Novità sulla ristrutturazione cognitiva

di Andrea Paulis

Cosa avviene a livello cerebrale durante il questioning socratico?

Come è ben noto, le credenze negative su di sé, hanno un ruolo centrale in molti disturbi psicopatologici e la loro flessibilità è ritenuta un fattore predittivo degli outcome nella Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT). Tuttavia sono ancora poco noti i meccanismi neurobiologici e le aree cerebrali implicate nella ristrutturazione cognitiva di questo tipo di credenze.

Grazie a diverse ricerche in ambito psicologico, condotte con l’ausilio della risonanza magnetica funzionale (fMRI), si è notato che il Default Mode Network (DMN) – un circuito di aree cerebrali, composto principalmente da: corteccia cingolata posteriore, PCC; corteccia prefrontale mediale, mPFC; lobulo parietale inferiore, IPL – supporta una serie di processi mentali come l’autovalutazione negativa, il pensiero autoreferenziale, il monitoraggio dell’ambiente esterno, del corpo e dello stato emotivo.

Risulta quindi interessante stabilirne l’implicazione nel processo di ristrutturazione cognitiva; a tal proposito, il lavoro dello studioso statunitense Matthew L. Dixon ed altri colleghi, condotto su pazienti con disturbo da ansia sociale, ha permesso di rilevare una significativa attivazione del DMN quando i soggetti attuavano una reinterpretazione delle loro convinzioni negative sul sé anziché praticarne l’accettazione.

La letteratura più recente suggerisce che la rivalutazione delle convinzioni su di sé e l’apprendimento di nuove rappresentazioni (fattori fondamentali nella ristrutturazione cognitiva) possano dipendere dall’attività coordinata delle già citate reti corticali e del talamo dorsomediale (MD).

Al fine di chiarire il ruolo del MD, nel recente studio di Trevor Steward e colleghi, sono stati reclutati 42 soggetti che si sono sottoposti a risonanza magnetica funzionale 7-Tesla ad altissima risoluzione (UHF-7-T-fMRI), durante un questioning socratico mirato a ristrutturare cognitivamente le convinzioni negative su di sé.

I risultati mostrano come la ristrutturazione cognitiva sia correlata non solo all’attivazione corticale ma anche subcorticale di specifiche aree. Nel dettaglio, si nota come il questioning abbia stimolato l’attivazione del circuito fronto-striato-talamico, in particolar modo l’area subcorticale del MD, e della mPFC. Secondo gli studiosi sarebbe proprio il MD a svolgere un ruolo chiave, stimolando l’attività in ulteriori regioni corticali durante i processi di ordine superiore e trasmettendo informazioni sulle rappresentazioni rilevanti per il contesto alle regioni subcorticali.

Infine, è stata osservata una relazione tra la connettività mPFC-MD e le differenze individuali nella tendenza ad attuare ripetitivi processi di pensiero negativo: sembrerebbe che gli individui che presentano una eccessiva attivazione di questo “percorso neurale”, durante il questioning, siano meno disposti a riformulare cognitivamente le proprie convinzioni negative disfunzionali mostrandosi maggiormente inclini a elicitare pensieri negativi ripetitivi e rimuginio. Ciò suggerisce che particolari aree del MD possano rappresentare un eventuale target di stimolazione nel trattamento di diversi disturbi psicopatologici mediante l’uso di tecniche di neuromodulazione.

Tutte queste evidenze, pur lasciando ancora molti interrogativi, portano a ipotizzare che sono diverse le aree coinvolte in un compito di rivalutazione cognitiva e che il MD ne sincronizzi l’attività, consentendo così la produzione di autorappresentazioni complesse fondamentali affinché avvenga una ristrutturazione cognitiva delle credenze negative sul sé.

Per approfondimenti

Cash, R. F., Weigand, A., Zalesky, A., Siddiqi, S. H., Downar, J., Fitzgerald, P. B., & Fox, M. D. (2021). Using brain imaging to improve spatial targeting of transcranial magnetic stimulation for depression. Biological Psychiatry, 90(10), 689-700.

Davey, C. G., & Harrison, B. J. (2018). The brain’s center of gravity: how the default mode network helps us to understand the self. World Psychiatry, 17(3), 278.

Dixon, M. L., Moodie, C. A., Goldin, P. R., Farb, N., Heimberg, R. G., & Gross, J. J. (2020). Emotion regulation in social anxiety disorder: reappraisal and acceptance of negative self-beliefs. Biological Psychiatry: Cognitive Neuroscience and Neuroimaging, 5(1), 119-129.

Pergola, G., Danet, L., Pitel, A. L., Carlesimo, G. A., Segobin, S., Pariente, J., … & Barbeau, E. J. (2018). The regulatory role of the human mediodorsal thalamus. Trends in cognitive sciences, 22(11), 1011-1025.

Steward, T., Kung, P. H., Davey, C. G., Moffat, B. A., Glarin, R. K., Jamieson, A. J., … & Harrison, B. J. (2022). A thalamo-centric neural signature for restructuring negative self-beliefs. Molecular Psychiatry, 1-7.

Perché la Mindfulness è così speciale?

di Antea D’Andrea

Non è la panacea di tutti i mali ma, come dimostrato dalle neuroscienze, ha effetti positivi nell’interazione delle reti neuronali

Si sente spesso parlare di Mindfulness, termine usato e abusato in diversi campi dell’esperienza. Se da un lato la diffusione di questo concetto risulta assolutamente positiva e necessaria, dall’altro l’abuso rischia di banalizzarne i principi e l’utilità. La Mindfulness, infatti, ad oggi appare come la panacea di tutti i mali, come il “nero sta bene con tutto”, ma proprio come il nero poi rischia di venire a noia. Allora – si chiederanno in molti e a giusta ragione – perché scrivere della Mindfulness?

Anche gli studi scientifici seguono le mode, diciamoci la verità, e attualmente è una pratica di tendenza anche nelle neuroscienze: abbiamo avuto il periodo dei disturbi dell’apprendimento, poi quello delle correlazioni tra autismo e vaccini e adesso è il turno della Mindfulness. Le neuroscienze sono un po’ come Picasso!

Se da un lato risulta di tendenza perché ha rivoluzionato la terapia cognitiva costituendo, insieme ad altre, quella che viene definita “terapia cognitiva di terza ondata”, dall’altro gli studi neuroscientifici e, in particolare, quelli sulle reti neurali hanno evidenziato la sua efficacia nella modificazione non solo del comportamento nella vita quotidiana, ma anche delle caratteristiche funzionali e strutturali del sistema nervoso centrale.

Partiamo dal principio. La meditazione Mindfulness affonda le sue radici nell’antica tradizione meditativa buddista. Secondo la teoretica filosofica buddista, la Mindfulness rappresenta un concetto che può essere strutturato come un “tener presente” o una “non distrazione” e rappresenta un esercizio integrato in cui sono coinvolte numerose abilità cognitive e motorie che generano comportamenti orientati verso l’etica. Con l’ascesa dei moderni interventi basati sulla Mindfulness, il significato è stato ampiamente dibattuto, assumendo un aspetto più sfaccettato e multidimensionale rispetto a quello tradizionale e così, come la definisce il professore newyorkese Kabat-Zinn, la Mindfulness rappresenta la consapevolezza che nasce nel momento in cui si focalizza l’attenzione sul momento presente, in maniera curiosa e non giudicante.

Fin qui tutto nella norma: da secoli si sa che la meditazione, così come altre forme di promozione di capacità autoriflessive, giovi ai più (per lo meno a chi ha la pazienza di imparare a praticarla senza farsi assalire dai propri pensieri, dalla rabbia e dal senso del ridicolo). Allora cosa rende la Mindfulness così speciale?
La ricerca scientifica e i nuovi paradigmi utilizzati nelle neuroscienze cognitive, affettive e sociali hanno identificato alcuni correlati neurologici e fisiologici di questa pratica meditativa, conducendo alla comprensione di come la neuroplasticità sia influenzata e indotta da cambiamenti correlati all’esperienza. In questa cornice teorica, grande rilevanza ha avuto lo studio delle reti neurali, quindi l’importanza delle interazioni locali e globali tra le aree cerebrali, configurandosi ad oggi come il maggior interesse delle scienze che studiano la consapevolezza e la meditazione.

Attualmente sono state evidenziate tre reti cerebrali fondamentali nel coordinamento cognitivo e nell’elaborazione affettiva e interpersonale: la Central Executive Network (CEN), rappresentata da un circuito fronto-parietale, la Default Mode Network (DMN), rete che coinvolge l’attivazione di numerose regioni corticali e sottocorticali e la Salience Network (SN) che coinvolge sistemi frontali e cingolati.
È stato dimostrato che, se praticata regolarmente, la Mindfulness comporta una ridotta attività della Default Mode Network (DMM), rete deputata a processi di richiamo delle memorie, alla regolazione emotiva e, più nello specifico, dedita a processi di pensiero autoriflessivi e al mind wandering e a un aumento dello spessore corticale di aree come le cortecce prefrontali e l’insula; aree tipicamente associate a processi sensoriali, enterocettivi e attentivi.

Inoltre, l’aumento dello spessore di queste aree, correlato con l’esperienza meditativa e quindi maggiormente evidenziato in soggetti più anziani, sembra suggerire che la meditazione potrebbe rallentare i processi di assottigliamento corticale correlati all’invecchiamento.
Diversi studi di neuroimmagine hanno sottolineato cambiamenti indotti dalla meditazione, sia a lungo che a breve termine, non solo a livello strutturale ma anche a livello funzionale; è interessante notare come la maggior parte dei modelli evidence-based della psicopatologia sottolineano che siano proprio le alterazioni nelle interazioni tra i diversi network cerebrali a sottendere differenti stati psicopatologici.

L’influenza positiva della Mindfulness sulla modificazione delle dinamiche di interazione tra i network, e all’interno di uno stesso network, che risultano alterate dai più svariati processi, di cui l’invecchiamento e le condizioni psicopatologiche rappresentano solo un esempio, rappresenta il principale vantaggio e il maggior meccanismo funzionale che sottende questa pratica.
Tuttavia, sebbene molto potente, la Mindfulness non è la panacea di tutti i mali e non sta bene con tutto come il nero. È opportuno un uso consapevole di questa pratica per non banalizzare e invalidare il grande lavoro di direttore d’orchestra che questa svolge sul coordinamento delle nostre reti neurali e sulla sincronizzazione dell’attività delle diverse aree cerebrali.

Per approfondimenti

Thompson, E. Looping Effects and the Cognitive Science of Mindfulness Meditation. 2017. Oxford University Press, New York
Dunne, J.D. Buddhist styles of mindfulness: a heuristic approach. In: Ostafin, B., Robinson, M., Meier, B. (Eds.), Handbook of Mindfulness and Self-Regulation. 2015.  Springer pp. 251–270
Sharf, R.. Mindfulness and mindlessness in early chan. Philos. East West. 2014. 64, 933–964
Kabat-Zinn, J. An outpatient program in behavioral medicine for chronic pain patients based on the practice of mindfulness meditation: theoretical considerations and preliminary results. Gen. Hosp. Psychiatry. 1982. 4, 33–47
Lutz, A., Dunne, J.D., Davidson, R.J. Meditation and the neuroscience of consciousness. In: Zelazo, P., Moscovitch, M., Thompson, E. (Eds.), Cambridge Handbook of Consciousness. Cambridge University Press, 2007. pp. 499–555
LutzA., Jha, A.P. ,Dunne, J.D.,Saron, C.D. Investigating the phenomenological matrix of mindfulness-related practices from a neurocognitive perspective. Am. Psychol. 2015. 70, 632–658.
Malinowski, P. Neural mechanisms of attentional control in mindfulness meditation. Front. Neurosci. 2013. 7, 8
Raffone, A., Srinivasan, N. Mindfulness and cognitive functions: toward a unifying neurocognitive framework. Mindfulness. 2017. 8, 1–9
Garrison, K.A., Zeffiro, T.A., Scheinost, D., Todd Constable, R., Brewer, J.A. Meditation leads to reduced default mode network activity beyond an active task. Cogn. Affect. Behav. Neurosci. 2015. 15, 712–720
Fox, K.C., Nijeboer, S., Dixon, M.L., et al. Is meditation associated with altered brain structure? A systematic review and meta-analysis of morphometric neuroimaging in meditation practitioners. Neurosci. Biobehav. 2014. Rev. 43, 48–73
Fox, K.C., Dixon, M.L., Nijeboer, S., et al. Functional neuroanatomy of meditation: a review and meta-analysis of 78 functional neuroimaging investigations. Neurosci. Biobehav. Rev. 2016. 65, 208–228
Lazar, S.W., Kerr, C.E., Wasserman, R.H., et al. Meditation experience is associated with increased cortical thickness. Neuroreport 2005. 16, 1893–1897.

Mindfulness all’epoca del Covid-19

di Barbara Paoli

L’autocontrollo come fattore resiliente

Con il termine “autocontrollo” ci si riferisce, in generale, alla facoltà di regolare comportamenti, pensieri ed emozioni e, più in particolare, alla capacità di frenare gli impulsi e ad adottare comportamenti indesiderati o potenzialmente dannosi e disadattativi.
La pandemia di Coronavirus sta causando migliaia di morti in tutto mondo. Ricerche attuali suggeriscono che la gravità della diffusione del Covid-19 percepita dagli individui è correlata a una serie di reazioni emotive e comportamentali negative.

Nonostante le scarse ricerche attuali, sono stati esaminati i meccanismi sottostanti la percezione di malattia attingendo al modello di rischio-resilienza. Uno studio, in particolare, propone l’autocontrollo come fattore resiliente, che potrebbe moderare l’associazione tra gravità percepita del Covid-19 e problemi di salute mentale. I dati emersi da un sondaggio nazionale cinese, condotto a febbraio scorso su un campione di 4607 partecipanti, sono stati utilizzati per esaminare questa possibilità. I risultati hanno mostrato, dopo aver controllato le variabili demografiche, che la gravità percepita del Covid-19 e l’autocontrollo erano rispettivamente positivamente e negativamente correlati a problemi di salute mentale. Si deduce che l’autocontrollo modera la gravità percepita dell’associazione Covid-19 con problemi di salute mentale. Questi risultati suggeriscono che rispetto a chi ha un alto autocontrollo, gli individui con basso autocontrollo sono più vulnerabili e hanno più bisogno di aiuti psicologici per mantenere la salute mentale durante la pandemia di Covid-19. Questo recente studio mette in evidenza un processo cognitivo importante che sembrerebbe fungere da fattore resiliente in questo periodo storico drammatico: le teorie sull’autocontrollo si focalizzino su elementi e dinamiche diverse, ma sembrano accomunate da ciò che è stato definito come “assunto dell’opposizione”. Il modello chiarificatore di fondo, infatti, rimanda all’idea di un sistema ponderato che oscilla in funzione dei pesi gravanti sulle sue estremità: da un lato si potrebbe situare il sistema affettivo/impulsivo, teso alla gratificazione immediata e all’azione motivata dalle spinte viscerali e dalla reattività emotiva; dall’altro lato graverebbe un sistema cognitivo e razionale che, in sinergia con le altre funzioni esecutive come l’attenzione, la flessibilità cognitiva, la pianificazione e la memoria di lavoro, medierebbe l’effettivo autocontrollo e renderebbe possibile il raggiungimento degli obiettivi a lungo termine pianificati.
Questo modello esplicativo generale rimanda, peraltro, a diversi aspetti della teoria del prospetto formulata dal premio Nobel Daniel Kahneman, in cui vengono immaginati due sistemi decisionali e di pensiero concorrenti: il Sistema 1, che determina le azioni impulsive e automatiche e il sistema 2, che media le funzioni di valutazione, riflessione, le dimensioni razionali e decisionali. Il Sistema 2 è tuttavia lento, consapevole, molto dispendioso da avviare e mantenere attivo, specialmente in situazioni stressanti.

Gli studi di neuroimmagine suggeriscono un supporto neuroscientifico a quanto detto. In particolare è stato osservato che l’attivazione delle aree prefrontali laterali (sistema razionale/decisionale) correla con la disattivazione funzionale delle aree limbiche (sistema affettivo/impulsivo) e che questa relazione opposizionale si manifesta durante l’esercizio dell’autocontrollo, nell’inibizione di un impulso. Sono dunque utili a migliorare l’autocontrollo tutti gli esercizi e le pratiche che tendono ad attivare e a irrobustire i sistemi cerebrali al centro dei processi cognitivi, volontari e consapevoli, come i training per l’attenzione sostenuta, per i controlli inibitori verso risposte apprese o automatiche e così via. Allo stesso modo sono utili gli esercizi e le pratiche in grado di disattivare i processi emotivi, automatici e impulsivi, come ad esempio l’osservazione consapevole e non giudicante delle emozioni, dei desideri, il decentramento e la defusione dalle emozioni mediata dai training mindfulness.
Il termine inglese “mindfulness” è stato scelto per tradurre “pali” (la lingua indiana delle prime scritture buddiste) e “sati” (consapevolezza, attenzione, ricordo). Si tratta di un training mentale a tre componenti: autoregolazione dell’attenzione (mantenuta sull’esperienza immediata); orientamento attitudinale (curiosità, apertura, accettazione); intenzione, controllo volontario costantemente “ricordato” e con cui si riporta l’attenzione sull’oggetto prescelto ogni volta che interviene una distrazione. Esercitando questi stati e questi processi mentali, la pratica della mindfulness svilupperebbe così le capacità di autoregolazione, di attenzione e la metacognizione, cioè la consapevolezza dei contenuti di coscienza, addestrando peraltro a osservarli in modo non giudicante, senza coinvolgimento. La possibilità di usare l’attenzione per intercettare e riconoscere i processi mentali è la precondizione del controllo del comportamento e la regolazione delle emozioni e dell’impulsività. In questo senso, si potrebbe dire che la mindfulness può allenare la capacità di rispondere agli stimoli in modo riflessivo piuttosto che riflesso.

È stato osservato che la mindfulness, essendo una pratica che interrompe gli automatismi, aiuta ad abbassare i livelli di attivazione fisiologica e dei sintomi somatici. Produce l’attivazione del sistema nervoso parasimpatico, che aiuta la persona a rilassarsi, anche più delle tecniche di rilassamento tradizionale. Le evidenze suggeriscono che la mindfulness è associata a una maggiore flessibilità comportamentale e che ciò si ripercuote positivamente sulla salute, particolarmente importante in un periodo storico come quello odierno.

Per approfondimenti:

Berkmann, E.T. (2018) The neuroscience of self-control, in The Routledge International Handbook of Self-Control inHealth and Well-Being Concepts, Theories, and Central Issues. A cura di Denise de Ridder, Marieke Adriaanse, Kentaro Fujita Routledge, New York, 2018, pp. 112-126.
Castelfranchi, C. (2000) Affective Appraisal vs Cognitive Evaluation in Social Emotions and Interactions. In A. Paiva (ed.) Affective Interactions. Towards a New Generation of Computer Interfaces. Heidelbergh, Springer, LNAI 1814, 76-106.
Kahneman D. (2011). Thinking, Fast and Slow. New York.
Chiesa, A. and Serretti, A. Are mindfulness-based interventions effective for substance use disorders? A systematic review of the evidence. Subst. Use Misuse. 2014; 49: 492–512.

 

Neurogenesi e “pattern separation”

di Sonia di Munno

Una neurogenesi disregolata può favorire disturbi neuropsichiatrici come la depressione o l’ansia e influenzare la capacità di distinguere stimoli differenti, incrementando il malessere psicologico

La neurogenesi è il processo che induce la formazione di nuovi neuroni funzionali. Inizialmente si pensava che questo potesse accadere solo durante le fasi di embriogenesi e le fasi perinatali dello sviluppo del sistema nervoso; invece, negli ultimi due decenni, la ricerca ha stabilito fermamente che vi sia una nascita di nuovi neuroni anche nell’adulto in due zone germinali: il giro dentato dell’ippocampo e la zona subventricolare dei ventricoli laterali. I neuroni generati negli adulti formano connessioni sinaptiche e vengono integrati nel circuito. Negli esseri umani si stima che ci siano circa 700 nuovi neuroni che vengono aggiunti nel giro dell’ippocampo ogni giorno, che vanno a sostituire circa il 30% di tutta la struttura durante tutta la vita. Questi dati indicano che il numero dei nuovi neuroni incorporati nel circuito dell’ippocampo del cervello siano abbastanza numerosi da influenzare la funzione dell’ippocampo; inoltre, questi partecipano alla modulazione e al miglioramento di tutto il circuito neuronale, che riguarda sia la fisiologia regionale che la connettività funzionale di regioni cerebrali più distanti, come la corteccia prefrontale, l’amigdala e altre strutture all’interno del sistema limbico.
Diversi studi hanno dimostrato che una neurogenesi disregolata possa contribuire al manifestarsi di disturbi neuropsichiatrici come il Disturbo depressivo maggiore e l’ansia. La neurogenesi nell’ippocampo può essere ridotta sia da stress acuti sia cronici o da un isolamento sociale: il che porterebbe a fenotipi depressivi e ansiosi mentre, al contrario, interventi terapeutici che promuovono il benessere psichico stimolano la neurogenesi nell’ippocampo.
La neurogenesi dell’ippocampo è implicata in una varietà di processi mentali come la memoria, la memoria spaziale, la codifica di nuove informazioni e le funzioni esecutive. Infatti, pazienti con depressione maggiore presentano costantemente problemi nella memoria a lungo termine, nella memoria di lavoro (pregiudizio emotivo negativo) e nella funzione esecutiva (risoluzione dei problemi, controllo dell’attenzione, pianificazione e inibizione cognitiva).
Un nuovo modello sostiene che la diminuzione della neurogenesi influenzi anche una funzione dipendente dall’ippocampo di “pattern separation” (discriminazione degli stimoli) e come questo processo deficitario poi selezioni, di fronte a stimoli ambigui, le risposte che siano più familiari, stereotipate o automatiche. Questa funzione, se non deficitaria, permetterebbe di discriminare e memorizzare target simili ma non identici ed elaborarli come informazioni sensoriali con rappresentazioni distinte. Negli studi con soggetti depressi in compiti sperimentali che richiedono una forte discriminazione sensoriale degli stimoli è stata riscontrata un’ipoattivazione del giro dentato dell’ippocampo con prestazioni deficitarie nell’abilità del “pattern separation” della corteccia frontale. Ciò spiegherebbe alcuni dei fenomeni osservati in pazienti con disturbo depressivo maggiore, in quanto confonderebbero degli stimoli simili rispondendo come se fossero identici (rispondendo con tristezza sia a eventi negativi che ambigui), selezionando una risposta che incrementa il malessere psicologico. Questa incapacità sensoriale di discriminare le informazioni porterebbe a una minore flessibilità psicologica, abilità stimolata dall’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), il cui fulcro sta nel selezionare consapevolmente le risposte comportamentali in base ai valori scelti piuttosto che a pensieri e azioni stereotipate familiari (es. abitudini disadattive), che forniscono sollievo a breve termine ma sviluppano maggiori problematicità nel lungo termine.

Per approfondimenti:

Kellen Gandy, Sohye, Carla Sharp, Lilian Dindo, Mirjana Maletic-Savatic and Chadi Calarge; Pattern Separation: A Potential Marker of Impaired Hippocampal Adult Neurogenesis in Major Depressive Disorder, 2017; HYPOTHESIS AND THEORY; doi: 10.3389/fnins.2017.00571

Prevenire l’ideazione suicidaria

di Niccolò Varrucciu

 La stimolazione cerebrale come nuovo trattamento per intervenire sui rischi del disturbo depressivo

Il tasso di prevalenza lifetime del disturbo depressivo si aggira intorno al 16%; fra i sintomi principali si annovera purtroppo l’ideazione suicidaria. In questa popolazione (depressione maggiore o disturbo bipolare) il tasso di suicidio varia fra il 15% e il 20%, rappresentando un pericolo tutt’altro che infrequente.
Il suicidio è la dodicesima causa di morte nel mondo, con cifre che si aggirano intorno alle 800.000 persone annue. È fra le tre principali cause di morte tra i 15 e i 44 anni, insieme agli incidenti stradali e alle malattie cardiovascolari.
Secondo l’Organizzazione Mondiale di Sanità, questi numeri sono destinati a crescere in modo drammatico, con una previsione di 1,5 milioni di suicidi entro il 2020.
Questi numeri, di grande impatto, possono aiutare a capire la gravità del fenomeno.
Fink e Kellner hanno sostenuto il ruolo della terapia elettroconvulsivante (ECT) nei pazienti con disturbi dell’umore e ideazione suicidaria.
Altre ricerche hanno evidenziato il ruolo del litio nella riduzione del rischio di suicidio in pazienti con disturbi dell’umore. Tuttavia, entrambi i trattamenti sono associati a effetti collaterali significativi, come amnesia anterograda e problemi renali. Alcuni risultati sono stati ottenuti con trattamenti sperimentali, come quelli con ketamina. Tuttavia, dato che il numero di suicidi a livello mondiale rimane superiore a 800.000 all’anno e che il suicidio è la seconda causa di morte nelle persone di età compresa tra 15 e 29 anni, è estremamente necessario trovare opzioni rapide per il trattamento del suicidio che affianchino le psico-farmaco-terapie che nel tempo hanno trattato questa annosa problematica.
Da alcuni anni, nel trattamento delle psicopatologie si sta affacciando la stimolazione cerebrale, in molti casi con buoni risultati.
La stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS) è un trattamento basato sull’evidenza per pazienti con depressione maggiore resistente al trattamento.
Sebbene presumibilmente non sia efficace come l’ECT, l’rTMS sembra essere più accettabile per molti pazienti perché meno invasivo, non richiede anestesia, comporta meno stigma e non è associato ad effetti cognitivi avversi.
Uno studio CAMH pubblicato recentemente su The Journal of Clinical Psychiatry che ha preso in esame un campione di adulti con depressione resistente e ideazione suicidaria trattati con stimolazione magnetica transcranica bilaterale, unilaterale ripetitiva (rTMS ) e placebo (Sham rTMS). Per depressione resistente al trattamento s’intende la condizione in cui le persone non manifestano un notevole miglioramento dei sintomi dopo aver provato almeno due diversi farmaci antidepressivi.
I risultati sono stati confortanti: il 40% delle persone trattate con rTMS bilaterale ha riferito di non aver più avuto pensieri suicidari a fine studio, in confronto al 27% di quelli trattati con rTMS unilaterale e il 19% di quelli trattati con placebo, con una differenza statisticamente significativa fra rTMS bilaterale e placebo.
La rTMS bilaterale è stata più efficace delle altre metodologie anche nella prevenzione di pensieri suicidari in persone che all’inizio dello studio non li presentavano.
Rispetto al substrato neuroanatomico di questo trattamento, gli studi sembrano individuare il lobo frontale come punto core del trattamento dell’ideazione suicidaria.
Studi precedenti, effettuati su persone con depressione e ideazione suicidaria, hanno dimostrato come questa regione possa essere collegata con l’impulsività e le difficoltà di regolazione delle emozioni.
È interessante notare come le diminuzioni del pensiero suicidario non fossero strettamente legate alle riduzioni della gravità dei sintomi depressivi, a conferma della trasversalità di questo tipo di pensieri in numerosi quadri clinici, come Disturbo Post-Traumatico da Stress, Disturbo Bipolare, Schizofrenia, Disturbo Borderline di Personalità ecc. Questi risultati sembrerebbero individuare l’rTMS bilaterale come un valido trattamento per ridurre rapidamente l’ideazione suicidaria in pazienti con depressione resistente, anche se sono necessari ulteriori studi che analizzino gli altri quadri clinici caratterizzati da questo tipo di pensieri.

Per approfondimenti:

Weissman CR, Blumberger DM, Brown PE, Isserles M, Rajji TK, Downar J, Mulsant  BH, Fitzgerald PB, Daskalakis ZJ. Bilateral Repetitive Transcranial Magnetic Stimulation Decreases Suicidal Ideation in Depression. J Clin Psychiatry. 2018 Apr 17;79(3). pii: 17m11692. doi: 10.4088/JCP.17m11692.

 

I miei pensieri? Non li capisco!

di Caterina Parisio

La compromissione cognitiva nei pazienti schizofrenici è divenuta uno dei domini più studiati ed è alla base di nuovi modelli di trattamento

 Difficoltà nel partecipare, apprendere, ricordare, risolvere problemi: queste gravi compromissioni, presenti nei pazienti schizofrenici, anche quando i sintomi psicotici sono sotto controllo, impediscono spesso di vivere in modo autonomo.

I deficit cognitivi diffusi, che sono stati documentati nei pazienti schizofrenici, riguardano l’attenzione, la memoria e il funzionamento esecutivo, le abilità visuo-spaziali e il linguaggio.

Già nelle prime descrizioni nosografiche della schizofrenia, i deficit cognitivi assumevano una posizione centrale, tanto da portare Kraepelin, nel 1919, a definire il disturbo Dementia precox, che letteralmente significa “declino cognitivo con esordio giovanile”. Eugen Bleuler, qualche anno più tardi, nel descrivere l’incapacità dei pazienti affetti da schizofrenia di controllare i propri pensieri, ipotizzò che il nucleo fondamentale di tale patologia potesse essere attribuito a uno scollegamento dei fili associativi che formano le relazioni tra le idee.

Nel corso degli anni, si sono succedute numerose evidenze riguardo alla presenza di compromissione nell’area cognitiva dei pazienti schizofrenici; tuttavia, per molto tempo è prevalsa la convinzione che tale dominio fosse inaccessibile dal punto di vista terapeutico.

La sottostima di queste funzioni ha contribuito, da una parte, all’inefficacia di molti interventi psicoterapeutici e riabilitativi; dall’altra, allo sviluppo di protocolli innovativi di trattamento ad hoc.

Si è poi avviato un nuovo corso, grazie alle scoperte riguardanti le indagini neuro-morfologiche e alla rinnovata metodologia del testing neuropsicologico: diversi filoni di ricerca hanno sottolineato la pervasività dei deficit cognitivi nella schizofrenia e il loro profondo impatto sull’esito del funzionamento. I deficit cognitivi e le loro conseguenze sono divenuti progressivamente sempre più importanti, tanto da polarizzare l’attenzione dei clinici e divenire un obiettivo fondamentale dei trattamenti. I sintomi produttivi, inoltre, si collegano direttamente al malfunzionamento cognitivo. L’ipotesi, secondo cui le compromissioni nei processi cognitivi di base contribuiscano sostanzialmente a un disturbo formale del pensiero, continua ad avere dei buoni fondamenti scientifici.

Inoltre, i pazienti schizofrenici presentano tra di loro innumerevoli differenze nel grado e nel tipo di compromissione cognitiva; quindi, se da una parte si ha una probante certezza che questi deficit siano presenti, dall’altra questi deficit sono differenti e specifici, sia tra i diversi pazienti che nello stesso soggetto.

Il deficit cognitivo, nella schizofrenia, è sostanzialmente di natura generalizzata, accompagnato da una compromissione in specifici domini della memoria episodica, della velocità di processamento, di fluenza verbale, di attenzione, di funzioni esecutive e memoria di lavoro.

I deficit cognitivi sembrano essere presenti prima della manifestazione conclamata della malattia. Tuttavia, in diversi studi, è stato dimostrato che tale compromissione non è sempre presente. È, quindi, difficoltoso evidenziare una specifica compromissione cognitiva nei pazienti a rischio di sviluppare la malattia, perché i domini cognitivi da esplorare sono estremamente difficili da indagare e presentano risultati talvolta contrastanti.

Per affrontare le compromissioni cognitive nei pazienti schizofrenici, gli interventi psicosociali si sono dimostrati di fondamentale importanza e, già alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, hanno iniziato ad avere una loro dignità e sistematizzazione.

La Cognitive Remediation, trattamento di tipo cognitivo-comportamentale, è rivolta a persone che presentano una compromissione cognitiva in grado di interferire con il funzionamento quotidiano, in modo da sviluppare e rafforzare le abilità cognitive che si mostrano deficitarie.

La CR mira a modificare direttamente le abilità di attenzione, memoria, velocità di processamento e di problem solving, attraverso una serie di esercizi carta matita o computerizzati; stimola le abilità che risultano deficitarie e offre sostegno al fine di ridurre i fallimenti nei diversi compiti della vita quotidiana; aumenta la soddisfazione degli individui nelle scelte, nell’apprendimento in generale, nelle attività lavorative e negli ambienti sociali.

In generale, un livello maggiore di competenza cognitiva favorisce il funzionamento degli individui, soprattutto per il mantenimento dei ruoli sociali legati alla scuola, al lavoro e alle relazioni.


Per approfondimenti:

Antonino Carcione, Giuseppe Nicolò, Michele Procacci (a cura di), Manuale di terapia cognitiva delle psicosi, 2012. Ed. Franco Angeli

La psicoterapia modifica il cervello?

di Barbara Basile

Le neuroscienze mostrano come la psicoterapia intervenga sui circuiti cerebrali sottesi a specifici disturbi psichici

Gli effetti di una psicoterapia su una persona si possono misurare in diversi modi: da una parte ci sono i classici strumenti soggettivi, come i questionari, rilevabili dal paziente e dal terapeuta; dall’altra è possibile individuare eventuali cambiamenti sul piano neurobiologico.
Sempre più ricerche, nell’ultimo ventennio, si sono concentrate sugli effetti neurobiologici delle cure psicologiche e diversi studi hanno dimostrato, abbastanza inequivocabilmente, che i cambiamenti che un individuo raggiunge sul piano emotivo, comportamentale, cognitivo e sociale, hanno delle conseguenze anche sul suo cervello.
È tautologico che i processi mentali abbiano un substrato neurobiologico e che, modificando i primi, si intervenga anche sul secondo. Leggi tutto “La psicoterapia modifica il cervello?”

Che cos’è il Default Mode Network?

di Simone Migliore

Il metodo di studio innovativo dei neuroscienziati per comprendere la complessità dei processi cognitivi

Sei seduto in poltrona, stanco dopo una lunga giornata di lavoro, vuoi riposarti, inizi a pensare a cosa cucinerai per cena, a quanto lasciato in sospeso a lavoro, alla vacanza da programmare e alla macchina da portare all’autolavaggio.

In questi pochi minuti il tuo cervello continua a lavorare, attivando dei circuiti cerebrali specifici, di default, tipici di questi momenti durante i quali non stiamo compiendo un’azione specifica o non siamo coinvolti in un compito particolare.

Tali circuiti cerebrali attivi di default sono tipici, appunto, dei momenti in cui non si è focalizzati sul mondo esterno e non si sta compiendo un’azione, ma piuttosto caratterizzano circostanze in cui si è svegli e si sta pensando a noi stessi, a eventi del passato o si sta pianificando il futuro. Leggi tutto “Che cos’è il Default Mode Network?”

"Ignorare" un’emozione: attenzione selettiva in presenza di distrattori emozionali

di Giuseppe Romano e Andrea Gragnani

La scelta degli elementi endogeni o esogeni sui quali poniamo la nostra attenzione è guidata costantemente dalla rappresentazione (set attenzionale) di ciò che è rilevante per gli scopi attivi in un determinato momento. Tuttavia, l’attenzione può essere distolta da un obiettivo in presenza di uno stimolo con caratteristiche che lo rendono saliente (si pensi, ad esempio, allo squillo improvviso del cellulare mentre stiamo guardando un film). Ciò avviene ancora più facilmente per gli stimoli che suscitano reazioni emotive, poiché tendono a catturare l’attenzione in modo rapido e quindi a ricevere un’elaborazione preferenziale in virtù della loro importanza per il benessere dell’individuo.

A livello cerebrale, queste modulazioni attenzionali sono mediate in particolare dall’amigdala, che potenzia l’elaborazione degli stimoli a contenuto emozionale fin dagli stadi percettivi. Pertanto, quando vi sono stimoli distraenti che hanno significato emozionale, mantenere l’attenzione focalizzata su un compito è particolarmente difficile e impegnativo, in quanto implica “ignorare” un segnale che per sua natura è fatto per non essere ignorato! Leggi tutto “"Ignorare" un’emozione: attenzione selettiva in presenza di distrattori emozionali”