Quando una storia può aiutare a cambiare

di Francesca Romani e Giordana Ercolani

Ogni individuo nel corso della propria storia di vita può attraversare situazioni in grado di contribuire alla costruzione di credenze e regole su sé stesso e su gli altri. Questo processo inizia fin da bambini. Infatti è proprio nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza che le esperienze quotidiane con i genitori, prima, e successivamente con i compagni ed altri adulti significativi (es. familiari, insegnanti, allenatori etc.) sono in grado di suggerire una versione del mondo che con il tempo potrebbe irrigidirsi e diventare la sola “lente” con cui leggere gli eventi, le persone e sé stessi. Dunque quando questa “lente” si è costruita sulla base di esperienze accompagnate, ad esempio, da sensazioni di intensa frustrazione, critica, inadeguatezza, rifiuto o esclusione con conseguenti emozioni di rabbia, senso di colpa, ansia o tristezza, la sofferenza emotiva segue, solitamente, una traiettoria negativa che può condurre a profili psicopatologici più o meno precoci.

Nella psicoterapia Cognitivo-comportamentale (CBT) è consuetudine affrontare con il paziente proprio questo sistema di regole e credenze che caratterizza tipicamente il suo funzionamento psicologico, dedicando maggiore attenzione a quelle responsabili della sofferenza.

L’obiettivo è quello di ridurne la rigidità, favorire una defocalizzazione dall’ipotesi peggiore e affiancarvi punti di vista alternativi (Buonanno, Gragnani, 2021) con un successivo incremento della flessibilità psicologica responsabile di più alti livelli di benessere. Anche negli interventi con bambini e ragazzi si procede allo stesso modo; sebbene la giovane età può far credere che tale sistema non sia poi così disfunzionale, è esperienza comune per i terapeuti dell’età evolutiva imbattersi in idee già estremamente rigide e pervasive, inserite in quadri di sofferenza emotiva già ben strutturati.

In CBT tale processo di ampliamento del punto di vista e disponibilità a considerare una versione differente delle cose riguardanti se stessi e gli altri, prende il nome di ristrutturazione cognitiva.

Tante sono le tecniche e gli strumenti in grado di favorirla e tra questi si trovano anche le favole per bambini. Riprendendo l’esempio della “lente” usato poco fa, potremmo dire che una storia ha il potere di ridurne l’utilizzo e alimentare l’assunzione di una nuova prospettiva da cui guardarsi intorno per poi trarre conclusioni. Di fatto, nel caso delle favole, grazie al processo di identificazione con le situazioni e i personaggi, è possibile prima di tutto normalizzare la propria sofferenza; sapere infatti che anche altri soffrono come soffriamo noi ci fa sentire meno soli. Altresì la lettura di una storia, anche se di fantasia, può offrire la possibilità di rintracciare nelle vicende altrui, temi di sofferenza simili ai propri e avere così la possibilità di prendere in esame delle alternative che prima di allora non si erano considerate.

Pertanto, da un’esigenza clinica di questo tipo nasce la storia de “Il cappello Matteo” che siamo qui a condividere affinché possa essere di aiuto non solo al bambino per cui è stata scritta ma anche a tutti quelli che come lui, dopo una delusione, si sono ritrovati a pensare di non essere abbastanza di valore per ottenere l’affetto e la vicinanza degli altri, decidendo così di isolarsi e rinunciarvi per sempre.

 

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Illustrazione di @disegniperlasalutementale

 

Riferimenti bibliografici
Buonanno C., Gragnani A. (2021). Le tecniche di ristrutturazione cognitiva. In: Perdighe C., Gragnani A. (a cura di) (2021). Psicoterapia cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore.

Psicoterapia tra diffidenza e fiducia

di Giuseppe Femia

Raccontare le storie di psicoterapia assolve a diversi compiti, stimola comprensione ed empatia, normalizza, promuove condivisione e comprensione. La narrazione stimola processi di riflessione, inibisce lo stigma verso la sofferenza psicologica, avvicina, integra e scuote abbattendo resistenze e obiezioni.

Le storie, quasi come le metafore, raggiungono la consapevolezza saltando in modo quasi giocoso le resistenze che spesso attiviamo di fronte al riconoscimento del nostro disagio, del dolore, dei nostri limiti.

Inoltre, la storia di un paziente è essa stessa terapeutica, ovvero ricostruire la storia del proprio disagio con nuovi significati e integrarla in relazione alla propria identità, dando senso alla propria sofferenza, diventa un processo di simil cura. La storia diventa il valore aggiunto ad ogni disagio psicologico che altrimenti sarebbe identico per ciascuno, non rispettoso della specialità e del carattere soggettivo di ogni sintomo o malessere che sia.  Dunque, la storia aiuta il terapeuta a curare, il paziente ad essere curato. E può aiutare chi ascolta a individuare somiglianze e simboli che facciano risuonare qualcosa, e che collaborino alla riflessione  mediante processi di decentramento fino a stimolare processi di integrazione. La narrazione aiuta a familiarizzare con parti e caratteristiche di sé che neghiamo o distanziamo con critica, promuovendo accettazione e integrazione.

Ecco dunque una storia clinica, verosimile, o per meglio dire vera, modificata negli aspetti che possano tradire la privacy, dunque: una narrazione come risultato di una reale esperienza di psicoterapia.

La corazza di Leonardo: storia di una mente paranoide

Passività; Ansia; Rancore; Attacco;Negazione; Ostilità; Inadeguatezza; Antagonismo: PARANOIA

Leonardo capelli ricci e occhi vigili, quasi in allarme il suo sguardo. Postura rigida, formale, un po’ compiacente nella comunicazione, eppure subito attacca, e propone test relazionali. La sua diffidenza si sente dal primo minuto: il complotto arriva prima di lui. Poi arriva la rabbia, il rancore misto a dolore e ansia.

Diffidenza, vigilanza, persecuzione sono sovrani nel mondo di Leonardo: quando decide di affidarsi a qualcuno la mente di L. deve sempre comunque fare controlli per verificare se davvero può fidarsi o se deve ancora una volta mettere in moto distanza, distacco e attacco. Oscilla fra compiacenza e diffidenza. Trascuratezza e tristezza sono caratteristiche della sua storia di vita.

Il suo stato mentale sembra essere caratterizzato da un conflitto fra uno stato desiderato – essere compreso, amato, potersi fidare degli altri – e uno stato temuto – essere tradito e deriso – che finisce per prevalere e lo porta a difendersi. La sofferenza innesca controllo, che a sua volta lo induce a non fidarsi degli altri con credenze, regole e aspettative che vanno a confermare le credenze patogene che vedono l’altro sempre come minaccioso, inaffidabile, poco amorevole o addirittura abusante.

La sua storia di vita si mostra infatti segnata da schemi di sfiducia e abuso. Leonardo non giocava, spesso stava in silenzio, chiuso in stanza, a letto; si fidava solo dei suoi giochi, sapeva che loro non lo avrebbero tradito o attaccato.

Quindi da dove nasce la sfiducia verso gli altri? Come inizia a pensare che il mondo sia minaccioso, Leonardo? Da dove si generano queste convinzioni che vedono l’altro come persecutore?

Mediante un ponte, invisibile agli occhi ma silente per la mente, durante la psicoterapia abbiamo tracciato gli eventi significativi da cui generano i suoi timori e le sue credenze di base; ovvero quelle che giocano un ruolo cruciale nella sua sofferenza emotiva e relazionale, nella sua psicopatologia in cui spicca la paranoia, il risentimento e la difesa dal mondo-persecutore.

…continua

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Illustrazione di @disegniperlasalutementale

Disgusto e moralità: una relazione complessa

di Olga Luppino

La sensibilità al disgusto è legata a particolari tipologie di esperienze precoci?

Se sei particolarmente sensibile al disgusto e magari anche piuttosto attento a rispettare norme etico-morali per non sentirti in colpa questo breve post potrebbe interessarti e offrirti qualche spunto di riflessione.

Il disgusto si presenta come una delle più complesse tra le emozioni di base. Numerosi contributi di letteratura ne hanno chiarito, negli ultimi anni, domini e funzioni, mettendo in luce attraverso evidenze comportamentali, neurofisiologiche e di neuroimaging, la stretta associazione che intercorre tra il disgusto e la moralità.

In termini evolutivi, oltre a proteggere il corpo fisico dalla contaminazione, il disgusto si sarebbe infatti sviluppato a tal punto da divenire “sentinella morale”, segnale innato a garanzia dell’integrità etico-morale dell’individuo e a salvaguardia della sua appartenenza alla comunità sociale.

Ma come si spiega il link tra disgusto e morale a livello della storia del singolo individuo? L’esposizione a specifiche esperienze gioca forse un ruolo nel determinare una maggiore o minore predisposizione a provare disgusto? E in che modo in questo processo entra in campo la moralità?

Un recente studio condotto nell’ambito dell’attività scientifica della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (APC-SPC) di Roma ha provato a dare un prima risposta a queste domande.

Gli autori, dopo aver reclutato un campione di 60 soggetti non clinici, hanno loro indotto sperimentalmente l’emozione del disgusto mediante l’immedesimazione in uno scenario audioregistrato per poi favorire la rievocazione di memorie precoci disgusto-correlate.

Interessante quanto emerso dalla disamina dei contenuti delle memorie evocate, affidata al lavoro di 10 valutatori indipendenti.

Una maggiore sensibilità all’emozione del disgusto si è mostrata positivamente correlata alla rievocazione di memorie inerenti esperienze precoci dal contenuto morale: più nel dettaglio esperienze in cui da bambini si è stati oggetto di rimprovero, criticismo, rabbia e iper-responsabilizzazione.

Tali esiti, sebbene preliminari, confermano la stretta associazione tra disgusto e moralità e aprono la strada ad ulteriori studi in questa direzione.

Per scaricare l’articolo:

Luppino, O. I., Tenore, K., Mancini, F., Mancini, A. (2023). The Role of Childhood Experiences in the development of Disgust Sensitivity: a preliminary study on early moral memories. Clinical Neuropsychiatry, 20(2), 109-121. doi.org/10.36131/cnfioritieditore20230203

 

La psicologia dei desideri formulati al contrario

di Giuseppe Femia e Isabella Federico

Quando scopi e intenzioni generano fuga, evitamento e non direzione

La nostra psicologia è governata da desideri e scopi che guidano i nostri pensieri e i nostri comportamenti.

Talvolta ci rappresentiamo i desideri in modo alterato, capita di essere molto bravi a descrivere quello che NON vogliamo piuttosto che capire quello di cui veramente abbiamo bisogno, ad esempio non ci diciamo “voglio essere una persona amata” ma “non voglio essere solo”.

Questa forma alterata del desiderio, quando diventa una modalità stabile, una sorta di abitudine cognitiva di formulare i propri bisogni o i propri scopi di vita, genera confusione e frustrazione. Metaforicamente questo clima esistenziale in cui governa “la paura di cadere e non la voglia di volare” potrebbe somigliare ad un tempo supplementare di una lunga e stancante partita durante la quale si gioca in difesa, sperando di non subire un altro goal dell’avversario, piuttosto che in attacco, con la volontà di segnare e portare a casa una vincita con energia. Una lotta contro la sconfitta e non una corsa verso la vittoria.

La psicologia dei desideri formulati al contrario diventa dunque un percorso faticoso, una salita fatta di sacrificio, inibizione, sconforto, ansia, tristezza.

Questo tipo di formulazione anziché rappresentare uno stato desiderato a cui ambire, da raggiungere con soddisfazione, reclama – nella nostra mente – un timore, o un gruppo di paure e diventa quasi uno scenario spaventevole che ci prefiguriamo come anticamera del fallimento.

Questo tipo di atteggiamento mentale, anziché motivarci in modo funzionale verso il raggiungimento dei nostri bisogni, produce una psicologia della paura, genera sofferenza e angoscia.

Spesso in psicopatologia osserviamo una specie di ancoraggio a tematiche specifiche e/o timori specifici con la paura di fallire in domini particolarmente rilevanti per l’architettura mentale, cognitivo/emotiva di ciascun disturbo.

Ad esempio, nel caso della depressione la persona riferisce di NON voler essere triste, di NON voler essere bisognosa, di NON voler essere una persona sola e poco amabile. Alla formulazione negativa sembra corrispondere il quasi contrario in termini di credenza: non voglio essere una persona sola, una persona poco amabile, o disprezzabile dagli altri, triste e isolata, o depressa (come mio padre), corrisponde una credenza in cui la persona si dice “sono una persona poco amabile” con delle regole assolutistiche che generano sofferenza, ad esempio: se mi faccio vedere triste, allora sarò una persona sola e poco amabile”.

Per continuare, ad esempio, nel caso del Disturbo Ossessivo-Compulsivo la persona NON vuole essere colpevole, NON vuole essere irresponsabile, piuttosto che desiderare di essere una persona giusta e una persona responsabile.

In qualche modo, la persona ha nella sua mente ben rappresentato lo scenario temuto, che a sua volta – in un circolo vizioso di mantenimento – aumenta la sofferenza psicologica esperita, che amplia – quasi come una lente d’ingrandimento deformante – la fonte della sofferenza stessa: lo scenario temuto, appunto, dal quale la persona cerca a tutti i costi di fuggire, ma come un’ombra quest’ultimo le rimane attaccato addosso, la insegue senza tregua, appare ingigantito nella sua mente, fino a paralizzarla nel buio della sua stessa ombra.

Similmente, nell’area dei Disturbi di Personalità, ci muoviamo in un campo intriso, da sempre, da teorie motivazionali che ruotano attorno al concetto di bisogni psicologici fondamentali, di cui Dweck (2017) ha proposto un’integrazione all’interno di una teoria unificata della personalità.  Gli scopi o gli antiscopi rivestono un ruolo centrale nella genesi, nel mantenimento e nell’aggravamento della sofferenza psicopatologica, soprattutto quando connotati da iper-investimento (Mancini e Mancini, 2021 in Perdighe e Gragnani (a cura di), 2021).

Prendiamo, ad esempio, il Disturbo Borderline di Personalità (DBP): chi soffre di tale disturbo si rappresenta uno scenario temuto di tipo abbandonico in modo totalizzante, anticipando con la mente la catastrofe paventata. NON voglio essere abbandonato/a diventa il focus centrale da cui conseguono gli sforzi incessanti per evitare l’abbandono: più che remare verso uno scenario desiderato, sono intenti a remare contro una corrente che vorticosamente li risucchia: l’abbandono viene letto come una conferma della propria indegnità, dell’essere “sbagliati”, “dei vasi rotti da lasciare nel retro bottega”. E quanto più la corrente è forte – vale a dire quanto maggiore è la valenza/l’importanza attribuita all’antiscopo del non voler essere abbandonati – tanto più si rafforzano le credenze psicopatologiche nucleari di non essere degni di amore e di vivere una vita degna di essere vissuta (macro-goal quest’ultimo da costruire nella terapia con pazienti con DBP).

Nel disturbo narcisistico di personalità, anche nelle forme più grandiose, sembrerebbe nascondersi un nucleo di inadeguatezza/vergogna e un timore di NON essere mai all’altezza, NON essere mai abbastanza speciali, NON essere mai abbastanza di valore. Per cui, in alcuni casi – specialmente nei quadri più vulnerabili (“covert”) – lo scenario temuto, da fuggire a tutti i costi, viene spesso riferito con un NON davanti: NON voglio essere inferiore rispetto agli altri, NON voglio deludere le aspettative ed essere, per questo, umiliato. Da qui le continue oscillazioni relative all’autostima e all’idea di Sè, la compromissione dei domini interpersonali – di empatia e intimità -, la competizione (sottile o manifesta) che annusano nell’aria, in un continuo confronto tanto con gli altri quanto con se stessi.

La psicologia dei desideri formulati al contrario, dunque, sembrerebbe presentare un meccanismo simile a quello delle sabbie mobili: tanto più la persona cerca di dimenarsi disperatamente per evitare di essere sommerso, tanto più vi affonda.

Forse il compito della psicoterapia è proprio quello di aiutare la persona ad “uscire dalle sabbie mobili” e di spronarla a muoversi guidata dal raggiungimento di desideri o meglio da scopi raggiungibili, perseguibili e che possano promuovere un piano di vita più ampio, appagante e maggiormente flessibile.

Riferimenti bibliografici

Capo R., Mancini F. (2008). Scopi terminali, temi di vita e psicopatologia. In Perdighe C, Mancini F. (eds) Elementi di psicoterapia cognitiva, pp.39-67. Roma, Giovanni Fioriti Editore.

Castelfranchi C., Miceli M. (2002). Architettura della mente: scopi, conoscenze e la loro dinamica. In Castelfranchi C., Mancini F., Miceli M. (eds) Fondamenti di cognitivismo clinico, pp.45-62. Torino, Bollati Boringhieri.

Dweck, C.S. (2017). “From needs to goals and representations: Foundations for a unified theory of motivation, personality, and development”. In Psychological Review, 124, pp. 689-719.

Johnson-Laird P.N., Mancini F., Gangemi A. (2006). A hyper-emotion theory of psychological illnesse. In: Psychological Review 113, No. 4, 822–841, 113 (4), pp. 822–841.

Lorenzini R. (2013). Tribolazioni 05- Gli Antigoal. In Lorenzini R. Tribolazioni (monografia a cura di), State of Mind, id 29681, aprile 2013

Lorenzini R. (2016). Prevenire o promuovere? E le conseguenze per gli scopi esistenziali. In Lorenzini R. Ciottoli di psicopatologia generale (rubrica), State of Mind, id 117470, gennaio 2016.

Mancini F., Gangemi A. e Giacomantonio M. (2021). Il cognitivismo clinico e la psicopatologia. In Perdighe C. e Gragnani A. (eds) Psicoterapia Cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore.

Mancini F., Perdighe C. (2012); Perché si soffre? 
iIl ruolo della non accettazione nella genesi e nel mantenimento della sofferenza emotive. Cognitivismo Clinico (2012) 9, 2, 95-115

Mancini F., Romano G. (2014). Bambini che mangiano poco, bambini che mangiano troppo: il trattamento CBT per i disturbi alimentari in età evolutiva. Relazione presentata al convegno “Cibo, corpo e psiche. I disturbi dell’alimentazione”. Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR, Roma.

Mancini, F. (2016) (ed). La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo. Raffaello Cortina Editore.

Mancini, F., Mancini, A., (2021) Il ruolo degli scopi nei disturbi di personalità. In Perdighe, C. e Gragnani, A. (a cura di) (2021). Psicoterapia Cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore (ISBN 978-88-3285-322-3), pp. 833-874.

Paglieri F., Castelfranchi C. (2008). Decidere il futuro: scelta intertemporale e teoria degli scopi. Giornale italiano di psicologia / a. XXXV, n. 4, dicembre 2008, 739-771.

Perdighe, C. e Gragnani, A. (a cura di) (2021). Psicoterapia Cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore (ISBN 978-88-3285-322-3).

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Il tema del giudizio nella fobia sociale e il contributo del movimento Punk – prima parte

di Roberto Petrini e Vittorio Lannutti

Quando una risorsa ci appare necessaria ma limitata, oppure distribuita in modo iniquo tra le parti; se percepiamo segnali di sfida, ma anche quando ci sentiamo giudicati si attiva in noi il sistema motivazione competitivo (Liotti, Monticelli 2008).

Se pensiamo di poter far valere le nostre ragioni potremmo dar vita a una contesa dove potremmo uscirne vincitori e in posizione dominante e provare quindi orgoglio, oppure sottometterci, o rimanere coinvolti in una lotta. Se pensiamo che l’altro abbia maggiori capacità nella contesa ci sembrerà utile sottometterci e allora compariranno collera, paura, ma anche vergogna. (Liotti, Monticelli 2008).

Di sicuro un grande compito di vita in adolescenza è legato al tema della competizione, la meta di questo comportamento è la definizione del rango sociale di colui che si appresta a divenire un adulto (Gilbert 1999).

Il passaggio dalla cura dei genitori al gruppo dei coetanei è fondamentale, ma occorre guadagnarsi il rispetto e la stima che prima erano garantite dai genitori. Nelle relazioni sociali “adulte” chi offre amicizia a alleanza, protezione emette anche dei giudizi sul destinatario di quelli che possono essere anche descritti come “beni sociali”. Le interazioni sociali richiedono una complessa psicologia in un processo dinamico reciproco dove si valutano affidabilità, valore, forza, impegno, e volontà di reciprocare.

Battersi per lo status e il riconoscimento sociale è fondamentale, e quando ci sentiamo inferiori decidiamo di isolarci, e iniziamo a vedere il mondo in chiave pessimistica. Shively 1998 in alcuni studi di laboratorio ha notato che le scimmie che passavano più tempo da sole erano quelle che nella scala gerarchica erano posizionate in fondo.

Se penso di non essere all’altezza e ho timore del giudizio altrui probabilmente mi ritirerò e penserò che visto che mi percepisco così anche gli altri probabilmente ravvisino in me tali problemi. Il tema centrale potrebbe divenire quello di non fare brutta figura e come strategia principale si potrebbe scegliere l’evitamento delle situazioni potenzialmente pericolose.

Competere per l’attenzione, l’accettazione degli altri, per l’affetto, sembra sia l’unico modo per ottenere accettazione sociale. Come suggerisce Nietzsche siamo diventati “delle bestie dalle guance rosse” proviamo vergogna se è a rischio la nostra buona immagine.

Spesso giudichiamo noi stessi in conformità di come ci giudicano gli altri, e legarci alla valutazione degli altri, mantiene e aggrava il problema. Se valuto me stesso sulla base dei segnali di stima che ricevo, mi metto in una condizione di sottomissione fin dall’inizio della relazione. La percezione di fragilità disporrà la persona ad avere ansia e probabilmente per rassicurarsi cercherà di prevedere possibili minacce, continuando così a fare inferenze sulle possibili interazioni e nel tentativo di controllarle si invischierà in un circolo vizioso.

Probabilmente si andrà ad immaginare tutta una serie d’immagini e pregiudizi negativi, in quanto l’attenzione è posta sul fatto di sentirsi inadeguati e in balia del giudizio altrui. Nel tentare di trovare una soluzione a questo grande problema probabilmente si andranno ad evitare quelle situazioni che potrebbero causare una brutta figura, e gli eventi temuti con il passare del tempo si moltiplicheranno.

 

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Perdita perinatale, l’attenzione necessaria

di Laura Lippolis

L’esperienza clinica registra come la perdita di un bambino per un aborto spontaneo o per una morte neonatale sia un evento ad alto gradiente traumatico

Il lutto è una tra le più dolorose esperienze che si possano sperimentare, in quanto costringe inevitabilmente l’individuo a confrontarsi con la perdita irrimediabile di una persona con cui aveva intessuto un legame di attaccamento. Perdere un figlio, un partner, un amico, un genitore o in generale una persona cara, rappresenta un evento di vita che pone l’individuo in una condizione di intenso stress e profondo dolore emotivo. La morte, purtroppo, è una esperienza naturale che la vita stessa ci porta a conoscere. Elaborare la morte di una persona cara è la capacità di riuscire a sopra-vivere, a continuare a vivere nonostante la perdita irrimediabile, a interpretare il terribile evento come un fatto inevitabile, ineludibile, diremmo “normale”. È sicuramente normale, seppur doloroso, assistere alla morte di un genitore, di una persona avanti negli anni… Ma chiedere a un genitore di sopravvivere alla morte di un figlio e specificatamente, proprio durante una esperienza fisiologicamente preposta a dare la vita, appare come un atroce paradosso. Il desiderio di dare alla luce un figlio attraverso una esperienza di gravidanza, spesso può incappare in un vissuto di perdita sia della vita stessa di quel figlio, sia del progetto genitoriale quale investimento su quel figlio. In questo caso gli eventi morte e vita si incrociano: si perde la vita mentre si è impegnati a generare la vita e mentre si compiono atti e sviluppi (si pensi ai cambiamenti che avvengono nel corpo e nella psiche della donna) evoluzionisticamente pensati per prepararsi ad accogliere la vita. Le cause legate all’esperienze di lutto peri-natale posso essere diverse (interruzioni spontanee, volontarie, terapeutiche, morte prematura del feto, diagnosi infausta di terminalità fetale, malformazioni invalidanti, ecc.).  Per molto tempo la società ha minimizzato il dolore della perdita di una gravidanza che è una tra le più dolorose tra le esperienze di lutto. Frasi rassicuranti, ma estremamente invalidanti, del tipo “Bisogna farsene una ragione…” oppure “Avrete presto altri figli, non pensateci più…” sono i consigli che a volte vengono forniti alle coppie che hanno subìto una perdita perinatale e che possono provenire da circuiti domestici, ma anche da ambienti sanitari che risultano a volte impreparati davanti all’evento. La ricerca ha dimostrato come le donne che nella propria storia di vita hanno subìto una perdita in gravidanza soffrano di un livello di stress psicologico più alto rispetto alle donne che non hanno mai subìto una perdita perinatale, con stati mentali caratterizzati da sentimenti di colpa, senso di ingiustizia, percezione di inefficacia del proprio corpo, invidia per gli altri, perdita di speranza e di aspettative riguardo al futuro. L’esperienza clinica registra come la perdita di un bambino a causa di un aborto spontaneo o per morte neonatale sia un evento ad alto gradiente traumatico, ma nonostante questo, attualmente si osserva una marcata carenza di studi controllati randomizzati in questo campo di ricerca. Questa falla rende difficile un adeguato supporto per un tipo di dolore che non differisce da comuni esperienza di perdita e che ha gli stessi rischi di sviluppare lutti complicati, con in più la possibilità di ricadute sul rapporto con gli altri figli, le gravidanze e i figli che verranno. Infatti,  si è osservato come  il lutto da perdita perinatale possa  minare la genuinità delle prime relazioni di attaccamento tra caregivers e figlio  durante le future gravidanze (mediate dai comuni  gesti di accarezzare la pancia, parlare dolcemente al figlio in grembo, raccontargli delle storie, ecc.) in quanto i genitori possono sperimentare in maniera più intensa ansie e preoccupazioni, entrare in evitamento emotivo, mostrare distacco e freddezza verso il feto, sovrainvestendo nello scopo di non esporsi nuovamente al doloroso rischio di perdita. Si può ben intuire come, nei casi in cui ciò avvenisse, questi comportamenti di evitamento potrebbero rappresentare un importante fattore di rischio per la costruzione dei legami di attaccamento con i figli futuri. Quando invece non sono presenti figli precedenti o ci sono state in passato perdite perinatali, alcuni studi mostrano come l’esperienza abortiva sia associata ad un rischio più alto di ricadute o insorgenza di episodi depressivi. Questi accenni sopra descritti assieme a una considerabile letteratura in merito all’argomento ci interrogano, come clinici, in merito al bisogno di ricerca, prevenzione e terapia.

 

Per approfondimenti

Forrest, G. C., Standish, E., & Baum, J. D. (1982). Support after perinatal death: a study of support and counselling after perinatal bereavement. Br Med J (Clin Res Ed), 285(6353), 1475-1479.Friedman, T., & Gath, D. (1989). The psychiatric consequences of spontaneous abortion. The British Journal of Psychiatry, 155(6), 810-813.

Burden, C., Bradley, S., Storey, C., Ellis, A., Heazell, A. E., Downe, S., … & Siassakos, D. (2016).

From grief, guilt pain and stigma to hope and pride–a systematic review and meta-analysis of mixed-method research of the psychosocial impact of stillbirth. BMC pregnancy and childbirth, 16(1), 1-12.

Michon, B., Balkou, S., Hivon, R., & Cyr, C. (2003). Death of a child: parental perception of grief  intensity–end-of-life and bereavement care. Paediatrics & child health, 8(6), 363-366.Kersting, A., & Wagner, B. (2012). Complicated grief after perinatal loss. Dialogues in clinical 34 neurosciences, 14(2), 187.

 

Foto di Liza Summer:
https://www.pexels.com/it-it/foto/luce-donna-impianto-dentro-6383183/

Verso una definizione comune di dipendenza affettiva patologica: una nuova scala di misurazione basata su un modello cognitivo

di Paola Lioce

Secondo il modello cognitivo della dipendenza affettiva patologica (DAP) sviluppato da Erica Pugliese e collaboratori, la DAP può essere considerata un fenomeno relazionale in cui almeno uno dei due membri della coppia ha un bisogno indispensabile dell’altra persona – tipicamente un partner violento o manipolatore – e protegge la relazione a tutti i costi. La rottura causa una sofferenza emotiva intollerabile, così la persona rimane intrappolata nella relazione. Dal momento che il partner del dipendente affettivo patologico causa una continua frustrazione di scopi importanti di relazione come l’autostima, l’autonomia e la sicurezza, queste persone vivono un conflitto spesso non consapevole tra il mantenimento del legame di attaccamento e lo scopo di proteggere sé stessi e l’autostima. Spesso queste persone mantengono la relazione nella speranza di un cambiamento del partner che, non solo non si verifica mai, ma che congela a lungo il rapporto con gravi conseguenze in termini di disturbi fisici e/o psicologici. In questi casi non è inedito arrivare a una degenerazione della relazione in vera e propria violenza intima da parte del partner di tipo fisico o psicologico.

Ma qual è il profilo tipico del dipendente affettivo patologico? Per quale ragione non riesce ad uscire dalla relazione pur essendo consapevole delle conseguenze negative che essa porta? Secondo il modello cognitivo della DAP spesso l’adulto con dipendenza affettiva è stato un bambino che ha subito traumi di deprivazione emotiva e abuso. Potrebbe essere nata una identificazione con il genitore che portava avanti la missione di amore e sacrificio verso il partner problematico oppure potrebbe essere stato un figlio dedito a salvare il genitore abusato e trascurato dal partner. Mantenere la relazione nonostante il disagio vissuto ha le sue origini nel desiderio spesso inconsapevole di rimediare ai traumi vissuti durante l’infanzia.
Lo scopo principale della persona dipendente affettiva non è ricevere cura dei suoi bisogni (come succede nel disturbo dipendente di personalità). Il “dipendente affettivo” considera “noiosa” la relazione con il partner amorevole, si sente oppresso dai partner premurosi e continua a scegliere partner sfuggenti o distanti. Lo scenario peggiore per il dipendente affettivo è la rottura del rapporto con il partner e di conseguenza fa di tutto per mantenere la relazione tossica ed essere amato come sogna. L’antiscopo comune a tutti i soggetti con dipendenza affettiva patologica è dunque la rottura del legame con il partner.

Negli ultimi decenni si è registrato negli studi di psicoterapia un aumento del tasso dei pazienti vittime di relazioni intime disfunzionali e violente. Nonostante i dati siano allarmanti, il concetto di dipendenza affettiva patologica non trova ancora posto nella nosologia psichiatrica.

Sulla base del modello cognitivo di DAP sopra citato è stata recentemente sviluppata una scala di misurazione della dipendenza affettiva patologica chiamata PADS (Pathological Affective Dependence Scale). La scala è stata testata su un campione clinico di 25 persone di età compresa tra 29 e 61 anni reclutate in un gruppo di auto mutuo aiuto Millemè – violenza di genere e dipendenze affettive e nel centro di psicoterapia, presso la Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma (SPC). Gli item della PADS sono articolati in quattro fattori principali, che possono descrivere il funzionamento mentale del dipendente affettivo tipico: Fattore Altruistico (quando si vuole evitare la sofferenza dell’altro ritenuto bisognoso); Fattore Deontologico (quando ci si ritiene indegni di un altro partner); Fattore Vulnerabilità (quando ci si considera vulnerabili e si mantiene la relazione per evitare di sentirsi soli e in pericolo) e Fattore Conflitto. Il conflitto può essere di tre tipi: Assente (nel momento in cui la persona non si rende conto di stare in una relazione tossica ma gli altri glielo fanno notare), Alternato (quando si alternano momenti di consapevolezza della disfunzionalità della relazione, a momenti di soddisfazione), Akrasico (quando ci si rende conto che sarebbe il caso di interrompere la relazione ma la persona non riesce a rinunciarvi).

Sembrerebbe che la dipendenza affettiva patologica sia la base cognitiva ed emotiva della violenza di genere; dunque, identificare i profili di DAP è utile per intervenire prima che la dipendenza affettiva sfoci in violenza e a lavorare anche con programmi psicoeducativi (ad esempio in contesti come scuole, università, centri antiviolenza, servizi sociali ecc.). Avere a disposizione uno strumento che possa misurare la sintomatologia che presenta la persona con dipendenza affettiva patologica potrà essere un valido aiuto in questa direzione.

Bibliografia

American Psychiatric Association (APA) (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (5th ed.). Author.

Iannucci, Perdighe, Saliani, & Pugliese, E. (2021). Karina. Il Legame Irrinunciabile: Scopi, Anti-Goal e Conflitti Tipici della Dipendenza Affettiva Patologica. Cognitivismo Clinico.

Perdighe, C., Pugliese, E., Saliani, A. M., & Mancini, F. (2022). Gaslighting: una sofisticata forma di manipolazione, difficile da riconoscere. Psicoterapeuti in-formazione.

Pugliese, E., Saliani, A. M., & Mancini, F. (2019). Un Modello Cognitivo delle Dipendenze Affettive Patologiche. Psicobiettivo, 1, 43-58.
https://doi.org/10.3280/PSOB2019-001005

Pugliese, E., Saliani, A. M., Mosca, O., Maricchiolo, F., & Mancini, F. (2023). When the War Is in Your Room: A Cognitive Model of Pathological Affective Dependence (PAD) and Intimate Partner Violence (IPV). Sustainability, 15, 1624.
https://doi.org/10.3390/su15021624

Pugliese, E., Mosca, O., Saliani, A.M., Maricchiolo, F., Vigilante, T., Bonina, F., Cellitti, E., Barbaro, G.F., Goffredo, M., Lioce, P., Orsini, E., Quintavalle, C., Rienzi, S., Vargiu, A., & Mancini, F. (2023). Pathological Affective Dependence (PAD) as an Antecedent of Intimate Partner Violence (IPV): A Pilot Study of PAD’s Cognitive Model on a Sample of IPV Victims. Psychology, 14, 305-333.
https://doi.org/10.4236/psych.2023.142018

Kane, T. A., Staiger, P. K., & Ricciardelli, L. A. (2000). Male Domestic Violence: Attitudes, Aggression, and Interpersonal Dependency. Journal of Interpersonal Violence, 15, 16-29. https://doi.org/10.1177/088626000015001002

Foto di Anete Lusina:
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Skills training: palestra delle abilità

di Francesca Rossini

Un protocollo di allenamento per imparare a regolare le emozioni e a gestire i rapporti interpersonali

Con “Skills Training” ci si riferisce ad uno dei protocolli fondanti il modello di trattamento Dialectical Behaviour Therapy (DBT) sviluppatosi a partire dal 1980, quando la psichiatra e psicoterapeuta americana Marsha Linehan condusse una ricerca sull’efficacia della terapia comportamentale per il Disturbo di Personalità Borderline presso il National Institute of Mental Health. Come racconta Linehan nel suo libro “Una vita degna di essere vissuta”,  i semi della DBT sono stati piantati nel 1961, quando, a diciotto anni, è stata ricoverata nel reparto Thompson Two dell’Institute of Living di Hartford, in Connecticut, in seguito a uno scompenso psichico durante l’anno del diploma. È grazie all’esperienza vissuta in prima persona, in quella che lei stessa definisce “discesa all’inferno”, che nasce l’esigenza di creare un nuovo modello di trattamento per il Disturbo di Personalità Borderline, diagnosi ricevuta dalla Linehan.
All’interno della costellazione di interventi che caratterizzano l’approccio DBT, si inserisce il protocollo di Skills Training. Si tratta di un gruppo di lavoro il cui focus è allenare le proprie abilità sociali per poter gestire parallelamente gli aspetti emotivi e gli aspetti interpersonali che caratterizzano la vita dei partecipanti al trattamento. Si tratta quindi di una vera e propria palestra, in cui ci si addestra per potenziare abilità sopite o poco allenate, fondamentali per poter fronteggiare aspetti cruciali della vita dell’essere umano, come la gestione degli aspetti emotivi e dei rapporti interpersonali.
Il setting di gruppo ha una duplice funzione: sia poter sperimentare, in vivo, le abilità su cui si sta lavorando, sia ricevere stimolo e validazione dagli altri partecipanti; il gruppo diventa quindi il palcoscenico principe dove poter sperimentare i risultati e il propulsore del proprio addestramento.
Le schede fornite tramite cui si struttura il lavoro, chiamate esse stesse “abilità”, sono delle autoistruzioni mentali, brevi e concise, che guidano il pensiero e di conseguenza il comportamento. A breve termine aiutano a sostituire pattern cognitivi, emotivi e comportamentali disfunzionali; a lungo termine aiutano a migliorare l’attitudine mentale verso sé stessi e verso il mondo.
Non si tratta di psicoterapia, ma di un gruppo di lavoro, dove le persone si mettono in cerchio, guidate da un leader (che insegna, modella e dà i compiti) e un co-leader (che osserva i processi gruppali, aiuta a tenere i tempi, gestisce le crisi).
Lo Skills Training si basa sui principi derivanti dalla mindfulness: la consapevolezza del momento presente, il non attaccamento (all’idea di come dovrebbero essere le cose idealmente, favorendo l’accettazione delle cose così come sono), l’inter-essere (importanza di ogni membro di un gruppo che ha scopi comuni), l’impermanenza (il gruppo è in continuo movimento) e l’idea che il gruppo è perfetto così com’è (ogni membro sta facendo del suo meglio, è importante riconoscere, accettare e validare il funzionamento del gruppo).
Gli obiettivi del protocollo sono essenzialmente quattro: implementare le abilità socio-emotive per gestire la disregolazione emotiva; ridurre l’ansia sperimentata nei rapporti interpersonali, promuovendone una miglior gestione; controllare e prevenire l’impulsività; rafforzare l’identità personale. Questi scopi fanno capo ai quattro moduli secondo i quali è stato organizzato il protocollo: abilità di “efficacia interpersonale”, abilità di “regolazione emotiva”, abilità di “tolleranza alla sofferenza” e abilità di “gestione e controllo degli impulsi (mindfulness)”.
Inizialmente ideato per il trattamento del Disturbo di Personalità Borderline, è stato poi riadattato per il trattamento di altre tipologie di disturbo, come ad esempio la schizofrenia (Social Skills Training).
Verrà prossimamente illustrata l’esperienza di attuazione di questo protocollo all’interno di un contesto residenziale, quale una comunità terapeutica di doppia diagnosi.

Foto di Vie Studio:
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“L’amore è l’unica cosa”

di Caterina Villirillo

L’intervento di Steve Hayes e altri spunti per il trattamento dell’età evolutiva al Congresso Intermedio SITCC

Un congresso tra amici e colleghi in atmosfera natalizia con vista mare: è il ricordo che conservo del Congresso Intermedio SITCC che si è svolto dal 9 all’11 dicembre 2022 ad Ancona. Un congresso per la prima volta interamente dedicato all’età evolutiva: un’occasione unica di confronto e formazione che ha coinvolto diversi colleghi che operano nel territorio nazionale e che si occupano quotidianamente di questa particolare fase della vita. Il programma è stato ricchissimo e variegato. La prima giornata ha previsto tre workshop paralleli esperienziali dedicati all’Acceptance and Commitment Therapy, alla Theraplay e al trattamento dei disturbi da Tic e della Sindrome di Tourette. Nelle giornate successive, in due tavole rotonde diversi membri dell’equipe per età evolutiva SPC-APC hanno avuto il piacere di esporre i propri lavori sul tema dei disturbi specifici di apprendimento e dei disturbi di personalità, nell’ottica dello sviluppo nell’arco della vita. Ci sono stati, inoltre, sei simposi paralleli dedicati a lavori clinici e di ricerca.
Gli spunti offerti da questi interventi e l’esposizione delle tecniche che hanno stimolato il desiderio di lavorare in modi alternativi con i pazienti sarebbero già stati sufficienti a rendere questo congresso imperdibile, ma la main relation di Steve Hayes, fondatore dell’Acceptance and Commitment Therapy, ne ha definito l’unicità. È stato emozionante ascoltare il professore che, con la semplicità che lo contraddistingue, ha spiegato come è necessario occuparci del benessere infantile, considerando il mondo attuale in cui i bambini vivono, in continua trasformazione. Secondo Hayes, è necessario reinventarci ogni giorno, senza perdere mai l’entusiasmo e la passione per il nostro lavoro: “Il mio messaggio per voi è quello di guardare alla scienza della flessibilità psicologica, – ha detto – ma anche a come questa possa rendere noto ciò che già conoscete, ovvero portare amore a voi stessi; anche quando è difficile, – ha aggiunto – vi aiuterà a portare amore nel mondo nel modo in cui volete portarlo nel mondo, perché l’amore non è ogni cosa, l’amore è l’unica cosa”. Parole che costituiscono una bussola che potrà guidarci e indirizzare i nostri valori nella professione di terapeuta.
Non sono mancati i momenti di convivialità ed è sempre bello osservare come a fare ancora più grande il valore di molti colleghi stimati sia la capacità di sapersi prendere con leggerezza, di appassionarsi e divertirsi: un grande valore aggiunto al mestiere del terapeuta, soprattutto quando ci si trova di fronte a piccoli e giovani pazienti. Il senso di appartenenza a questo gruppo io l’ho sentito, è stato bello ritrovare colleghi che per vie diverse hanno fatto parte del mio percorso e vedere come tutte le strade si ricongiungono in una rete coesa di collaboratori preziosi, che parlano la stessa lingua, che ogni giorno si impegnano a perseguire l’obiettivo di favorire il benessere e migliorare la qualità di vita di bambini e adolescenti. I dati sulla sofferenza psicologica in età evolutiva, condivisi anche durante il convegno, sono purtroppo allarmanti ed è importante dare maggiore rilievo a questa tematica perché conoscere e condividere tecniche sempre più aggiornate può permetterci, in tempo reale, di intervenire sulla vulnerabilità storica degli adulti di domani. Queste sono occasioni davvero preziose e mi auguro che il successo di questa prima edizione possa incoraggiare la scelta di rendere il congresso SITCC per l’età evolutiva un appuntamento fisso. E intanto arrivederci a Bari per il congresso SITCC di settembre 2023!

Foto di Nothing Ahead:
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