Le storie che curano

di Giuseppe Femia

Le storie che curano

Ha davvero senso raccontare storie di psicoterapia, l’esperienza del medico che cura e del paziente che viene curato?

La giornata tipo di uno psicoterapeuta si caratterizza per alti e bassi di adrenalina, curiosità, rabbia espressa, coiti riferiti, perversioni frequenti.

Passa per nevrosi di vario tipo, disturbi di ansia, stati depressivi a personalità borderline. Si muove dalla sessualità a banali problemi di cuore drammatizzati, oscilla fra psicosi straordinarie a fastidi ordinari della vita quotidiana.

E lo psicoterapeuta? Una mente che cerca di muoversi con attenzione e sensibilità fra stati emotivi, pensieri, credenze, relazioni, esperienze passate e investimenti futuri. Una mente che muove e vive altre menti, altre vite.

Certo la giornata di un dentista non deve essere più leggera e meno adrenalinica di quella di uno psicoterapeuta, fra pulpiti, cure canalari, ponti e perni, dolore e anestesie, e nemmeno sarà priva di fobie e ansie. Ma quella dello psicoterapeuta passa per la vita degli altri, intreccia storie, emozioni , ricordi, sogni, riflessioni, e cura con la parola e la relazione. Questa professione ha perciò caratteristiche intrinseche che la rendono peculiare, avvincente, complessa e affascinante.

Raccontare le storie e i casi incontrati in psicoterapia potrebbe quindi risultare interessante anche per chi non pratica questo mestiere e per chi non l’ha mai incontrata né da un lato né dall’altro della scrivania: a differenza di quello che avviene in uno studio dentistico, che potrebbe potenzialmente anche regalare spunti interessanti dai mille risvolti, le storie di psicoterapie possono riguardare davvero tutti, e offrirsi come spunto riflessivo o come osservatorio privilegiato per ogni individuo che pensa, soffre, gioisce. La narrazione infatti stimola processi di riflessione, inibisce lo stigma verso la sofferenza psicologica, avvicina, integra e scuote abbattendo resistenze e obiezioni. Inoltre, la storia di un paziente è essa stessa terapeutica, perché ricostruire la storia del proprio disagio con nuovi significati e integrarla in relazione alla propria identità, dando senso alla propria sofferenza, diventa un processo quasi di cura. E può aiutare chi la ascolta a individuare somiglianze e simboli che fanno risuonare qualcosa. Ecco dunque una storia clinica, verosimile, o per meglio dire vera, modificata negli aspetti che possano tradire la privacy: una narrazione come risultato di una reale esperienza di psicoterapia.

Cosimo: occhi azzurri e pensieri neri
(clicca qui per scaricare la storia in formato pdf)

Illustrazioni di @disegniperlasalutementale
https://www.instagram.com/disegniperlasalutementale?igsh=MTl1YXN2MmUyeHE0aQ==

Quando una storia può aiutare a cambiare

di Francesca Romani e Giordana Ercolani

Ogni individuo nel corso della propria storia di vita può attraversare situazioni in grado di contribuire alla costruzione di credenze e regole su sé stesso e su gli altri. Questo processo inizia fin da bambini. Infatti è proprio nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza che le esperienze quotidiane con i genitori, prima, e successivamente con i compagni ed altri adulti significativi (es. familiari, insegnanti, allenatori etc.) sono in grado di suggerire una versione del mondo che con il tempo potrebbe irrigidirsi e diventare la sola “lente” con cui leggere gli eventi, le persone e sé stessi. Dunque quando questa “lente” si è costruita sulla base di esperienze accompagnate, ad esempio, da sensazioni di intensa frustrazione, critica, inadeguatezza, rifiuto o esclusione con conseguenti emozioni di rabbia, senso di colpa, ansia o tristezza, la sofferenza emotiva segue, solitamente, una traiettoria negativa che può condurre a profili psicopatologici più o meno precoci.

Nella psicoterapia Cognitivo-comportamentale (CBT) è consuetudine affrontare con il paziente proprio questo sistema di regole e credenze che caratterizza tipicamente il suo funzionamento psicologico, dedicando maggiore attenzione a quelle responsabili della sofferenza.

L’obiettivo è quello di ridurne la rigidità, favorire una defocalizzazione dall’ipotesi peggiore e affiancarvi punti di vista alternativi (Buonanno, Gragnani, 2021) con un successivo incremento della flessibilità psicologica responsabile di più alti livelli di benessere. Anche negli interventi con bambini e ragazzi si procede allo stesso modo; sebbene la giovane età può far credere che tale sistema non sia poi così disfunzionale, è esperienza comune per i terapeuti dell’età evolutiva imbattersi in idee già estremamente rigide e pervasive, inserite in quadri di sofferenza emotiva già ben strutturati.

In CBT tale processo di ampliamento del punto di vista e disponibilità a considerare una versione differente delle cose riguardanti se stessi e gli altri, prende il nome di ristrutturazione cognitiva.

Tante sono le tecniche e gli strumenti in grado di favorirla e tra questi si trovano anche le favole per bambini. Riprendendo l’esempio della “lente” usato poco fa, potremmo dire che una storia ha il potere di ridurne l’utilizzo e alimentare l’assunzione di una nuova prospettiva da cui guardarsi intorno per poi trarre conclusioni. Di fatto, nel caso delle favole, grazie al processo di identificazione con le situazioni e i personaggi, è possibile prima di tutto normalizzare la propria sofferenza; sapere infatti che anche altri soffrono come soffriamo noi ci fa sentire meno soli. Altresì la lettura di una storia, anche se di fantasia, può offrire la possibilità di rintracciare nelle vicende altrui, temi di sofferenza simili ai propri e avere così la possibilità di prendere in esame delle alternative che prima di allora non si erano considerate.

Pertanto, da un’esigenza clinica di questo tipo nasce la storia de “Il cappello Matteo” che siamo qui a condividere affinché possa essere di aiuto non solo al bambino per cui è stata scritta ma anche a tutti quelli che come lui, dopo una delusione, si sono ritrovati a pensare di non essere abbastanza di valore per ottenere l’affetto e la vicinanza degli altri, decidendo così di isolarsi e rinunciarvi per sempre.

 

Il cappello Matteo: clicca qui per scaricare la storia completa in formato pdf

Illustrazione di @disegniperlasalutementale

 

Riferimenti bibliografici
Buonanno C., Gragnani A. (2021). Le tecniche di ristrutturazione cognitiva. In: Perdighe C., Gragnani A. (a cura di) (2021). Psicoterapia cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore.

Nuove terapie: come orientarsi?

di Claudia Perdighe

Il convegno SITCC di Bari ha affrontato il tema dell’approccio professionale agli interventi di psicoterapia più recenti e in continua nascita

Come orientarsi nel proliferare di sempre “nuove psicoterapie”? Non sarebbe compito delle scuole di formazione fare da interfaccia tra gli studenti e le varie forme di terapia possibile?

Sono questi i due quesiti centrali emersi durante la tavola rotonda che ha dato il via al convegno Sitcc di Bari. La prima domanda, posta dal prof. Cesare Maffei, ha trovato risposta della seconda, rivolta al relatore da una studentessa tra il pubblico. Ebbene, sono proprio le scuole a supportare gli specializzandi nelle scelte rispetto alla formazione e sugli interventi terapeutici più efficaci con i pazienti.

Argomentazioni esaurienti a queste e ad altre domane sono state fornite durante il simposio “Disturbo Ossessivo Compulsivo: protocolli di intervento, procedure e tecniche di intervento innovative”, che ha visto Elena Prunetti  in veste di chair e  Teresa Cosentino nel ruolo di discussant. Difficile sintetizzare l’intera discussione, che tocca vari temi chiave per la psicoterapia.  Per darvi un’idea dei percorsi affrontati, ecco un elenco di quesiti con risposta che possono rappresentare i cardini delle riflessioni durante l’incontro:

    • perché si soffre? La spiegazione va cercata a livello di scopi e credenze;
    • perché i pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo soffrono? Perché hanno il terrore di vedere minacciata la loro dignità morale, vale a dire iper-investono sulla prevenzione della colpa;
    • quale è il bersaglio dell’intervento, vale a dire cosa devo cambiare perché i sintomi si riducano? Il timore di colpa;
    • quali strumenti terapeutici abbiamo a disposizione per colpire il bersaglio? Tutti quelli della terapia cognitivo comportamentale (CBT) di prima e seconda generazione, innovazioni di queste (come quella proposta da Angelo Saliani), procedure di terza generazione come la compassion therapy;
    • funziona? Sono stati elaborati dati attendibili su esiti positivi delle procedure.

In altri termini, sembra che quando ci si muove su una spiegazione chiara della psicopatologia e di uno specifico disturbo, ne derivi una ipotesi chiara sul funzionamento dello specifico paziente che definisce il target dell’intervento. Diventa così più facile orientarsi (e orientare i giovani specializzandi) tra le procedure e forme di terapia. Ad esempio, se è chiaro che il mio bersaglio è il timore di colpa, posso provare a farlo con: esposizione, provando a modificare le credenze che lo sostengono, provando ad aumentare la disponibilità al perdono di sé e all’autocompassione, provando a modificare le memorie delle esperienze su cui il timore di colpa si è creato con procedure di Schema Therapy o EMDR e cosi via. Con questa impostazione, ne deriva anche una maggiore facilità di risposta alla domanda: funziona?

Un’osservazione a margine: in questo simposio non si è posta l’attenzione esplicita sulla relazione. L’impressione è che, come suggerito sempre da Angelo Saliani nelle tavole rotonde sull’impasse terapeutico, una profonda conoscenza della psicopatologia permette di ricavare interventi che riducono i problemi di ordine relazionale oltre a facilitare una via d’uscita efficace laddove si presentano.

In sintesi, tornando al tema principale, laddove ci sia una teoria psicopatologica chiara (e in questo caso è quella di Francesco Mancini sul DOC), diventa molto più facile orientarsi, applicare e studiare l’efficacia di procedure nuove.

In questa impostazione, troviamo anche una risposta alla domanda: come ci si può formare bene su tutte queste nuove terapie?

Non è necessario “formarsi bene”, se con questo si intende formarsi a un altro modello teorico di spiegazione della psicopatologia. È vero che le terapie di terza onda sono basate su una teoria esplicativa diversa da quelle di seconda generazione, ma per usare molte procedure non è necessario “comprare tutto il pacchetto”.

Cosi come è accaduto con il training assertivo o con l’ERP, procedure di cambiamento nate all’interno della teoria comportamentale, possono essere integrate perfettamente tra le tecniche di un terapeuta CBT senza la necessità di “sposare” la teoria esplicativa sottostante. Se fatto in modo coerente non è confusivo ne tantomeno un ecclettismo pasticciato; l’importante è avere chiaro cosa esattamente si vuole cambiare nel paziente e in che modo quella procedura può essere utile a tale fine. Del resto credo che pochi tra i colleghi della Sitcc che usano l’EMDR, sposino anche la teoria esplicativa sottostante.

Un’ultima osservazione: sembra che parte della confusione nasca dal mettere molte procedure di cambiamento nella categoria “terapia” e non “tecnica” o “procedura”, con il sottinteso che è una nuova o differente teoria di spiegazione, oltre che di cura, del paziente. E, purtroppo, forse spesso la ragione di questo è più economica e di status, che di tipo scientifico.

Assessment e Cognitivismo

di Anna Chiara Franquillo (SPC sede di Grosseto)

Il ruolo degli scopi e degli antiscopi nella concettualizzazione del paziente.

Più è accurata la mappa, più è sicuro il viaggio: assessment e trattamento dei disturbi di personalità è il nome del simposio che, al XXI Congresso Nazionale SITCC di Bari, ha ospitato un lavoro molto interessante, oltre che innovativo, sul ruolo degli scopi e degli antiscopi all’interno della prospettiva cognitivista. Perché è centrale comprendere la concezione scopo/antiscopo all’interno della psicopatologia? Giuseppe Femia, insieme ad un nutrito gruppo di ricerca composto dai colleghi Isabella Federico, Andrea Gragnani, Francesca D’Olimpio, Guyonne Rogier, Roberto Lorenzini e Francesco Mancini, ha risposto ad un interrogativo così importante e cruciale attraverso un complesso studio, che si è posto l’obiettivo di sottolineare quanto l’iperinvestimento sugli scopi e gli antiscopi, oltre che la rigidità, la pervasività e persistenza degli stessi, possano costituire un nucleo centrale di sofferenza soprattutto in relazione a manifestazioni psicopatologiche come i disturbi di personalità.
Ma… andando per gradi… che definizione potremmo dare alla concezione di goal e antigoal?
Potremmo parlare di entrambi differenziandoli in stato desiderato e stato temuto, come qualcosa, cioè, da raggiungere e da evitare ad ogni costo, all’interno di una rappresentazione individuale in cui questi si strutturano nel tempo e costruiscono il modo in cui la persona si muove nel mondo. Sulla base di ciò, l’obiettivo dello studio era proprio quello di osservare se fosse maggiore l’iperinvestimento degli scopi/antiscopi in un campione clinico rispetto al gruppo di controllo e a quello di psicoterapeuti in formazione, e se l’iperinvestimento si associasse a maggiore disagio e sofferenza. È stato costruito, pertanto, uno strumento ad hoc chiamato Strumento Scopi- Antiscopi (S-AS) in grado proprio di cogliere sia attraverso domande qualitative, che quantitative, oltre che con l’utilizzo di una checklist di emozioni, l’architettura scopistica dell’individuo. Questo strumento vanta la sua costruzione sulla base di una grande pratica clinica, oltre che su un confronto attivo con i colleghi in grado di fornire stimoli e spunti di riflessioni secondo la prospettiva cognitivista. Quello che emerge è che il gruppo clinico, rispetto al gruppo di controllo e quello degli psicoterapeuti in formazione, ottiene punteggi più alti rispetto alla scala del prestigio interpersonale, a quella dell’instabilità psicologica e quella dell’esclusione sociale, del perfezionismo, dell’autosacrificio dell’identità e, infine, della fiducia. Queste considerazioni statistiche supportano la concezione iniziale teorica che fonda le basi dello studio e fornisce delle prime osservazioni sull’importanza di tale strumento all’interno dell’assessment cognitivista. L’utilizzo di tale strumento si rivela fondamentale poiché, se l’assessment è ben fatto e riesce a cogliere le specifiche dell’individuo attraverso la formulazione degli scopi e antiscopi che lo muovono nel rapporto con sé e con il mondo esterno, allora anche la strutturazione del trattamento può diventare mirata e ben focalizzata sulla persona, sui suoi personali significati e rappresentazioni. Un buon trattamento non può esistere se prima non si è fatto un buon assessment. Per questo, ampliare la prospettiva cognitivista di uno strumento come il S-AS può diventare un plus valore sia per i pazienti che per i terapeuti stessi, i quali si troveranno ad accedere in maniera più agevolata al paziente e ai suoi contenuti più profondi, costruendo di conseguenza interventi sia mirati che accurati.

Foto di Ishaan Aggarwal: https://www.pexels.com/it-it/foto/cartina-geografica-bussola-tiro-verticale-mappa-8231152/

Più è accurata la mappa, più è sicuro il viaggio

di Augusta Luana, Bartolo Emmanuela, De Santis Giuseppe, Lavilla Federica (centro clinico Ecopoiesis Reggio Calabria)

Assessment e disturbi di personalità

Il XXI Congresso Nazionale SITCC è stato il teatro, nella sede mediterranea di Bari, di un simposio sull’assessment, con chair il Dott. Andrea Gragnani e la Dott.ssa Donatella Fiore nel ruolo di discussant, ricco di interventi che hanno sintetizzato al meglio gli obiettivi di ricerca e di impegno sociale propri della psicoterapia cognitiva: più è accurata la mappa, più è sicuro il viaggio: assessment e trattamento dei disturbi di personalità.

Già il titolo introduce l’importanza di considerare la valutazione iniziale con il paziente come una guida imprescindibile per il clinico, finalizzata a una migliore gestione dell’intervento terapeutico e orientata a scegliere il miglior trattamento possibile. Per procedura di assessment intendiamo infatti l’operazione di valutazione che ha inizio al momento del primo contatto con il soggetto, e che prosegue durante tutta la durata della terapia (Bara, 2006).

Nella prima relazione, dal titolo “Assessment terapeutico” e drop-out nei pazienti complessi, il Dott. Gaetano Mangiola (Centro Clinico Ecopoiesis, Reggio Calabria) ha indagato l’efficacia di anteporre al trattamento dei pazienti con disturbi di personalità una fase iniziale di assessment standardizzato, in linea con il Therapeutic Model of Assessment TMA (Finn, 1998).

La procedura di assessment dell’Associazione Ecopoiesis prevede un primo colloquio clinico semi-strutturato per analizzare il motivo della visita; due incontri dedicati all’intervista SCID-5-PD, alla somministrazione di una batteria di test (MMPI-2, PID-5, LPFS, SCL-90, TAS-20, ASQ e IIP-47) e all’approfondimento di un questionario anamnestico; un ultimo incontro di restituzione al paziente del suo funzionamento in ottica cognitiva e di una proposta terapeutica.

Ciò che in genere si osserva è che, al termine dell’incontro di restituzione, nel paziente avviene un processo di insight rispetto al proprio funzionamento, con un aumento della fiducia e della motivazione al trattamento che migliorano l’alleanza terapeutica (Sartori, 2010) e favoriscono di conseguenza un outcome migliore.

Partendo da questa ipotesi, il lavoro si è proposto di confrontare i dati relativi al drop-out del campione di 484 soggetti con disturbi di personalità a disposizione del Centro Clinico con quelli presenti in letteratura, ipotizzando che il modo in cui la procedura di assessment è strutturata riduca la percentuale di drop-out dei pazienti complessi.

Effettivamente, i risultati della ricerca hanno mostrato come l’assessment sembri avere un effetto positivo in termini di riduzione del drop-out dei pazienti con disturbi di personalità, in particolare del cluster B, soprattutto con diagnosi di tipo narcisistico e borderline. Inoltre, i pazienti che effettuano una procedura standardizzata di assessment comprensiva di un incontro di restituzione hanno un outcome migliore rispetto ai dati presenti in letteratura, e presentano anche un tasso di drop-out significativamente più basso rispetto ai pazienti che non effettuano una procedura standard di valutazione.

A seguire il Dott. Giuseppe Femia, con l’iper-investimento su scopi e la psicopatologia: quale relazione?, ha presentato lo strumento Scopi-Antiscopi (S-AS, Femia et al., 2021), ancora in fase di validazione, che sembrerebbe essere in grado di indagare scopi e antiscopi dei pazienti.
Dal punto di vista clinico, l’utilizzo dello strumento potrebbe cogliere l’architettura scopistica, agevolando così il lavoro di assessment e offrendo un supporto per lo sviluppo dell’alleanza terapeutica, oltre che per una progettazione mirata dell’intervento.

Cornice teorica alla base dello studio è che la mente degli esseri umani non si limita a credere e sapere, ma crea anche rappresentazioni di ciò che vuole – gli scenari desiderati o scopi – e ciò che non vuole – gli scenari temuti o antiscopi (Saliani et al., 2020). Dunque, la psicopatologia e, più specificamente, i disturbi di personalità, oltre che da caratteristiche di rigidità degli investimenti, pervasività e persistenza che portano allo svilupparsi di un piano esistenziale povero che genera sofferenza e resistenza al cambiamento, sembrano essere propriamente caratterizzati anche da un iperinvestimento in termini di scopi e antiscopi.

Lo studio condotto ha quindi voluto esplorare la struttura fattoriale dello strumento S-AS e la relazione che intercorre tra i diversi fattori del S-AS e i domini della personalità. A tal fine ad un campione di 572 soggetti, suddivisi in tre gruppi: popolazione generale, gruppo clinico e psicoterapeuti in formazione, resi omogenei per età e per genere, è stato somministrato lo strumento S-AS, questionario composto da un elenco di 20 scopi e 20 antiscopi. Inoltre, ipotizzando che il gruppo clinico avesse risultati più elevati rispetto agli altri due gruppi, si è voluto valutare se ci fossero differenze tra i tre gruppi in termini di iperinvestimento (su scopi e antiscopi) e se un maggior iperinvestimento fosse associato ad un aumento dei punteggi in termini di sofferenza e disagio percepiti. Per tale obiettivo, ad un sotto-campione di 327 soggetti è stato chiesto di compilare ulteriormente il PID-5 e la SCL-90-R.

Le analisi fattoriali hanno mostrato una struttura del S-AS a 8 fattori: Prestigio interpersonale, Instabilità psicologica, Esclusione sociale, Perfezionismo, Difettosità, Autosacrificio, Identità e Fiducia. Tali fattori saranno quindi oggetto di approfondimento nelle ricerche future.

I dati ottenuti si sono rivelati efficaci nel supportare il clinico in maniera rapida e al contempo accurata nel processo di assessment e di successiva pianificazione del trattamento, «mappando» quelli che sono i temi di vita e, nello specifico, gli scopi e gli antiscopi iperinvestiti nei pazienti.  Le analisi correlazionali, invece, tra i punteggi del S-AS e dei domini del PID-5 e tra i punteggi del S-AS e della SCL-90-R sembrerebbero confermare le ipotesi iniziali. I risultati ottenuti, ad eccezione del quinto fattore, suggerirebbero, dunque, una relazione tra tratti e domini di personalità maladattivi e iperinvestimento in termini di scopi e antiscopi. Inoltre, sembrerebbe che all’aumentare dell’iperinvestimento in termini di scopi e antiscopi aumenterebbe anche la sofferenza sintomatologica e l’indice di distress generale (Global Severity Index), confermando, di fatto, la relazione tra iperinvestimento e psicopatologia.

Nella terza relazione, dal titolo MMPI-2 e PID-5 a confronto: scale cliniche e funzionamento della personalità mediante un caso clinico, il Dott. Emanuele Del Castello si è proposto l’obiettivo di dimostrare la capacità dell’MMPI-2 di delineare il profilo di funzionamento della personalità tramite l’utilizzo di una lettura sia di tipo clinico-categoriale che di tipo dimensionale.

Esaminando l’MMPI-2 è possibile riscontrare due livelli: il livello statistico attuariale (Scale Cliniche e alcune Scale Supplementari) e il livello di contenuto (Scale di Contenuto, Sottoscale Cliniche e Item Critici). Entrambi i livelli permettono di costruire una rappresentazione complessa e articolata del funzionamento della personalità, essenziale ai fini diagnostici e clinici. Per favorire l’integrazione tra questi due livelli è possibile applicare una tecnica di aggregazione dei dati che viene definita Psicodiagnosi Strutturale (Del Castello, 2015): una metodologia che permette al clinico di far convergere i dati provenienti dai vari strumenti di indagine, clinici e testologici, nelle varie aree del funzionamento mentale del paziente, contribuendo, in tal modo, a costruire un quadro ordinato e pertinente degli aspetti problematici e anche dei punti di forza del paziente in oggetto.

Mediante l’analisi di caso clinico, è stato possibile osservare come, mettendo a confronto i domini emersi nel PID-5 e le Scale PSY-5 dell’MMPI-2, ci sia un pieno grado di accordo e una piena corrispondenza tra le dimensioni del DSM-5 presenti nel PID-5 (Antagonism, Psychoticism, Disinhibition, Negative affectivity e Detachment) con il modello PSY-5 dell’MMPI-2 (Aggressiveness, Psychoticism, Disconstraint, Negative emotionality neuroticism, Introversion/low positive emotion). In tal modo è stato possibile dimostrare come l’MMPI-2 sia perfettamente in grado di valutare clinicamente il funzionamento della personalità secondo i criteri dimensionali previsti dal DSM-5-TR (APA, 2023) e dal modello alternativo sui Disturbi della Personalità (Sezione II del DSM-5-TR).

Nell’ultimo contributo del simposio, dal titolo Il ruolo della noia come emozione cruciale nel funzionamento di alcune dimensioni personologiche, la Dott.ssa Anna Chiara Franquillo ha approfondito la relazione tra la noia e alcuni tratti di personalità, indagando le ricadute di tale associazione sul distress psicologico.

Sulla base dei dati presenti in letteratura sembra infatti che la noia, descritta come uno stato affettivo specifico caratterizzato da diverse componenti tra cui basso arousal, mancanza di attenzione, valenza negativa, una percezione amplificata del tempo e una sensazione di mancanza di scopo esistenziale, correli positivamente con il tratto di personalità del nevroticismo, caratterizzato da ansia, preoccupazione, instabilità emotiva e generale insicurezza (Mercer-Lynn, 2013; Tam et al., 2021) e sia presente in soggetti affetti da Disturbo Borderline di Personalità (DBP) (Masland et al., 2020) e da Disturbo Narcisistico di Personalità (DNP) (Wink and Donahue, 1997).

Sulla base di tali premesse, il lavoro di ricerca si è proposto di approfondire la relazione tra la noia di stato e la psicopatologia generale, ipotizzando che la relazione con la sintomatologia depressiva fosse più forte che con altre condizioni psicopatologiche, e di comprendere la relazione tra la noia e i tratti di personalità, ipotizzando una forte relazione tra questi due costrutti.

Lo studio è stato condotto su un campione di 588 italiani adulti appartenenti ad una popolazione generale, cui sono stati somministrati, tramite una survey online, due strumenti di valutazione: il MSBS per la noia e il PID-5 per la valutazione dei tratti di personalità, in accordo con il modello dimensionale proposto dal DSM-5.

I risultati hanno mostrato un’interessante associazione tra la noia e il distress psicologico, in particolar modo con la depressione, e tra la noia e alcune tendenze personologiche, considerate tratti, come l’affettività negativa e il distacco. In merito a quest’ultimo aspetto, sembra sia proprio la depressione a giocare un ruolo cruciale nel mettere in relazione la noia con tratti di personalità come il nevroticismo e il distacco.

Sulla base di tali osservazioni, seppur riscontrabili all’interno di un campione non clinico, è possibile affermare che la noia sembrerebbe essere un vissuto centrale e trasversale ad alcuni tratti strutturanti la personalità, oltre che a diverse condizioni sintomatologiche che causano sofferenza. Lo studio della noia offre, dunque, interessanti spunti di riflessione clinica sia in termini di assessment che di intervento cognitivo-comportamentale. Esso contribuisce, infatti, ad una più ampia comprensione degli stati mentali problematici e alla costruzione di nuovi modelli di trattamento specifici indirizzati verso la gestione di questa emozione.

Senza alcun dubbio, potrebbe rivelarsi interessante orientare gli sviluppi futuri di tale lavoro verso un’osservazione del costrutto su un campione specificatamente clinico, integrando ulteriori analisi ed eventuali strumenti di valutazione al fine di approfondire la relazione tra le variabili e il loro effetto.

Il simposio preso in esame ha avuto, in conclusione, il merito di confrontare e far comunicare contributi e punti di vista differenti, dimostrando ancora una volta l’importanza di integrare le varie chiavi di lettura volte ad osservare i processi implicati nella valutazione della psicopatologia della personalità, per una sempre più profonda conoscenza e valutazione del funzionamento mentale.

Foto di Amine M’siouri : https://www.pexels.com/it-it/foto/uomo-che-cammina-sul-deserto-2245436/

Misofonia: forte avversione nei confronti della fonte da cui provengono specifici rumori

di Giuseppe Romano

La misofonia è una forma di sofferenza psicologica, riconosciuta solo in tempi molto recenti, che negli ultimi anni ha interessato anche l’ambito clinico.

Molte persone, infatti, riportano una forte avversione nei confronti di suoni quotidiani, specifici, spesso ripetuti, che frequentemente sono generati da esseri umani, ma che possono essere anche prodotti da animali o provenire dall’ambiente.

La sofferenza psicologica sperimentata non riguarda solo un’emozione. In alcuni casi, probabilmente i più frequenti, viene riportata rabbia, in altri ansia talvolta anche disgusto.

Nel mese di dicembre del 2022, sul numero 19 della rivista “Cognitivismo Clinico”, è stata pubblicata una rassegna dei principali studi sul fenomeno della misofonia.

I diversi contributi illustrano lo stato dell’arte  sul tema, dalla definizione del concetto, spesso confuso o sovrapposto ad altre forme di “insofferenza” nei confronti dei suoni o di dolore sperimentato in presenza di un suono, ai metodi e agli strumenti di assessment e di valutazione, fino agli interventi psicoterapeutici esistenti.

E’ possibile scaricare gratuitamente il numero della rivista collegandosi a questo link https://apc.it/cognitivismo-clinico/cognitivismo-clinico/ o cliccando sull’icona in basso.

 

Disgusto e moralità: una relazione complessa

di Olga Luppino

La sensibilità al disgusto è legata a particolari tipologie di esperienze precoci?

Se sei particolarmente sensibile al disgusto e magari anche piuttosto attento a rispettare norme etico-morali per non sentirti in colpa questo breve post potrebbe interessarti e offrirti qualche spunto di riflessione.

Il disgusto si presenta come una delle più complesse tra le emozioni di base. Numerosi contributi di letteratura ne hanno chiarito, negli ultimi anni, domini e funzioni, mettendo in luce attraverso evidenze comportamentali, neurofisiologiche e di neuroimaging, la stretta associazione che intercorre tra il disgusto e la moralità.

In termini evolutivi, oltre a proteggere il corpo fisico dalla contaminazione, il disgusto si sarebbe infatti sviluppato a tal punto da divenire “sentinella morale”, segnale innato a garanzia dell’integrità etico-morale dell’individuo e a salvaguardia della sua appartenenza alla comunità sociale.

Ma come si spiega il link tra disgusto e morale a livello della storia del singolo individuo? L’esposizione a specifiche esperienze gioca forse un ruolo nel determinare una maggiore o minore predisposizione a provare disgusto? E in che modo in questo processo entra in campo la moralità?

Un recente studio condotto nell’ambito dell’attività scientifica della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (APC-SPC) di Roma ha provato a dare un prima risposta a queste domande.

Gli autori, dopo aver reclutato un campione di 60 soggetti non clinici, hanno loro indotto sperimentalmente l’emozione del disgusto mediante l’immedesimazione in uno scenario audioregistrato per poi favorire la rievocazione di memorie precoci disgusto-correlate.

Interessante quanto emerso dalla disamina dei contenuti delle memorie evocate, affidata al lavoro di 10 valutatori indipendenti.

Una maggiore sensibilità all’emozione del disgusto si è mostrata positivamente correlata alla rievocazione di memorie inerenti esperienze precoci dal contenuto morale: più nel dettaglio esperienze in cui da bambini si è stati oggetto di rimprovero, criticismo, rabbia e iper-responsabilizzazione.

Tali esiti, sebbene preliminari, confermano la stretta associazione tra disgusto e moralità e aprono la strada ad ulteriori studi in questa direzione.

Per scaricare l’articolo:

Luppino, O. I., Tenore, K., Mancini, F., Mancini, A. (2023). The Role of Childhood Experiences in the development of Disgust Sensitivity: a preliminary study on early moral memories. Clinical Neuropsychiatry, 20(2), 109-121. doi.org/10.36131/cnfioritieditore20230203

 

La psicologia dei desideri formulati al contrario

di Giuseppe Femia e Isabella Federico

Quando scopi e intenzioni generano fuga, evitamento e non direzione

La nostra psicologia è governata da desideri e scopi che guidano i nostri pensieri e i nostri comportamenti.

Talvolta ci rappresentiamo i desideri in modo alterato, capita di essere molto bravi a descrivere quello che NON vogliamo piuttosto che capire quello di cui veramente abbiamo bisogno, ad esempio non ci diciamo “voglio essere una persona amata” ma “non voglio essere solo”.

Questa forma alterata del desiderio, quando diventa una modalità stabile, una sorta di abitudine cognitiva di formulare i propri bisogni o i propri scopi di vita, genera confusione e frustrazione. Metaforicamente questo clima esistenziale in cui governa “la paura di cadere e non la voglia di volare” potrebbe somigliare ad un tempo supplementare di una lunga e stancante partita durante la quale si gioca in difesa, sperando di non subire un altro goal dell’avversario, piuttosto che in attacco, con la volontà di segnare e portare a casa una vincita con energia. Una lotta contro la sconfitta e non una corsa verso la vittoria.

La psicologia dei desideri formulati al contrario diventa dunque un percorso faticoso, una salita fatta di sacrificio, inibizione, sconforto, ansia, tristezza.

Questo tipo di formulazione anziché rappresentare uno stato desiderato a cui ambire, da raggiungere con soddisfazione, reclama – nella nostra mente – un timore, o un gruppo di paure e diventa quasi uno scenario spaventevole che ci prefiguriamo come anticamera del fallimento.

Questo tipo di atteggiamento mentale, anziché motivarci in modo funzionale verso il raggiungimento dei nostri bisogni, produce una psicologia della paura, genera sofferenza e angoscia.

Spesso in psicopatologia osserviamo una specie di ancoraggio a tematiche specifiche e/o timori specifici con la paura di fallire in domini particolarmente rilevanti per l’architettura mentale, cognitivo/emotiva di ciascun disturbo.

Ad esempio, nel caso della depressione la persona riferisce di NON voler essere triste, di NON voler essere bisognosa, di NON voler essere una persona sola e poco amabile. Alla formulazione negativa sembra corrispondere il quasi contrario in termini di credenza: non voglio essere una persona sola, una persona poco amabile, o disprezzabile dagli altri, triste e isolata, o depressa (come mio padre), corrisponde una credenza in cui la persona si dice “sono una persona poco amabile” con delle regole assolutistiche che generano sofferenza, ad esempio: se mi faccio vedere triste, allora sarò una persona sola e poco amabile”.

Per continuare, ad esempio, nel caso del Disturbo Ossessivo-Compulsivo la persona NON vuole essere colpevole, NON vuole essere irresponsabile, piuttosto che desiderare di essere una persona giusta e una persona responsabile.

In qualche modo, la persona ha nella sua mente ben rappresentato lo scenario temuto, che a sua volta – in un circolo vizioso di mantenimento – aumenta la sofferenza psicologica esperita, che amplia – quasi come una lente d’ingrandimento deformante – la fonte della sofferenza stessa: lo scenario temuto, appunto, dal quale la persona cerca a tutti i costi di fuggire, ma come un’ombra quest’ultimo le rimane attaccato addosso, la insegue senza tregua, appare ingigantito nella sua mente, fino a paralizzarla nel buio della sua stessa ombra.

Similmente, nell’area dei Disturbi di Personalità, ci muoviamo in un campo intriso, da sempre, da teorie motivazionali che ruotano attorno al concetto di bisogni psicologici fondamentali, di cui Dweck (2017) ha proposto un’integrazione all’interno di una teoria unificata della personalità.  Gli scopi o gli antiscopi rivestono un ruolo centrale nella genesi, nel mantenimento e nell’aggravamento della sofferenza psicopatologica, soprattutto quando connotati da iper-investimento (Mancini e Mancini, 2021 in Perdighe e Gragnani (a cura di), 2021).

Prendiamo, ad esempio, il Disturbo Borderline di Personalità (DBP): chi soffre di tale disturbo si rappresenta uno scenario temuto di tipo abbandonico in modo totalizzante, anticipando con la mente la catastrofe paventata. NON voglio essere abbandonato/a diventa il focus centrale da cui conseguono gli sforzi incessanti per evitare l’abbandono: più che remare verso uno scenario desiderato, sono intenti a remare contro una corrente che vorticosamente li risucchia: l’abbandono viene letto come una conferma della propria indegnità, dell’essere “sbagliati”, “dei vasi rotti da lasciare nel retro bottega”. E quanto più la corrente è forte – vale a dire quanto maggiore è la valenza/l’importanza attribuita all’antiscopo del non voler essere abbandonati – tanto più si rafforzano le credenze psicopatologiche nucleari di non essere degni di amore e di vivere una vita degna di essere vissuta (macro-goal quest’ultimo da costruire nella terapia con pazienti con DBP).

Nel disturbo narcisistico di personalità, anche nelle forme più grandiose, sembrerebbe nascondersi un nucleo di inadeguatezza/vergogna e un timore di NON essere mai all’altezza, NON essere mai abbastanza speciali, NON essere mai abbastanza di valore. Per cui, in alcuni casi – specialmente nei quadri più vulnerabili (“covert”) – lo scenario temuto, da fuggire a tutti i costi, viene spesso riferito con un NON davanti: NON voglio essere inferiore rispetto agli altri, NON voglio deludere le aspettative ed essere, per questo, umiliato. Da qui le continue oscillazioni relative all’autostima e all’idea di Sè, la compromissione dei domini interpersonali – di empatia e intimità -, la competizione (sottile o manifesta) che annusano nell’aria, in un continuo confronto tanto con gli altri quanto con se stessi.

La psicologia dei desideri formulati al contrario, dunque, sembrerebbe presentare un meccanismo simile a quello delle sabbie mobili: tanto più la persona cerca di dimenarsi disperatamente per evitare di essere sommerso, tanto più vi affonda.

Forse il compito della psicoterapia è proprio quello di aiutare la persona ad “uscire dalle sabbie mobili” e di spronarla a muoversi guidata dal raggiungimento di desideri o meglio da scopi raggiungibili, perseguibili e che possano promuovere un piano di vita più ampio, appagante e maggiormente flessibile.

Riferimenti bibliografici

Capo R., Mancini F. (2008). Scopi terminali, temi di vita e psicopatologia. In Perdighe C, Mancini F. (eds) Elementi di psicoterapia cognitiva, pp.39-67. Roma, Giovanni Fioriti Editore.

Castelfranchi C., Miceli M. (2002). Architettura della mente: scopi, conoscenze e la loro dinamica. In Castelfranchi C., Mancini F., Miceli M. (eds) Fondamenti di cognitivismo clinico, pp.45-62. Torino, Bollati Boringhieri.

Dweck, C.S. (2017). “From needs to goals and representations: Foundations for a unified theory of motivation, personality, and development”. In Psychological Review, 124, pp. 689-719.

Johnson-Laird P.N., Mancini F., Gangemi A. (2006). A hyper-emotion theory of psychological illnesse. In: Psychological Review 113, No. 4, 822–841, 113 (4), pp. 822–841.

Lorenzini R. (2013). Tribolazioni 05- Gli Antigoal. In Lorenzini R. Tribolazioni (monografia a cura di), State of Mind, id 29681, aprile 2013

Lorenzini R. (2016). Prevenire o promuovere? E le conseguenze per gli scopi esistenziali. In Lorenzini R. Ciottoli di psicopatologia generale (rubrica), State of Mind, id 117470, gennaio 2016.

Mancini F., Gangemi A. e Giacomantonio M. (2021). Il cognitivismo clinico e la psicopatologia. In Perdighe C. e Gragnani A. (eds) Psicoterapia Cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore.

Mancini F., Perdighe C. (2012); Perché si soffre? 
iIl ruolo della non accettazione nella genesi e nel mantenimento della sofferenza emotive. Cognitivismo Clinico (2012) 9, 2, 95-115

Mancini F., Romano G. (2014). Bambini che mangiano poco, bambini che mangiano troppo: il trattamento CBT per i disturbi alimentari in età evolutiva. Relazione presentata al convegno “Cibo, corpo e psiche. I disturbi dell’alimentazione”. Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR, Roma.

Mancini, F. (2016) (ed). La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo. Raffaello Cortina Editore.

Mancini, F., Mancini, A., (2021) Il ruolo degli scopi nei disturbi di personalità. In Perdighe, C. e Gragnani, A. (a cura di) (2021). Psicoterapia Cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore (ISBN 978-88-3285-322-3), pp. 833-874.

Paglieri F., Castelfranchi C. (2008). Decidere il futuro: scelta intertemporale e teoria degli scopi. Giornale italiano di psicologia / a. XXXV, n. 4, dicembre 2008, 739-771.

Perdighe, C. e Gragnani, A. (a cura di) (2021). Psicoterapia Cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore (ISBN 978-88-3285-322-3).

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Perdita perinatale, l’attenzione necessaria

di Laura Lippolis

L’esperienza clinica registra come la perdita di un bambino per un aborto spontaneo o per una morte neonatale sia un evento ad alto gradiente traumatico

Il lutto è una tra le più dolorose esperienze che si possano sperimentare, in quanto costringe inevitabilmente l’individuo a confrontarsi con la perdita irrimediabile di una persona con cui aveva intessuto un legame di attaccamento. Perdere un figlio, un partner, un amico, un genitore o in generale una persona cara, rappresenta un evento di vita che pone l’individuo in una condizione di intenso stress e profondo dolore emotivo. La morte, purtroppo, è una esperienza naturale che la vita stessa ci porta a conoscere. Elaborare la morte di una persona cara è la capacità di riuscire a sopra-vivere, a continuare a vivere nonostante la perdita irrimediabile, a interpretare il terribile evento come un fatto inevitabile, ineludibile, diremmo “normale”. È sicuramente normale, seppur doloroso, assistere alla morte di un genitore, di una persona avanti negli anni… Ma chiedere a un genitore di sopravvivere alla morte di un figlio e specificatamente, proprio durante una esperienza fisiologicamente preposta a dare la vita, appare come un atroce paradosso. Il desiderio di dare alla luce un figlio attraverso una esperienza di gravidanza, spesso può incappare in un vissuto di perdita sia della vita stessa di quel figlio, sia del progetto genitoriale quale investimento su quel figlio. In questo caso gli eventi morte e vita si incrociano: si perde la vita mentre si è impegnati a generare la vita e mentre si compiono atti e sviluppi (si pensi ai cambiamenti che avvengono nel corpo e nella psiche della donna) evoluzionisticamente pensati per prepararsi ad accogliere la vita. Le cause legate all’esperienze di lutto peri-natale posso essere diverse (interruzioni spontanee, volontarie, terapeutiche, morte prematura del feto, diagnosi infausta di terminalità fetale, malformazioni invalidanti, ecc.).  Per molto tempo la società ha minimizzato il dolore della perdita di una gravidanza che è una tra le più dolorose tra le esperienze di lutto. Frasi rassicuranti, ma estremamente invalidanti, del tipo “Bisogna farsene una ragione…” oppure “Avrete presto altri figli, non pensateci più…” sono i consigli che a volte vengono forniti alle coppie che hanno subìto una perdita perinatale e che possono provenire da circuiti domestici, ma anche da ambienti sanitari che risultano a volte impreparati davanti all’evento. La ricerca ha dimostrato come le donne che nella propria storia di vita hanno subìto una perdita in gravidanza soffrano di un livello di stress psicologico più alto rispetto alle donne che non hanno mai subìto una perdita perinatale, con stati mentali caratterizzati da sentimenti di colpa, senso di ingiustizia, percezione di inefficacia del proprio corpo, invidia per gli altri, perdita di speranza e di aspettative riguardo al futuro. L’esperienza clinica registra come la perdita di un bambino a causa di un aborto spontaneo o per morte neonatale sia un evento ad alto gradiente traumatico, ma nonostante questo, attualmente si osserva una marcata carenza di studi controllati randomizzati in questo campo di ricerca. Questa falla rende difficile un adeguato supporto per un tipo di dolore che non differisce da comuni esperienza di perdita e che ha gli stessi rischi di sviluppare lutti complicati, con in più la possibilità di ricadute sul rapporto con gli altri figli, le gravidanze e i figli che verranno. Infatti,  si è osservato come  il lutto da perdita perinatale possa  minare la genuinità delle prime relazioni di attaccamento tra caregivers e figlio  durante le future gravidanze (mediate dai comuni  gesti di accarezzare la pancia, parlare dolcemente al figlio in grembo, raccontargli delle storie, ecc.) in quanto i genitori possono sperimentare in maniera più intensa ansie e preoccupazioni, entrare in evitamento emotivo, mostrare distacco e freddezza verso il feto, sovrainvestendo nello scopo di non esporsi nuovamente al doloroso rischio di perdita. Si può ben intuire come, nei casi in cui ciò avvenisse, questi comportamenti di evitamento potrebbero rappresentare un importante fattore di rischio per la costruzione dei legami di attaccamento con i figli futuri. Quando invece non sono presenti figli precedenti o ci sono state in passato perdite perinatali, alcuni studi mostrano come l’esperienza abortiva sia associata ad un rischio più alto di ricadute o insorgenza di episodi depressivi. Questi accenni sopra descritti assieme a una considerabile letteratura in merito all’argomento ci interrogano, come clinici, in merito al bisogno di ricerca, prevenzione e terapia.

 

Per approfondimenti

Forrest, G. C., Standish, E., & Baum, J. D. (1982). Support after perinatal death: a study of support and counselling after perinatal bereavement. Br Med J (Clin Res Ed), 285(6353), 1475-1479.Friedman, T., & Gath, D. (1989). The psychiatric consequences of spontaneous abortion. The British Journal of Psychiatry, 155(6), 810-813.

Burden, C., Bradley, S., Storey, C., Ellis, A., Heazell, A. E., Downe, S., … & Siassakos, D. (2016).

From grief, guilt pain and stigma to hope and pride–a systematic review and meta-analysis of mixed-method research of the psychosocial impact of stillbirth. BMC pregnancy and childbirth, 16(1), 1-12.

Michon, B., Balkou, S., Hivon, R., & Cyr, C. (2003). Death of a child: parental perception of grief  intensity–end-of-life and bereavement care. Paediatrics & child health, 8(6), 363-366.Kersting, A., & Wagner, B. (2012). Complicated grief after perinatal loss. Dialogues in clinical 34 neurosciences, 14(2), 187.

 

Foto di Liza Summer:
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