L’amore, una partita a scacchi

di Emanuela Pidri
Il Disturbo Istrionico di Personalità e l’arte della seduzione
Il Disturbo Istrionico di personalità è caratterizzato da un’emotività eccessiva e dalla continua ricerca di attenzione.
Oltre allo stile interpersonale drammatico e seduttivo, caratterizzano
questo disturbo l’impressionabilità, la tendenza alla somatizzazione e la ricerca della novità. Tali caratteristiche compaiono entro la prima età adulta, investono numerosi contesti della vita e li compromettono, causando sofferenza. Le persone istrioniche sono guidate dalle sensazioni e possono passare velocemente da un umore a un altro, vivono ogni esperienza di vita in modo intenso e molto espansivo, sono particolarmente vivaci e divertenti. Sono seduttivi, coinvolgenti, affascinanti, tentatori, si ritengono irresistibili e in grado di conquistare chiunque. La seduttività viene messa in atto anche in situazioni inappropriate, come in ambiti sociali e professionali, al di là di ciò che è adeguato per il contesto.
Per l’istrionico, la seduzione è una partita a scacchi che non può durare molto: si giunge ben presto a una situazione di noia e di saturazione. E così, andrà alla ricerca di un nuovo partner, un trofeo da esibire per ottenere nuovi stimoli, per recitare daccapo la sua parte di conquistatore ed essere, quindi, rassicurato nelle proprie grandi abilità seduttive. L’uomo istrionico può ingannare la partner sul grado del suo impegno e coinvolgimento mentre la donna può ingannare il partner circa la sua fedeltà. Nei rapporti di coppia, queste persone
possono ricercare figure con forte autorità, a cui attribuiscono doti straordinarie e la risoluzione magica dei loro problemi.
Chi soffre di questo disturbo spesso presenta anche una marcata dipendenza affettiva: essendo estremamente dipendente dall’attenzione, dall’approvazione e dal supporto esterni, risulta molto sensibile al rifiuto e terrorizzato dalle separazioni.
Per evitare l’interruzione di un rapporto, può ricorrere a comportamenti estremi e manipolativi, volti ad attirare l’attenzione dell’altro.
All’origine di questa complessa personalità c’è una ferita profonda, un vuoto interiore scavato con la convinzione di non essere meritevole di attenzione e con la paura della solitudine.
Il fulcro della sofferenza dell’istrionico è determinato dal profondo senso di indegnità, mancanza d’affetto, inadeguatezza.
Dal punto di vista biologico, le persone che soffrono di questo disturbo presenterebbero un temperamento caratterizzato da ipersensibilità e dalla ricerca esterna di gratificazioni. Sul piano psicosociale, le persone che hanno sviluppato il disturbo istrionico di personalità spesso hanno sperimentato durante l’infanzia difficoltà nella soddisfazione dei loro legittimi bisogni di attenzione e cure. Ambienti familiari caotici, contraddittori, senza regole, facilitano l’insorgenza di questo disturbo. Spesso si tratta di rapporti che si basano sulla non autenticità, dove si considera solo l’apparire e non l’essere.
La terapia di tale disturbo è molto difficile. Nel trattamento Cognitivo Comportamentale, il paziente viene aiutato a identificare le proprie emozioni, i propri pensieri e gli eventi a cui questi sono correlati. Successivamente, il terapeuta collabora col paziente al fine di individuare e modificare le sue credenze centrali disfunzionali relative a: ritenere di essere incapaci di prendersi cura di se stessi tanto da dover ricercare costantemente attenzione e cure da parte degli altri; presentare eccessiva sensibilità al rifiuto e ricercare costantemente approvazione; ritenere che l’interruzione di un rapporto affettivo possa essere disastroso, mantenendo rapporti insoddisfacenti e inautentici e, dunque, confermando il proprio senso di incapacità a farcela da soli e la loro sensazione di inautenticità. Per un sottotipo di pazienti si è rivelato efficace anche un training per le abilità sociali volto, in particolare, alla modulazione delle emozioni e dei comportamenti impulsivi e allo sviluppo dell’empatia.
Per approfondimenti:
GABBARD, G. O., (2002). Psichiatria psicodinamica. Raffaello Cortina Editore, Milano.
PERRIS C., (1993). Psicoterapia del paziente difficile, Métis, Lanciano.
SEMERARI A., DIMAGGIO G., (2003). I disturbi di personalità. Modelli e trattamento, Laterza, Roma-Bari.
SEMERARI A., DIMAGGIO G., NICOLO’ G.,(2016). Curare I casi complessi. Laterza, Roma.

Tratto o disturbo?

di Giuseppe Femia
Dimensione psicologica di funzionamento o psicopatologia? L’indagine clinica per i disturbi della personalità
  • Come si descriverebbe come persona? Come pensa che la descriverebbero gli altri?
  • Come si sente di solito rispetto a se stesso/a? Con che grado di successo direbbe che sta ottenendo le cose che vuole nella vita?
  • Come sono le sue relazioni con le altre persone? Chi sono le persone più importanti della sua vita? Va d’accordo con loro?
  • Quanto pensa di capire bene se stesso/a? Quanto comprende bene gli altri.

Queste domande preliminari sulla visione di Sé e sulla qualità delle relazioniinterpersonali caratterizzano il quadro generale della SCID-5 PD intervista ( Structured Clinical Interview for DSM-5 ), l’intervista clinica per i disturbi della personalità. Essa costituisce lo strumento elettivo di indagine della personalità nel suo funzionamento, nelle sue manifestazioni psicopatologiche e nella definizione di quelle costellazioni di tratti salienti che determinano la definizione di un funzionamento psicologico e di una struttura definita di pattern stabili di comportamento, ragionamento e relazione. Mediante questa metodica è possibile, infatti, approfondire le caratteristiche della personalità e differenziare le diverse manifestazioni psicopatologiche sciogliendo i maggiori dubbi diagnostici rispetto a quadri ad alta comorbilità.

Questo tipo di indagine agevola e promuove i processi di diagnosi differenziale tra il disturbo schizotipico di personalità e lo schizoaffettivo; tra il disturbo dipendente di personalità e il disturbo borderline; tra il disturbo evitante e le manifestazioni di ansia e fobia sociale; tra il disturbo narcisistico di tipo overt e quello covert; tra le manifestazioni sotto soglia e i quadri severi di psicopatologia, adottando un’ottica dimensionale di ragionamento clinico/diagnostico.

Nasce da un lavoro di revisione della SCID-II, che inizia dopo la pubblicazione del DSM-5 nel 2013, e riflette le modifiche apportate nel nuovo manuale dei disturbi mentali e soprattutto la revisione della logica multi assiale precedentemente adoperata. Attraverso la SCID-5 PD è dunque possibile tracciare un profilo della personalità e delle sue diverse manifestazioni in relazione ai criteri categoriali previsti, seguendo una logica di conoscenza dei disagi della personalità e della loro intensità mediante l’osservazione di tre diversi parametri trans–diagnostici, vale a dire la regola delle “Tre –P”
Patologia: Che livello di disagio manifesta la persona esaminata? Quanto il disturbo compromette il globale funzionamento e quanto il soggetto si mostra consapevole delle proprie difficoltà? Quante aree risultano inficiate? Con quale intensità e con quale frequenza si manifesta il disagio?
Persistenza: Quando ha avuto esordio? Quando ricorda di aver sentito/agito/pensato in questo modo per la prima volta? Quanto spesso accade e da quanto si sente così?
Pervasività: Le compromissioni rintracciate sono presenti in molte situazioni differenti? Si verificano con molte persone differenti?
La diagnosi è dunque possibile esclusivamente se i sintomi espressi dal soggetto risultano rintracciabili a partire dalla giovane età adulta, se il disturbo determina disagio e malessere e se coinvolge diverse aree di funzionamento, sociale, affettiva, familiare e lavorativa.
L’intervista si avvia a partire da un’indagine generale volta a ricavare informazioni sulle esperienze pregresse del soggetto rispetto alla sua storia di vita, la struttura familiare, le capacità professionali, precedenti rapporti terapeutici e/o l’esistenza di un trattamento in atto di tipo farmacologico; inoltre consente di individuare le risorse e i fattori di rischio rispetto al contesto della persona esaminata.
L’intervista segue con domande che indagano i diversi criteri per ognuno dei dieci disturbi della personalità secondo il seguente schema di valutazione: “?”= informazioni insufficienti; “0” = tratto assente; “1” = sotto-soglia; “2” = soglia patologica. Per attribuire il punteggio “2” devono essere presenti diversi episodi chiari in cui il tratto si manifesta in modo chiaro compromettendo un ambito di funzionamento.
Durante questa fase di attribuzione generale nella valutazione delle manifestazioni psicologiche riferite è bene rintracciare il grado di coerenza/incoerenza fra come il soggetto rappresenta se stesso e gli altri e ciò che riporta nella narrazione in termini di episodi a supporto della definizione fornita.
La Scid-5 si associa a un manuale alternativo dei disturbi della Personalità (AMPD) del DSM-5: mediante questa metodica di indagine è possibile, per ciascuna costellazione, approfondire i diversi criteri. Ad esempio, secondo il manuale, per il disturbo borderline si possono indagare i fenomeni appartenenti al criterio “A” (identità, auto-direzionalità, empatia, intimità) e quelli relativi al criterio “B” (labilità emotiva, angoscia da separazione, ansia, depressività, impulsività e tendenza a correre rischi, ostilità). Inoltre, appare possibile indagare nello specifico la grandiosità narcisistica e la ricerca di approvazione oppure il rigido perfezionismo tipico del disturbo ossessivo-compulsivo di personalità.
Questo tipo intervista consente di fotografare il funzionamento psicologico e valutare il peso di quei fenomeni ricorrenti e talvolta trans-diagnostici, dandogli la giusta importanza, anche nei casi in cui non vengano soddisfatti i criteri nosografici richiesti per operare diagnosi di disturbo della personalità. La Scid-AMPD prevede, infatti, la possibilità di operare una diagnosi di personalità tratto-specifica.
In una seconda fase di approfondimento, sono previsti dei moduli aggiuntivi riguardo alla diagnosi dimensionale e all’individuazione di aspetti e tratti salienti nel funzionamento globale della personalità.
Nello specifico, vengono differenziate diverse aree (domini) di approfondimento:
  • Il dominio del Distacco: evitamento, intimità, anedonia, depressività, affettività ridotta, sospettosità.
  • Il dominio dell’Affettività Negativa: labilità emotiva, ansia, angoscia da separazione, ostilità, perseverazione, sottomissione.
  • Il dominio dello Psicoticismo: convinzioni ed esperienze inusuali, eccentricità di regolazione cognitiva e percettiva.
  • Il dominio della Disinibizione: irresponsabilità, impulsività, distraibilità, e la tendenza a correre rischi.
  • Il dominio dell’Antagonismo: manipolatorietà, inganno, grandiosità, ricerca diattenzione, insensibilità, ostilità.

    La presenza di questi moduli di approfondimento riflette la sempre più crescente necessità di proporre interventi personalizzati che siano rivolti al funzionamento dimensionale della psicopatologia e dei fenomeni trans-diagnostici che risultano cruciali e che fungono da mantenimento rispetto ai disagi psichici. In conclusione, possiamo dire che il ricorso alla Scid-intervista in fase di Assessment, oltre a sostenere il clinico, guidandolo nella definizione di eventuali problematiche relative alla personalità, delinea un profilo psicologico individuando le credenze nucleari, i timori, la consapevolezza circa i propri limiti, le emozioni ricorrenti, le convinzioni patogene, le abilità sociali e interpersonali, oltre che il funzionamento affettivo, il mondo interiore e le modalità di contatto e costruzione rispetto ai legami intimi e duraturi.

    Per approfondimenti

    Michael B. First, Janet B.W. Williams, Lorna Smith Benjamin and Robert L. Spitzer(2016), Structured Clinical Interview for DSM-5 Personality Disorders (SCID-5-PD). Edizione italiana a cura di: Andrea Fossati e Serena Borroni. Raffaello Cortina Editore,2017

Emergenza noia

 di Caterina Pariso
Correlazioni dell’inclinazione alla noia con la psicopatologia, in particolare con i disturbi dell’umore
“Non è eccentrica, non è così vistosa; né sensuale né formosa ma ci sta”. Ai “sorcini” verrà certamente spontaneo cantare questi versi del brano “Emergenza noia” di Renato Zero.
Risale al 1912 l’opera “La tasse de chocolat” di Pierre Auguste Renoir: una donna fissa con occhi spenti una tazza di cioccolata e con una mano sostiene la stanca testa, quasi abbandonata allo scorrere del tempo. È la noia a scandire questo suo tempo o forse la malinconia?
E poi ancora: Vasco Rossi con la noia nella relazione, Jovanotti che affida questa sopita emozione a un ritmo coinvolgente. Insomma: la noia è affare assai spinoso al punto da attirare l’attenzione di molti pittori, cantanti, filosofi, psicologi.
Nel 1990, lo psicologo James Danckert seppe che suo fratello maggiore Paul era stato coinvolto in un grave incidente stradale. Il ricovero immediato in ospedale si rivelò particolarmente difficile: nonostante la guarigione, dopo la degenza nulla riusciva a donare più felicità a Paul. Continuamente e con ostinata amarezza, ricorda Danckert, Paul si lamentava di essere semplicemente in uno stato di noia totale: si trattava di una profonda frustrazione unita ed enfatizzata dall’insoddisfazione nel non riuscire a trarre alcun beneficio da ciò che in passato l’aveva reso felice e che amava.
Qualche anno dopo, quando Danckert stava intraprendendo la strada della neuropsicologia, si ritrovò a dover lavorare fianco a fianco con venti giovani uomini che ebbero dei traumi al cervello. Ripensando al caso personale di suo fratello, chiese se anche a loro fosse capitato di dover affrontare il peso della noia più frequentemente e con più difficoltà rispetto a quanto non avvenisse prima che si presentasse la complicazione cerebrale: ognuno di essi rispose
affermativamente, confermando la propria lotta con la noia.
Dalle testimonianze relative alle esperienze di questi venti uomini emerse in Danckert la voglia di ricercare in maniera approfondita delle informazioni rispetto al tema della noia.
Non esiste una definizione universalmente accettata per descrivere il concetto di noia; si tratta di uno stato emotivo ubiquitario nella psicologia normale e nella psicopatologia. Nonostante la sua presenza così pervasiva sul continuum emozionale, e forse a causa della sua natura indefinita, essa è un costrutto tutt’oggi non definitivamente descritto nel campo della psicologia.
Secondo l’indagine cognitiva, ad esempio, si possono considerare due ragionevoli e interessanti prototipi della noia. L’emozione di noia può infatti indicare uno stato interno in cui gli scopi sono del tutto inattivi o una valutazione in termini di monotonia e ripetitività degli stimoli esterni, tale da impedire l’acquisizione di nuove conoscenze. Complessivamente ​si potrebbe interpretare la noia come un’emozione metacognitiva , un’emozione della mente che indica come il sistema cognitivo sia in una fase di “stallo”.
“È la noia fitta nebbia tra di noi, strada buia dove cadi e non lo sai. Pillole e intrugli vanno giù da soli, sono voli simulati quelli tuoi…”: non sarà forse un monito, quello di Renato Zero, i cui versi indurrebbero qualsiasi ricercatore a pensare a una correlazione tra stati di noia e disturbi dell’umore e predisposizione alla noia nei disturbi da abuso di sostanze?
Secondo alcuni studi, la noia sarebbe caratterizzata sia da un basso sia da un elevato arousal (attivazione fisiologica). Nei casi in cui, ad esempio, gli individui esperiscono negli stati di noia un’attivazione fisiologica elevata, essi sarebbero portati alla ricerca di un notevole bisogno di novità, di cambiamento, di eccitazione e di esperienze comportamentali ed emotive complesse. Il rapporto tra suscettibilità alla noia e abuso di sostanze sta per questo destando sempre più interesse tra i ricercatori. L’inclinazione alla noia rappresenterebbe, difatti, una dimensione psicologica con numerose correlazioni con la psicopatologia, in particolare con i disturbi dell’umore .
“E no che non m’annnoio, non m’annoio […] e no che non mi stanco, non mi stanco”: è il ritmo spasmodico di Jovanotti che invita a non fermarsi mai e seguire il proprio tempo. In questo caso, sarà forse una strategia di fronteggiamento quella suggerita? Un legame tra la noia e altri profili psicopatologici?
Effettivamente, secondo alcuni studi, la noia sembrerebbe proprio una faccenda di attenzione. In una ricerca del 2012, è stato riscontrato che le persone più propense alla noia ottengono prestazioni peggiori nei compiti che richiedono attenzione, con una maggiore probabilità di presentare sintomi di ADHD e depressione.
Molti ricercatori nutrono numerose speranze nell’espandere le direttrici degli studi finora condotti in materia di noia; esiste la necessità di arrivare a realizzare quanto sia affascinante la noia. Perché la noia è tutto fuorché noiosa!

I 5 segnali di un amore tossico

di Erica Pugliese – illustrazioni di Elena Bilotta
 
Costruire rapporti sani è tra le capacità più importanti e più difficili della vita
Per lungo tempo abbiamo pensato alle relazioni come a un argomento frivolo, quando invece la capacità di costruire rapporti sani è tra le più importanti e più difficili della vita.
Identificare i segnali di una relazione tossica, infatti, non ci aiuta soltanto a non cadere nel pantano dell’amore patologico, ma anche a gestire meglio le relazioni in generale. Se amare è un istinto, imparare ad amare meglio è un’abilità che tutti possiamo sviluppare e affinare con il tempo.
Circa una persona su tre subisce una qualche forma di violenza durante il corso della sua vita. Si parla anche di un ampio sommerso e quindi di persone che non riescono a trovare la forza di rompere il silenzio e si rinchiudono mute nel dolore pensando, probabilmente, di meritarselo in parte. Per violenza, si intende abusi fisici, ma anche verbali, psicologici, emotivi. Oggi si è consapevoli di come queste forme di violenza siano molto più frequenti di quanto dichiarato e del tutto trasversali alle diverse condizioni socio-economiche e al genere.
​Lavoro da anni con vittime di violenza di genere o con una sintomatologia ascrivibile alla dipendenza affettiva patologica. Questa condizione può essere definita come “un fenomeno relazionale nel quale un individuo sembra avere un legame apparentemente irrinunciabile con un partner problematico”. Questo legame si caratterizza per la presenza, nel tempo, di abusi, violenza o manipolazioni perpetrati da uno o da entrambi i partner ed è, per almeno uno dei due, fonte di sofferenza: chi soffre crede di non essere in grado di porre termine alla relazione o di tollerare che sia l’altro a decidere di separarsi. Nei loro racconti, le vittime di violenza spesso si mostrano consapevoli di essere in una relazione non sana o malata, eppure non la interrompono. Molte di loro si chiedono: “E se mi sbagliassi?”, “Se stessi pretendendo troppo?”; o ancora: “Se facessi questo o quello la situazione potrebbe migliorare?”.
Le vittime di violenza non riconoscono di essere veramente in pericolo.
Accade che le azioni del maltrattante non vengano riconosciute come segnali  di pericolo imminente ma sono continuamente giustificate dal “troppo amore”,
espressione fin troppo abusata nei titoli dei giornali, o da fattori quasi sempre esterni alla coppia come l’alcol, un problema al lavoro, in famiglia, ecc. Alla luce dei dati sulla violenza nelle relazioni intime, sembra allora lecito domandarsi: se le vittime o le persone a loro vicine fossero state in grado di riconoscere immediatamente i segni di una relazione tossica prima ancora che diventasse violenta, sarebbe stato possibile, almeno in parte, evitare gesti estremi come il femminicidio o l’omicidio-suicidio?
La nostra missione oggi, come clinici, è assicurarci che le persone ricevano informazioni adeguate, quelle che le vittime di femminicidio o per sempre deturpate dall’acido e le loro famiglie forse non hanno mai avuto. L’obiettivo è prevenire, salvare vite, perché fin troppe sono andate perdute quando forse qualcosa ancora poteva essere fatto.
Per poter raggiungere questo obiettivo è importante individuare i segnali di una relazione tossica. La dottoressa Elena Bilotta illustra sotto forma di disegni i cinque segnali di un rapporto non sano, di seguito riportati
1. Intensità
​Le relazioni violente o abusive non lo sono dall’inizio. Nessuna vittima di violenza racconta di schiaffi, calci o umiliazioni nel primissimo periodo.
Riferiscono della gioia e del desiderio tipico della fase d’innamoramento.
Pensano di essere fortunate, di aver trovato il loro principe o la loro principessa. Nel tempo, però, qualcosa cambia. Si passa dall’eccitazione, al
sentirsi soffocati o sopraffatti, dalle rose alle spine: l’altro/a incomincia, per esempio, a marcarvi stretto, a presentarsi attraverso messaggi o telefonate insistenti, divenendo impaziente quando non potete rispondere, anche se sa bene che siete occupati a lavoro.
Non importa, dunque, come la relazione comincia ma come evolve.
Risulta fondamentale chiedervi: sono a mio agio con il tipo d’intimità richiesta dalla relazione? Penso di avere il mio spazio? Ho la libertà di esprimere i miei bisogni? Le mie richieste sono rispettate? Se la risposta a una o più domande è no, questo non è amore.
2. L’isolamento
L’isolamento è spesso uno dei segnali più ignorati perché ogni relazione inizia con un forte desiderio di trascorrere del tempo con l’altro, di voler condividere quanti più momenti possibili e può capitare di non accorgersi che qualcosa a un certo punto non va. L’isolamento occorre quando il vostro ragazzo o la vostra ragazza inizia ad allontanarvi dalla famiglia o dagli amici e a legarvi sempre di più. Potrebbe per esempio dirvi: “Ma che esci a fare con quegli sfigati dei tuoi amici?” o “Non ti accorgi che la tua amica è invidiosa e sta facendo di tutto per farci lasciare?”. L’isolamento viene nutrito dal seme del dubbio lanciato su qualsiasi persona a voi vicina che frequentavate prima della relazione e che in qualche modo viene considerata un ostacolo alla fusione amorosa. L’amore sano prevede l’indipendenza, due persone che adorano passare insieme del tempo, ma che restano in contatto con i propri amici e cari e con le attività che svolgevano anche prima. Anche se all’inizio passavate molti momenti insieme, con il tempo sarà fondamentale mantenere i propri spazi, per esempio programmando serate con gli amici e incoraggiando il vostro partner a fare lo stesso.
3. Gelosia cieca
Quando finisce la fase di “luna di miele”, può iniziare a insinuarsi la gelosia cieca. Il partner potrebbe diventare più esigente, pretendendo di sapere sempre dove siete e con chi, e potrebbe iniziare a seguirvi ovunque nella vita reale o online, chiedervi insistentemente di approfondire con dettagli la relazione con i vostri ex, per poi spesso arrabbiarsi o rimanere deluso o diffidente. La gelosia cieca comporta ossessività e sospetto, frequenti accuse di sospetto, di tradire o flirtare con altre persone e il rifiuto di ascoltarvi quando le rassicurate sul fatto che amate solo loro. La gelosia è un’emozione che fa parte di ogni relazione umana, ma quella patologica è diversa: contiene minacce, rabbia e disperazione. L’amore non dovrebbe farci sentire in questo modo.
4. Denigrare
Nelle relazioni tossiche, le parole possono essere armi. I dialoghi spensierati e dolci fanno posto a conversazioni meschine e umilianti. Il partner incomincia a prendervi in giro alcune vostre vulnerabilità ferendovi, racconta storie o fa battute su di voi. Quando dite di sentirvi feriti, non vi ascolta o riferisce che state esagerando: “perché sei cosi sensibile?”, “che problema hai?”, “non rompere!”. Quelle parole vi tappano la bocca. Il vostro partner dovrebbe, invece, sostenervi e le sue essere parole di comprensione e incoraggiamento e non sminuirvi. Dovrebbe mantenere il segreto, essere leale, proteggervi e non farvi sentire meno sicure/i.
5. L’instabilità
Frequenti rotture e riappacificazioni con alti alti e bassi bassi sono tipici dei rapporti non sani. Se la tensione sale, aumenta anche l’instabilità. Diverse vittime di violenza raccontano di sentirsi come camminare sulle uova. Tremendi litigi seguiti da riconciliazioni strazianti, commenti carichi di odio, come “non vali niente” o “non so neanche che ci sto a fare con te”, sono seguiti da scuse e promesse che non accadrà più. Arrivati a questo punto, siete talmente tanto consumati dalle montagne russe, da non rendervi conto di quanto tossica e pericolosa sia la vostra relazione. Può essere difficile capire di essere in una relazione non sana che si sta trasformando in abuso, ma è possibile affermare che maggiori saranno i segnali che si presentano nel vostro rapporto, più siete a rischio di essere nella condizione sopra definita di dipendenza affettiva patologica, e quindi in una relazione dalla quale non riuscite a liberarvi, nonostante le conseguenze negative.
Se i segnali sopra descritti caratterizzano la vostra relazione e se doveste essere in pericolo, rompete il silenzio con qualcuno di fidato o rivolgetevi
immediatamente alle autorità competenti (forze dell’ordine, centri antiviolenza, avvocati, ospedale), in modo da elaborare insieme un piano per andarvene in maniera sicura.

È importante, infine, non dimenticare che avere una relazione sana è possibile:

rispetto reciproco, gentilezza, supporto, ascolto, fiducia, amore, unione, comprensione sono gli ingredienti di un amore felice.
Possiamo provare a rivolgerli a noi per primi e poi anche verso gli altri.
Per approfondimenti:
Discorso di Katie Hood nella conferenza TED tenuta ad Aprile 2019:
https://www.ted.com/talks/katie_hood_the_difference_between_healthy_and_un healthy_love
Pugliese E., Saliani A.M., Mancini F. (2019). Un modello cognitivo delle dipendenze affettive patologiche. Psicobiettivo (1), 43-58.

Don’t look back in anger

 di Sonia Di Munno
L’angry rumination è un processo di pensieri perseveranti e coscienti che si presentano in assenza di richieste ambientali che riguardano un evento che ha procurato rabbia. L’evento può essere sia personale sia capitato ad altri significativi (figlio, partner, etc.).
Un corposo esperimento del 2002 su 600 studenti universitari, condotto da Brad Bushman, ha cercato di capire se questo processo aumentasse la rabbia e l’aggressività nelle persone. I gruppi sperimentali erano tre e a tutti veniva detto che un altro partecipante (finto e non visibile) aveva criticato la loro tesi.
Poi, un primo campione doveva colpire il sacco da box pensando alle critiche che gli erano state fatte; un secondo gruppo, mentre colpiva il sacco, doveva pensare a quanto questo esercizio fisico li facesse diventare in forma e un altro gruppo non doveva fare niente: né pensare e né colpire il sacco. Dopo di che, a tutti e tre i gruppi veniva data la possibilità di vendicarsi degli insulti punendo il finto partecipante con dei rumori che lui avrebbe sentito in cuffia. Da questo esperimento si è visto che le persone che erano indotte a ruminare rabbiosamente sull’accaduto (primo gruppo) si mostravano più arrabbiate e aggressive verso il partecipante offensivo rispetto agli altri due gruppi: ciò dimostra che l’angry rumination aumenta la rabbia e l’aggressività. In altri due esperimenti si è dimostrato che l’angry rumination porta anche a una displaced aggression (aggressività spostata), nel senso che questa aggressività può essere inferta anche nei confronti di chi non aveva nulla a che fare con la provocazione iniziale.Questi risultati forniscono un quadro per la comprensione di situazioni in cui gli individui aggrediscono il partner o i figli dopo una giornata stressante di lavoro.
Un altro studioso, Thomas Denson, si è occupato invece di studiare il fenomeno dell’angry rumination secondo un modello di sistemi multipli: cognitivo, neurobiologico, affettivo, sistema di autocontrollo e comportamentale. Approfondendo il processo dal punto di vistacognitivo, il ricercatore ha individuato tre elementi fondamentali che caratterizzano questa esperienza fenomenologica, ognuno con le sue conseguenze neurobiologiche e affettive.
Focus sul contenuto.
Il focus della ruminazione può essere sull’evento (focus sulla provocazione), accompagnato a volte dal desiderio di vendetta; o relativo alle implicazioni che l’evento ha avuto su di sé (focus se stessi). Tra le due modalità, la prima può portare di più a un agìto aggressivo e una maggiore attivazione del sistema cardiovascolare (forse perché il corpo si prepara a un possibile attacco contro il persecutore), mentre avere il focus su di sé porta a una maggiore attivazione psicologica con aumento dell’affettività negativa autocritica e a una maggiore produzione di cortisolo.
Modalità di elaborazione.
Un altro modo in cui la ruminazione differisce è la sua modalità. La modalità analitica produce uno stile di elaborazione astratto e consiste nel concentrarsi sul “perché” sia successo qualcosa pensando alle cause e alle conseguenze dell’episodio che ha prodotto la rabbia. La modalità esperienziale produce uno stile di elaborazione più concreto e consiste nel concentrarsi su “che cosa” sia successo, pensando ai dettagli dell’evento e alle ​emozioni che ha suscitato in noi. La prima modalità porta a mantenere la rabbia mentre la seconda porta a una rivalutazione dell’accaduto in maniera più obiettiva e positiva.
Tipo di prospettiva.
Un altro modo di differenziare questo processo è se il rimuginatore ha una prospettiva centrata su di sé o distanziante. La prima modalità porta la persona rivivere l’evento in prima persona inducendola anche a riviverne gli aspetti emotivi, mentre la seconda comporta un’analisi dell’accaduto in modo più distaccato (analizzandolo in terza persona). La prima modalità porta la persona a rivivere l’esperienza con le stesse sensazioni mentre nella seconda emerge più un distacco emotivo dall’esperienza vissuta.
Poiché l’angry rumination può portare a un aumento di aggressività, rabbia, problemi cardiovascolari, stress, affettività negativa e a minore autocontrollo e problemi psicopatologici, è interessante capire come, dal punto di vista evoluzionistico, questo processo si sia sviluppato e quale sia stata la sua utilità adattiva. Degli studi affermano che originariamente sia stato funzionale: per mantenere le faide nelle varie generazioni (aumentando l’unione nel gruppo e allontanando l’estraneo); per superare l’inibizione per l’aggressione del nemico (progettando mentalmente la vendetta e aumentando la rabbia); per
diminuire le probabilità del perdono, aumentando così le possibilità di accoppiamento e approvvigionamento delle risorse ambientali e a mantenere un’attivazione fisiologica di allerta costante.
Attualmente, nelle società moderne, questo processo ha più effetti negativi che positivi ed è diventata disfunzionale all’adattamento e al benessere di chi lo sperimenta; più utile è invece il perdono che permette alle persone di superare i torti ricevuti e a progettare un rapporto più costruttivo in modo che la relazione possa continuare o, in ogni caso, non fa rimanere intrappolati nel passato sprecando energie e risorse mentali e fisiche.
Per approfondimenti:
Bushman Brad J., 2002, Does Venting Anger Feed or Extinguish the Flame? Catharsis, Rumination, Distraction, Anger, and Aggressive Responding, Iowa State University
Denson Thomas F., 2009 , Angry Rumination and the Self-Regulation of Aggression, Universityof New South Wales
Denson Thomas F., 2012, The Multiple Systems Model of Angry Rumination, Personality and Social Psychology Review 17(2) 103–123, DOI: 10.1177/1088868312467086 pspr.sagepub.com
Sukhodolsky Denis G., Golub A. Cromwell Erin N., 2001, Development and validation of the anger rumination scale, Personality and Indivisual Differences 31 689-700

Indistruttibile come il cristallo

 di Benedetto Astiaso Garcia
Il cuore dell’uomo è come il vestito del povero; è dove è stato rammendato più volte che è più forte. Paul Brulat
La sofferenza psichica, esperienza che accomuna il genere umano, sembra compromettere molto spesso il perseguimento sovrainvestito di scopi di forza, autonomia e indipendenza, rigurgitando la fallace illusione che solamente nell’impeccabile armonia della perfezione dell’essere risieda la felicità. La sofferenza, tempra dell’animo umano, favorisce, invece, un inevitabile processo di consapevolizzazione teso a ricordare la fragilità e la finitudine proprie dell’essere. Alcune ferite, pur ricominciando a sanguinare al primo pretesto, divengono riflesso di una bellezza diversa: matura, vissuta, reale. Assumono la forma di simbolo, divenendo sinestesia tra un ricordo di dolore e una consapevolezza di mortalità: scopi di autonomia e forza necessitano, infatti, di alternarsi, come sistole e diastole, a una matura coscienza della propria fragilità, emblema di una rivoluzionaria concezione di potenza e autoaffermazione.
La crepa dell’animo diviene così bussola del senso stesso della vita, rendendo l’uomo tanto forte da poter accettare il proprio essere mortale e fallibile. “Il mondo spezza tutti e poi molti sono forti proprio nei punti spezzati”(Ernest Hemingway).
Cercare a tutti i costi di mantenere l’integrità del proprio mondo emotivo e fisico significa rendersi soggetti a un vincolo di rigidità, un atteggiamento che favorisce l’incapacità di modificare la propria struttura interna in relazione a forze agenti dall’esterno. È proprio l’elasticità, di contro, a conferire alla materia una maggiore capacità di assorbire il trauma, evitandone la disgregazione: i vasi molto antichi che presentano una crepa, infatti, hanno una maggiore capacità di resistere al tempo di quanta non ne abbiano quelli perfettamente integri; è proprio grazie a questa ferita che l’oggetto, cessando di perseguire un’immagine di incrollabilità, diviene maggiormente capace di tollerare
traumi e sconvolgimenti. Nella sua apparente fragilità, la materia cela, dunque, una maggiore capacità di resilienza: questo perché rigidità e inflessibilità, mascherate da stoica indistruttibilità, pongono l’oggetto in una precaria condizione di potenziale compromissione, definitiva e irreversibile, della propria essenza.
La ferita assume in questo modo l’accezione di indispensabile strumento finalizzato alla sopravvivenza della propria psiche, dal momento che annichilisce l’effimera onnipotenza del perfetto. Ogni trauma diviene perciò un premio: “Porto su di me le cicatrici come se fossero medaglie” (Paulo Coelho).
Disinvestire scopi di forza e indistruttibilità permette all’individuo di far cadere l’opprimente maschera di ferro dentro la quale ha deciso di sopravvivere, accettando contenuti mentali maggiormente adattivi e funzionali alla relazione: l’homo fragilis, pertanto,si configura come colui che è capace di uscire dalla caverna platonica, divenendo libero e liberante, proprio come un terapeuta ferito.
​Al contrario, repressione del proprio mondo emotivo, inibizione, isolamento sociale e anassertività comunicativa rappresentano solamente alcuni dei costi che l’antieroe moderno, a carattere più sveviano che eracliano, è destinato a pagare. Continuare a perseguire obiettivi di forza condanna l’uomo al destino di Atlante, costretto da Zeus a tenere in eterno sulle proprie spalle l’intera volta celeste. Potenza e virilità assumono l’accezione di drammatica condanna alla solitudine ed all’individualismo; la forza, intesa come eroica tensione all’incrollabilità, diviene monito di un destino tanto drammatico quanto ideale e allucinatorio: l’homo valens acquisisce, così, la connotazione dell’elefante spaziale raffigurato dal pittore Dalì, pachiderma dalle gambe esili, probabilmente affascinante in quanto irreale ma certamente destinato a un prevedibile crollo.
Chiedere aiuto forse non libererà il titano dalla sua sorte, ma di certo renderà la sua condanna meno gravosa. Anche perché, come diceva William Shakespeare, “tutti gli uomini sanno dare consigli e conforto al dolore che non provano”.