Ero reticente ad uscire di casa. I pensieri erano così presenti e pervasivi da distogliermi dallo studio, tanto che cominciai ad andare fuoricorso. Le compulsioni che il DOC mi suggeriva rubavano letteralmente le mie giornate e tutta la mia energia vitale.

Non avevo voglia di vedere persone né di condividere spazi e cose. Per paura disdicevo gli appuntamenti con i miei amici e colleghi all’ultimo momento e  mi fingevo molto impegnata per non doverne prendere di nuovi. Mi ero spenta, depressa, resa irriconoscibile a me stessa.

Al culmine di questa sempre più esasperata situazione, mi rendo conto che avevo urgente bisogno di chiedere aiuto così, dopo vari tentativi non andati a buon fine, intraprendo un intervento specifico per il DOC. Mi rivolgo a uno psichiatra che mi ha sapientemente affidato alle cure specialistiche di una psicologa psicoterapeuta, competente in materia e con una formazione certificata.

Il suo modo sicuro ma delicato e gentile, le ha permesso di valicare confini rigidi che a nessuno avevo mai permesso di oltrepassare e dietro i quali mi trinceravo, piena di vergogna e paura. Per la prima volta mi sono sentita ascoltata e compresa, mai derisa, fuori luogo o giudicata.

Abbiamo iniziato a ricostruire i meccanismi del mio funzionamento, sino ad arrivare alla mia vulnerabilità al disturbo. Da lì in poi rimettere insieme i pezzi è stato un passaggio naturale: più il puzzle prendeva forma, più le catene del mio DOC si spezzavano, facendomi sperimentare per la prima volta nella vita, adulta e consapevole, la libertà.

Alcuni concetti come quello di scelta, responsabilità e senso di colpa, sono stati fondamentali per sbloccarmi da quella condizione. Ogni mia difficoltà palesata, per quanto assurda mi sembrasse, è stata affrontata in terapia e resa gestibile con accettazione, impegno e tempo.

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo è un abitante invisibile della nostra mente, tuttavia questo scomodo inquilino dai toni perentori prende tanto più spazio quanto più siamo disposti a cederne! Scegliere di non mettere in atto le compulsioni, correre il rischio e tollerare l’ansia che arriva, più forte che mai, se non si mettono in atto le compulsioni riduce lo spazio occupato dal DOC.

La prima volta in cui ho scelto di “correre il rischio” è stato per partecipare ad una lezione di yoga in uno spazio aperto a piedi nudi, in un posto che non conoscevo e con persone estranee (il tutto fonte di grande ansia per me perché rappresentava diverse minacce). Accogliere tutta quella paura, disgusto e ansia mi è servito: è stata la prima volta in cui mi sono sentita libera! Avevo spezzato la catena! Ero stata libera di scegliere, di assecondare la mia volontà nel partecipare a qualcosa che desideravo e di cui il DOC, invece, voleva privarmi.

Ricordo di essere tornata a casa stanchissima quella sera, ma felice: avevo scelto di correre il rischio e con mia sorpresa ci ero riuscita! Solo una prima dimostrazione di quanto potere io avessi di seguire ciò che volevo per me, anziché subire quello che mi veniva imposto dal DOC. Da lì non ho più smesso di scegliere; ho fatto altri piccoli grandi passi, finalmente consapevole di avere forza nelle mie gambe.

Oggi la mia vita è pressoché “normale”; sto imparando che non sono responsabile di ogni cosa che, nel bene e nel male, mi accade. Sto imparando che la vita è fatta di coincidenze e di occasioni che creano momenti, belli e brutti, e vanno vissuti tutti. Non voglio privarmi di vivere per la paura di contaminarmi o compromettere in qualche modo la mia salute e integrità. Chiudermi in casa spendendo il mio tempo a proteggermi, pulendo e mettendo in atto altre compulsioni, non aveva nulla a che fare con la vita. Io posso avere delle responsabilità ma non posso controllare, prevedere o fare una stima esatta di tutto ciò che mi sta intorno; questo ora lo accetto. Più di tutto sto imparando giorno per giorno a concedermi la libertà di sbagliare perché “non ci avevo pensato”.

Se stai leggendo questo articolo e soffri di DOC, chiedi aiuto.

È un consiglio dato da chi ne soffriva in forma molto grave e oggi invece riesce a vivere.

Conosco a cosa si va incontro. Conosco quanto ti possa sembrare impossibile, quanta ansia ti assale al solo pensiero di non ascoltare quella voce ma credimi ne vale la pena. Meglio soffrire per conquistarsi la vita che vivere in una spirale di sofferenza.

Al di là della paura c’è un mondo di esperienze che puoi fare, di possibilità, di cose che puoi toccare. Scegliendo, si diventa più forti. Spero che queste parole, frutto di tanta strada, ti siano d’aiuto.

 

Foto di Nataliya Vaitkevich: https://www.pexels.com/it-it/foto/resto-cambiamento-possibilita-chance-6120219/

Autocritica: un viaggio nel dialogo interiore che alimenta il malessere psicologico

di Luciana Ciringione

Negli ultimi anni la ricerca clinica si sta concentrando sempre di più sullo studio dell’autocritica, non solo per la sua capacità di influenzare profondamente lo stato di salute mentale degli individui, ma anche per il suo impatto sullo sviluppo e sul trattamento di diverse condizioni psicopatologiche.

Si definisce “autocritica” una modalità di auto-valutazione e auto-analisi che, quando raggiunge livelli patologici, si manifesta attraverso un dialogo interno ostile e auto-punitivo (Gilbert et al., 2004). Nell’articolo «You’re Ugly and Bad!»: a path analysis of the interplay between self-criticism, alexithymia, and specific symptoms (Papa et al., 2024), recentemente pubblicato sulla rivista Current Psychology, gli autori e le autrici hanno evidenziato l’importanza del considerare le caratteristiche specifiche dell’autocritica per meglio comprendere e trattare le diverse psicopatologie.

In particolare, viene sottolineato l’aspetto transdiagnostico dell’autocritica, il quale influisce negativamente sulla salute mentale degli individui associandosi a varie forme di psicopatologia come, ad esempio, disturbo d’ansia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi alimentari. I risultati dello studio mostrano come l’autocritica assuma specifiche caratteristiche in relazione al funzionamento psicologico individuale e, in particolare, al profilo interno dei diversi disturbi (Papa et al., 2024). Ad esempio, in individui che riportano sintomatologia di ansia sociale, l’autocritica tende a manifestarsi sotto forma di confronto costante con gli altri, percepiti come superiori e/o critici: questo meccanismo genera sentimenti di inadeguatezza e inferiorità che alimentano la paura del giudizio altrui (Thompson & Zuroff, 2004). Nei disturbi alimentari, invece, l’autocritica è spesso legata al perfezionismo, con standard irrealistici riguardanti il proprio corpo. Infine, nel disturbo ossessivo-compulsivo, l’autocritica si manifesta con un atteggiamento punitivo verso sé stessi per non aver rispettato standard morali estremamente elevati (Mancini et al., 2021).

Si identificano, in particolare, due forme principali di autocritica: l’inadequate-self, legato a un senso di fallimento e frustrazione in risposta ai fallimenti, e l’hated-self, caratterizzato da sentimenti di disgusto e odio verso sé stessi (Gilbert et al., 2004). L’inadequate-self è più comune nei disturbi come l’ansia sociale, dove l’individuo si sente costantemente inferiore rispetto agli altri considerati più “adeguati”. L’hated-self, d’altra parte, è più strettamente associato ai disturbi alimentari e al disturbo ossessivo-compulsivo, dove il soggetto può arrivare a sviluppare un profondo disprezzo per sé stesso all’idea di non riuscire a raggiungere gli irrealistici standard di tipo sociale o morale. Infatti, nella relazione fra queste due forme di autocritica e lo sviluppo di sintomatologia, particolare rilevanza sembra assumere l’autocritica comparativa che si focalizza sul confronto svantaggioso con gli altri (Thompson & Zuroff, 2004).

Lo studio di Papa e collaboratori (2024) sottolinea, inoltre, come l’autocritica si intrecci spesso con l’alessitimia, ovvero la difficoltà nel riconoscere e descrivere le proprie emozioni (Sifneos, 1973). Gli individui con elevati livelli di autocritica, infatti, tendono a evitare di entrare in contatto con i propri stati emotivi, ostacolando l’elaborazione delle emozioni negative e rafforzando i sentimenti di inadeguatezza (Gilbert et al., 2011). Inoltre, la presenza di alessitimia predispone all’utilizzo di strategie di regolazione emotiva disadattive, come l’autocritica, creando un circolo vizioso di difficoltà emotive e pensieri auto-punitivi che mantengono la sintomatologia (Pascual-Leone et al., 2016).

Alla luce di queste evidenze, risulta fondamentale distinguere le diverse forme di autocritica nei pazienti per sviluppare interventi terapeutici mirati. I trattamenti che integrano la consapevolezza delle emozioni, come la schema therapy attraverso il chairwork, stanno dimostrando di essere particolarmente efficaci nel ridurre l’autocritica e migliorare il benessere emotivo (Young et al., 2003).

Si può, quindi, considerare l’autocritica come un fenomeno eterogeneo e multidimensionale che incide significativamente sulla salute mentale degli individui. Comprenderla in modo approfondito consente non solo di delineare strategie di intervento più efficaci, ma anche di promuovere una maggiore consapevolezza emotiva nei pazienti, migliorando così i risultati degli interventi clinici.

Bibliografia

Gilbert, P., Clarke, M., Hempel, S., Miles, J. N., & Irons, C. (2004). Crit­icizing and reassuring oneself: An exploration of forms, styles and reasons in female students. British Journal of Clinical Psychol­ogy, 43(1), 31–50.

Gilbert, P., McEwan, K., Matos, M., & Rivis, A. (2011). Fears of com­passion: Development of three self-report measures. Psychology and Psychotherapy: Theory Research and Practice, 84(3), 239– 255.

Mancini, F., Luppino, O. I., & Tenore, K. (2021). Disturbo ossessivo-compulsivo. In Perdighe, C., & Gragnani, A. (Cur.) Psicoterapia cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali (pp 511–558). Raffaello Cortina Editore.

Papa, C., D’Olimpio, F., Zaccari, V., Di Consiglio, M., Mancini, F., & Couyoumdjian, A. (2024). “You’re Ugly and Bad!“: a path analysis of the interplay between self-criticism, alexithymia, and specific symptoms. Current Psychology, 1-16.

Pascual-Leone, A., Gillespie, N. M., Orr, E. S., & Harrington, S. J. (2016). Measuring subtypes of emotion regulation: From broad behavioural skills to idiosyncratic meaning‐making. Clini­cal Psychology & Psychotherapy, 23(3), 203–216.

Sifneos, P. E. (1973). The prevalence of ‘alexithymic’characteristics in psychosomatic patients. Psychotherapy and Psychosomatics, 22(2–6), 255–262.

Thompson, R., & Zuroff, D. C. (2004). The levels of self-criticism scale: Comparative self-criticism and internalized self-criticism. Personality and Individual Differences, 36(2), 419–430.

Young, J. E., Klosko, J. S., & Weishaar, M. E. (2003). Schema therapy: A practitioner’s guide. Guilford Press.

Il trauma nella violenza di coppia

a cura di Ludovica Briotti

Negli ultimi decenni gli effetti psicologici del trauma hanno destato sempre maggiore interesse nella ricerca in ambito clinico. Infatti, è noto come i pattern derivanti da esperienze traumatiche vissute nel corso della vita costituiscano un significativo fattore di rischio per lo sviluppo di disturbi d’ansia e depressivi, nonché di difficoltà nelle relazioni interpersonali (Rademaker et al., 2008).

Diversi studi hanno posto attenzione alle conseguenze del trauma “con la T maiuscola”, ossia la sintomatologia derivante dall’aver vissuto eventi di minaccia alla propria incolumità, arrivando alla diagnosi di PTSD (Post-Traumatic Stress Disorder), attualmente riconosciuto nel DSM-5 come un disturbo caratterizzato da mancata elaborazione della memoria traumatica, pensieri intrusivi, flashback e incubi (APA, 2013).

Nel tempo, clinici e ricercatori si sono resi conto che vi era una fetta della popolazione che presentava una sintomatologia di natura traumatica in assenza di eventi minacciosi per l’integrità fisica. A partire da qui, la ricerca ha iniziato a considerare la natura interpersonale del trauma, arrivando alla diagnosi di cPTSD (Complex Post-Traumatic Stress Disorder), caratterizzato da una costellazione di sintomi quali disregolazione emotiva, idea negativa di sé e difficoltà relazionali che derivano da traumi prolungati o ripetitivi, come abusi infantili o violenza domestica (WHO, 2022).

Alla luce di queste nuove evidenze, si è notato che alcuni di questi sintomi rientravano anche nella diagnosi di BPD (Borderline Personality Disorder), caratterizzato da una pervasiva instabilità nelle relazioni interpersonali, nell’immagine di sé, marcata impulsività e reattività dell’umore (APA, 2013). Di conseguenza, vari autori si sono concentrati  sulla sovrapposizione dei sintomi caratterizzanti questi profili psicopatologici di matrice traumatica con l’obiettivo di differenziarli nelle loro peculiarità  allo scopo di implementare interventi sempre più individualizzati ed efficaci.

Nonostante la ricerca sia andata avanti negli ultimi anni dimostrando la sempre maggiore necessità di una diagnosi differenziale fra PTSD, cPTSD e BPD, nessuna ricerca finora aveva indagato la fenomenologia di tali disturbi nell’ambito della violenza di coppia. L’intimate partner violence (IPV) è definita come qualunque comportamento controllante, coercitivo, minaccioso, di violenza o abuso tra partner. L’abuso può essere di tipo psicologico, fisico, sessuale, finanziario ed emotivo (WHO, 2021). Sebbene  il trauma sia da tempo riconosciuto come fattore di rischio centrale per l’IPV, gli autori dell’articolo “Understanding Trauma in IPV: Distinguishing Complex PTSD, PTSD and BPD in victims and offenders” (Pugliese et al., 2024), recentemente pubblicato sulla rivista Brain Sciences, hanno per la prima volta considerato la diagnosi differenziale tra il Disturbo Post-Traumatico da Stress Complesso (cPTSD), il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) e il Disturbo Borderline di Personalità (BPD), nel contesto della violenza di coppia (IPV).

In particolare, l’obiettivo dello studio è stato quello di analizzare come le specifiche caratteristiche di PTSD, cPTSD e BPD si declinano rispettivamente nelle vittime e nei perpetratori di IPV. I risultati hanno evidenziato che i tre quadri psicopatologici sono presenti, seppur con profili clinici distinti, sia nelle vittime che negli abusanti. Infatti, è emerso come le caratteristiche  dell’IPV siano influenzate da specifici funzionamenti psicologici che emergono in risposta al trauma. In particolare, il PTSD risulta essere un quadro psicopatologico conseguente la violenza subìta piuttosto che rappresentare un fattore predisponente di base, nonostante assuma un ruolo di mantenimento centrale per la rivittimizzazione. Infatti, tale disturbo si manifesta nelle vittime di IPV attraverso caratteristiche quali l’hyperarousal e l’emotional numbing che, aumentando la percezione di minaccia, ostacolano la vittima dalla possibilità di uscire dalla relazione abusante, mantenendo il ciclo della violenza nel tempo.

Riguardo invece al cPTSD, è emerso come la componente DSO (Disturbances in Self-Organization) – caratterizzata da disregolazione emotiva, concetto negativo di sé e difficoltà relazionali – è più frequentemente presente nei perpetratori, mentre le caratteristiche di distacco emotivo ed evitamento appaiono maggiormente correlate al funzionamento psicologico delle vittime di violenza. Infine, il BPD, anche se più presente negli offenders per le sue caratteristiche di aggressività e impulsività, è stato riscontrato anche nelle vittime con la paura del rifiuto e l’instabilità dell’identità che ne costituiscono i maggiori fattori di rischio.

Il diverso legame tra PTSD, cPTSD e BPD con l’IPV emerso da questa recente pubblicazione mette in luce la rilevanza di comprendere sempre meglio i meccanismi emotivi, cognitivi e comportamentali che intervengono nella relazione tra esperienze traumatiche e violenza interpersonale. Considerando che alcune condizioni psicologiche derivanti da esperienze traumatiche precoci, quali la Dipendenza Affettiva Patologica, sono già state riconosciute come fattori di rischio per la violenza nelle relazioni intime (Pugliese et al., 2023a, 2023b), il gruppo di ricerca sul trauma dell’Associazione di Psicoterapia Cognitiva di Roma sta attualmente conducendo nuove ricerche su campioni di maltrattanti e vittime di violenza allo scopo di esplorare le traiettorie di sviluppo che conducono all’IPV. Inoltre, è in corso di stesura un’ulteriore pubblicazione volta a chiarificare la sovrapposizione dei sintomi di PTSD, cPTSD e BPD in relazione alle esperienze di maltrattamento infantile. Lo sviluppo nell’ambito della ricerca sul trauma è, ad oggi, fondamentale per comprendere quali condizioni psicologiche sono associate a un maggior rischio di subire e/o perpetrare violenza, uno dei fenomeni di maggior portata psicologica e sociale attualmente presenti in tutto il mondo.

Riferimenti bibliografici

American Psychiatric Association, DSM-5 Task Force. Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders: DSM-5™, 5th ed.; American Psychiatric Publishing, Inc.: Arlington, VA, USA, 2013.

Pugliese, E., Mosca, O., Saliani, A. M., Maricchiolo, F., Vigilante, T., Bonina, F., … & Mancini, F. (2023b). Pathological Affective Dependence (PAD) as an Antecedent of Intimate Partner Violence (IPV): A Pilot Study of PAD’s Cognitive Model on a Sample of IPV Victims. Psychology, 14(2), 305-333. DOI: 10.4236/psych.2023.142018

Pugliese, E., Saliani, A. M., Mosca, O., Maricchiolo, F., & Mancini, F. (2023a). When the War Is in Your Room: A Cognitive Model of Pathological Affective Dependence (PAD) and Intimate Partner Violence (IPV). Sustainability, 15(2), 1624. https://doi.org/10.3390/su15021624

Pugliese, E., Visco-Comandini, F., Papa, C., Ciringione, L., Cornacchia, L., Gino, F., … & Mancini, F. (2024). Understanding Trauma in IPV: Distinguishing Complex PTSD, PTSD, and BPD in Victims and Offenders. Brain Sciences, 14(9), 856. https://doi.org/10.3390/brainsci14090856

Rademaker, A. R., Vermetten, E., Geuze, E., Muilwijk, A., & Kleber, R. J. (2008). Self‐reported early trauma as a predictor of adult personality: a study in a military sample. Journal of clinical psychology, 64(7), 863-875. https://doi.org/10.1002/jclp.20495

World Health Organization. (2016). World Health Statistics 2016 [OP]: Monitoring Health for the Sustainable Development Goals (SDGs). World Health Organization.

 

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I Paradossi della Psicopatologia: spiegazione e soluzione del paradosso nevrotico

a cura di Vittoria Zaccari

Francesco Mancini e Amelia Gangemi, nel libro “I Paradossi della Psicopatologia”, edito recentemente da Raffaello Cortina, affrontano una delle questioni cruciali e ben note a chi è interessato alla comprensione delle sofferenze psicopatologiche: la persistenza paradossale della sofferenza nonostante il cambiamento per il paziente appaia non solo opportuno, ma anche possibile e alla sua portata. Gli autori presentano una soluzione basata sull’idea che le motivazioni orientino automaticamente i processi cognitivi per ridurre il rischio di errori cruciali, rafforzando così le rappresentazioni alla base della sofferenza e contribuendo alla sua persistenza.

Perché continuiamo a soffrire? Come può una persona mantenere una condotta dannosa per sé, nonostante abbia accesso a tutte le informazioni necessarie, disponga delle capacità cognitive adeguate e abbia scopi che suggerirebbero la necessità di un possibile e opportuno cambiamento?

Questi interrogativi, centrali nella storia della psicopatologia, richiamano il concetto di paradosso nevrotico: una condizione in cui la sofferenza psicologica persiste nonostante esistano concrete possibilità di cambiamento.

Francesco Mancini e Amelia Gangemi centrano la loro trattazione sulla spiegazione del paradosso nevrotico offrendo una prospettiva alternativa alla psicopatologia attraverso una riflessione epistemologica che passa in rassegna diverse ipotesi e prospettive teoriche alla base della sofferenza psicopatologica e si pone, attraverso un procedere critico, analitico e riflessivo di analizzare diversi approcci che tentano di spiegare la persistenza della psicopatologia, proponendo soluzioni al paradosso nevrotico al fine di comprendere la psicopatologia, o almeno una parte significativa di essa.

Gli autori hanno identificato diversi limiti e proposto alternative per comprendere perché gli esseri umani sperimentano la sofferenza e continuano a persistere in essa, indagando il motivo per cui i pazienti non cambiano verso un percorso più sano, meno doloroso e più funzionale ai propri scopi, nonostante le informazioni a loro disposizione lo consentirebbero.

Superando i concetti disposizionali e i deficit, secondo gli autori più descrittivi che esplicativi, la loro prospettiva teorica ha identificato il filo conduttore, e quindi la soluzione al paradosso nevrotico, nell’idea che i processi cognitivi siano regolati esclusivamente dalle motivazioni.

La lettura può essere ben compresa attraverso “lenti” cognitiviste ingenue che richiamano in gioco l’importanza delle motivazioni come determinanti prossimi della sofferenza nella psicopatologia superando la concettualizzazione del cognitivismo clinico tradizionale, che attribuisce a credenze disfunzionali e a processi cognitivi irrazionali il ruolo di determinanti psicologici prossimi della psicopatologia o il ricorso a concetti disposizionali o a deficit cognitivi che presentano,  secondo la prospettiva epistemologica degli autori,  numerose critiche, sostenendo dunque l’importanza delle motivazioni nella sofferenza emotiva e la loro paradossale persistenza nella psicopatologia.

Tali premesse rivelano come gli autori affrontino un problema cruciale per la comprensione e il trattamento psicoterapeutico dei disturbi mentali: la sofferenza attribuibile alle motivazioni piuttosto che a danni neurali o deficit. Questa prospettiva illumina i “paradossi” nella psicopatologia, che ha condotto gli autori ad offrire una spiegazione della persistenza paradossale di investimenti fallimentari che caratterizzano i disturbi mentali.

Secondo gli autori il paradosso nevrotico sorge dalla possibilità e dall’opportunità apparente di un cambiamento che rimane inattuato: “Errare humanum est, perseverare autem insanum”. L’aforisma per gli autori coglie l’essenza del paradosso nevrotico vale a dire la persistenza di linee di condotta – definite anche SuperInvestimenti   o “Effetto Cannocchiale” e atteggiamenti cognitivi prudenziali.

Gli autori ci tengono a sottolineare come nel dominio della psicopatologia appare congruo parlare di persistenza paradossale, operando un distinguo con i disturbi in cui il cambiamento autonomo non è nelle possibilità del paziente, come plausibilmente accade nei disturbi del neurosviluppo o nei quadri neurologici.

Il libro si dipana attraverso tre distinte parti, con il paradosso nevrotico come fulcro centrale della trattazione.

Nella prima parte introduttiva, gli autori definiscono il disturbo mentale e il ruolo della sofferenza emotiva e della compromissione della realizzazione personale. Essi enfatizzano come nella comprensione dei disturbi mentali vi sia un accordo condiviso sul concetto di rigidità come resistenza al cambiamento versus la flessibilità vista come possibilità di cambiamento e dunque salute mentale. Tuttavia, la resistenza al cambiamento e la flessibilità sono per gli autori termini descrittivi, utili solo per fini diagnostici e predittivi, ma senza nessun potere esplicativo del paradosso. Pertanto, puntano ad analizzare più approfonditamente le cause della rigidità e della resistenza al cambiamento.

Il libro si sviluppa ulteriormente in due sezioni distinte. La seconda parte, intitolata “pars destruens”, è dedicata è dedicata alla critica delle possibili soluzioni al paradosso nevrotico. Vengono esaminate criticamente alcune delle risposte più note, come il vantaggio secondario e analizzano le ipotesi esistenti e le loro limitazioni, sottolineando come molte di esse non riescano a spiegare adeguatamente la persistenza della sofferenza psicologica.

Nella terza parte, chiamata “pars construens”, gli autori espongono le loro tesi e delineano i presupposti fondamentali che sostengono il loro approccio teorico.

La tesi generale che propongono si basa su alcuni assunti generali.

In primo luogo, gli autori assumono che il piano privilegiato di spiegazione di molti disturbi sia mentale, dove sono rappresentati ed elaborati i significati personali, vale a dire le credenze e gli scopi del paziente versus altri disturbi il cui piano ottimale di spiegazione è considerato come non mentale, ma neurologico o neuropsicologico. Secondo gli autori in questi ultimi casi il paradosso è risolto poiché viene a mancare una delle sue condizioni, vale a dire il potere di cambiare la propria condizione (ad esempio come nel paziente affetto da malattia di Parkinson cambiare i propri sintomi).

Gli autori sottolineano che il piano personale sia da preferire in quei disturbi che sono caratterizzati soprattutto da emozioni qualitativamente appropriate, ma significative per intensità e durata.

In contrasto con la prospettiva processualista sostengono che i contenuti mentali sono indispensabili per comprendere la sofferenza emotiva e che i processi cognitivi sono normalmente regolati dai contenuti della mente, cioè da scopi e credenze in linea con la Motivated Cognition.

Concetto cardine del libro può essere ben compreso nella critica che gli autori pongono al “partizionismo” contestando l’idea che la mente sia composta di parti in interazione fra loro ma indipendenti, ciascuna regolata da propri specifici principi. A tal riguardo riprendono la tradizionale e scontata distinzione fra cognizione/ragione ed emozione/passione posizione ben espressa nella metafora dell’Auriga di Platone, il quale cercava di spiegare la più evidente delle irrazionalità pratiche riscontrabili nella condotta individuale: le akrasie, quei conflitti in cui, pur riconoscendo ciò che è buono, giusto e opportuno e desiderando perseguirlo, ci si dedica invece a ciò che danneggia. Gli autori suggeriscono l’opportunità di una rappresentazione della mente come un sistema strutturalmente e funzionalmente integrato. In particolare, ritengono che la tradizionale distinzione fra cognitivo ed emotivo sia da superare, suggerendo in modo forte che ogni evento emotivo sia anche cognitivo e che gli atti cognitivi non siano davvero neutri, cioè privi di connotazioni motivazionali ed emotive.

Un altro assunto, di particolare importanza per la loro tesi, è che i processi cognitivi siano orientati dalle motivazioni in modo sistematico, e non occasionale, rispettando il principio del pedmin (Primary Error Detection and Minimization). I processi cognitivi, secondo gli autori, al pari del comportamento, sono al servizio delle motivazioni che guiderebbero in modo automatico, non previsto e non intenzionale, a prevenire gli errori che in un dato momento apparirebbero più costosi. Il ricorso al pedmin inoltre, per gli autori, consentirebbe di legare le motivazioni ai processi cognitivi coinvolti nella minimizzazione di errori cruciali per l’individuo senza cadere nei paradossi della teoria standard dell’autoinganno che richiama la partizione funzionale fra coscienza secondaria e coscienza primaria o inconscio cognitivo per dar conto di come le motivazioni agiscano sui processi cognitivi e sulle credenze. Gli autori sostengono e propongono come soluzione che si arriva a credere qualcosa nonostante le informazioni disponibili e le capacità cognitive dell’individuo giustificherebbero credenze opposte illuminando come motivazioni possano influire su ciò che si accetta o si rifiuta di credere, senza cadere nell’autoinganno.

Il nocciolo della loro tesi è che gli investimenti sottesi da forti motivazioni e accompagnati da intensa emotività orientino i processi cognitivi in accordo con il principio del pedmin, vale a dire in modo da evitare di abbandonare erroneamente le credenze che sostengono l’investimento e di assumere erroneamente credenze che sostengono investimenti alternativi. Di conseguenza è più probabile che l’investimento persista, pur se fallimentare e anche se le informazioni disponibili alla persona giustificherebbero un cambiamento.

Inoltre, gli autori focalizzano tali argomentazioni sull’innesco dei processi ricorsivi che rafforzano l’investimento iniziale, facilitati dall’alta motivazione alla base dell’investimento stesso.

La loro tesi è che nei disturbi mentali, o meglio in alcuni di essi, il valore degli investimenti critici sia elevato per la tipologia degli scopi coinvolti e per alcune credenze. Gli scopi in questione, secondo gli autori, sono scopi ad alto valore in tutti perché definiscono il senso della propria identità e della propria esistenza e vengono definiti come scopi prescrittivi o normativi. Questi scopi definiscono ciò che per la persona deve accadere o non accadere, ovvero il livello di frustrazione accettabile, rafforzandone la motivazione. Dunque, gli scopi prescrittivi contribuirebbero al valore di un investimento, soprattutto perché ne definiscono i livelli di compromissione accettabili e dunque le condizioni alle quali si può ridurre o rinunciare a un investimento.

In maniera associata, gli autori sottolineano l’importanza delle valutazioni negative delle emozioni connesse con la compromissione o la minaccia di compromissione dell’investimento stesso, chiamando in gioco l’importante ruolo del problema secondario, che segnala lo stato dei propri investimenti e svolge un ruolo importante nel potenziamento degli investimenti stessi. Infatti, la motivazione al successo dell’investimento aumenta perché si aggiunge ad essa anche lo scopo di disattivare quell’emozione. Gli autori a tal riguardo parlano di “effetto cannocchiale”: maggiore è la motivazione, maggiore è l’investimento.

Infine, gli autori hanno posto attenzione anche ad alcuni fattori transdiagnostici di vulnerabilità alla psicopatologia, come il nevroticismo (inteso come iperreattività alle emozioni o disregolazione delle stesse) e la sfiducia epistemica, intesi come fattori di vulnerabilità che agevolano i disturbi mentali poiché influenzano le cause della persistenza paradossale degli investimenti fallimentari.

La tesi proposta viene ampiamente esemplificata e descritta attraverso diversi casi clinici presentati in diverse sezioni del libro. Questi esempi clinici offrono un interessante spunto di riflessione, permettendo di comprendere più a fondo il paradosso nevrotico.

Sulla scia delle riflessioni e della tesi proposta, gli autori concludono l’opera ponendo l’attenzione alle implicazioni terapeutiche.

Secondo la loro tesi proposta, uscire dai processi ricorsivi che alimentano il paradosso, presuppone la riduzione della motivazione alla base degli investimenti, dunque, l’uscita ottimale dai processi ricorsivi avverrebbe per mezzo dell’accettazione e dunque attraverso la riduzione della motivazione o della rinuncia all’investimento fallimentare. Gli autori considerano l’accettazione uno stato mentale caratterizzato dal riconoscimento che un determinato assetto della realtà, rilevante per l’individuo e di solito negativo, sia congruo con ciò che la persona assume sia giusto che accada o per lo meno non sia in contrasto con esso.

Inoltre, si soffermano sul ruolo cruciale nel trattamento della riduzione degli scopi prescrittivi che porterebbe ad una maggiore accettazione delle minacce da prevenire, dei fallimenti e delle perdite che si cerca di contenere.

Secondo gli autori, la definizione dello stato mentale di chi accetta consiste nel riconoscimento della congruenza, o almeno di una minore incongruenza, fra scopi prescrittivi e la rappresentazione della realtà, in particolare delle proprie emozioni e del rischio di fidarsi degli altri; pertanto, illustrano l’importanza di aiutare il paziente a ridurre “l’effetto cannocchiale” focalizzando la sua motivazione anche su scopi alternativi esistenzialmente importanti.  In questo modo si ridurrebbe il valore relativo dell’investimento fallimentare grazie al confronto con scopi più significativi essenziali per il suo benessere esistenziale.

“I Paradossi della Psicopatologia” è un’opera complessa e articolata che sfida le convenzioni tradizionali della psicopatologia. Rappresenta un contributo fondamentale per la comprensione della sofferenza psicologica e della sua persistenza.  Gli autori offrono una prospettiva innovativa che privilegia le motivazioni come chiave per comprendere la persistenza della sofferenza psicologica fornendo preziose suggestioni per il trattamento terapeutico. Il libro rappresenta una lettura indispensabile per chiunque sia interessato a una comprensione più profonda e integrata della psicopatologia, suggerendo nuove vie per il trattamento e la terapia.

Per approfondimenti

Mancini, F.  Gangemi, A. (2024), I paradossi della psicopatologia, Raffaello Cortina Editore, Milano.

L’imagery Rescripting di gruppo online

Riduce le credenze disfunzionali legate al sé e il problema secondario ma non incrementa la Self-Compassion positiva

a cura di Alessandra Mancini

L’articolo pubblicato recentemente sulla rivista Current Psychology, edita da Springer mira ad espandere i dati empirici sulla tecnica esperienziale cardine della Schema Therapy, ovvero il rescripting (o Imagery Rescripting; IR). La ricerca ha mostrato come l’IR sia in grado di ridurre l’intensità delle emozioni negative; le difficoltà di regolazione emotiva e le credenze patogene in diversi disturbi mentali. Tuttavia, data la natura complessa di questa tecnica, i meccanismi di cambiamento coinvolti nella sua efficacia sono attualmente oggetto di indagine. L’ipotesi testata nell’articolo in oggetto è che l’IR riduca, oltre che l’intensità delle credenze patogene legate al sé, anche la risposta emotiva negativa alle emozioni primarie (cioè il problema meta-emotivo) e le difficoltà di regolazione emotiva (tra cui la benevolenza verso se stessi) (Mancini e Mancini, 2018).

Con il diffondersi dei trattamenti online e delle app che promuovono la salute mentale, si è riscontrata la necessità di fare luce sull’efficacia di questa tecnica anche quando erogata in un contesto telematico. Nello studio in oggetto, i ricercatori hanno chiesto ad un totale di 45 partecipanti subclinici di valutare quale tra alcune frasi associate a Disturbi di Personalità (DP) e a Schemi patogeni evocasse in ciascuno di loro maggior sofferenza. A partire dalla credenza identificata a ciascun partecipante è stato chiesto di evocare un ricordo di infanzia su cui è poi stato eseguito il rescripting. Da notare che, nella fase di rescripting, a ciascun partecipante veniva chiesto di far entrare il proprio Sé adulto nell’immagine e di produrre un intervento in modo da soddisfare i bisogni emotivi del proprio Sé bambino. Il rescripting è stato ripetuto per tre volte a distanza di una settimana. Al termine della somministrazione ai partecipanti è stato chiesto di valutare nuovamente le credenze patogene, le meta-emozioni, l’autocompassione e le proprie capacità di regolazione emotiva lungo l’arco di tre sessioni di follow-up.

I risultati hanno mostrato una riduzione significativa nelle credenze disfunzionali tipiche di alcuni DP, in particolare quelle associate ai DP dipendente, ossessivo-compulsivo, antisociale e istrionico. Inoltre, è stata riscontrata una riduzione significativa delle misure del problema secondario, in particolare delle credenze disfunzionali sulle emozioni e della valenza negativa associata alle emozioni negative. Infine, è stata osservata una riduzione significativa delle difficoltà di regolazione emotiva. Tuttavia, mentre la Self Compassion negativa è risultata significativamente ridotta dopo le tre sessioni di IR, la Self Compassion positiva è rimasta invariata.

LE TECNICHE DI IMMAGINAZIONE IN PSICOTERAPIA
LE TECNICHE DI IMMAGINAZIONE IN PSICOTERAPIA

Questi risultati suggeriscono alcune considerazioni di interesse clinico. In primo luogo, rafforzano dati precedenti che mostrano che l’IR può modificare le credenze patogene legate ai disturbi di personalità e riduca le emozioni negative associate al ricordo (p.es. la vergogna, Tenore et al., 2022). In secondo luogo, mostrano come essa sia in grado di ridurre il problema meta-emotivo o secondario. Il risultato non è banale dato che il problema meta-emotivo è considerato un fattore di mantenimento importante a livello trans-diagnostico. Infine, suggeriscono che l’IR erogata online sia in grado di ridurre le difficoltà di regolazione emotiva e le scale negative della Self Compassion (i.e. giudizio di sé, isolamento e iperidentificazione). In una review del 2017 Murris e Petrocchi suggeriscono che gli indicatori negativi della Self Compassion siano più fortemente associati alla psicopatologia rispetto a quelli positivi (che rappresentano piuttosto un indice di protezione verso la psicopatologia). Per cui, sembra che questo intervento riduca l’autocritica e l’auto-invalidazione emotiva ma che non aumenti un atteggiamento più benevolo verso se stessi. Una possibile interpretazione di questo dato è che il contesto di gruppo non consentiva al terapeuta di “entrare” nel ricordo e modellare un atteggiamento benevolo verso la parte bambina del paziente e verso le sue emozioni. Questo limite ha forse ostacolato la promozione di una attitudine più benevolente verso se stessi.

Riferimenti bibliografici

Tenore, K.; Granziol, U.; Luppino, O.; Mancini, F. & Mancini, A. (2024). Group imagery imagery rescripting via telehealth decreases dysfunctional personality beliefs and the meta-emotional problem but does not increase positive self-compassion. Current Psychology. 1-12. 10.1007/s12144-024-05815-x.

Tenore, K.; Mancini, A.; Luppino, O. I.; Mancini, F. Group Imagery Rescripting on Childhood Memories Delivered via Telehealth: A Preliminary Study. Front. Psychiatry 2022, 13. https://doi.org/10.3389/fpsyt.2022.862289.

Mancini A, Mancini F. Rescripting Memory, Redefining the Self: A Meta-Emotional Perspective on the Hypothesized Mechanism(s) of Imagery Rescripting. Front Psychol. 2018 Apr 20;9:581. doi: 10.3389/fpsyg.2018.00581. PMID: 29731735; PMCID: PMC5919940.