La scelta di Alida

a cura di Giordana Ercolani

Soffrire è, senza dubbio, un’esperienza soggettiva che può essere difficile da sperimentare e ancor più da condividere. Possono emergere infatti valutazioni di auto-critica, poichè il solo fatto che si stia soffrendo può farci sentire fragili, minacciati, sbagliati e dunque più soggetti a perdite e/o giudizi negativi. Tutto questo amplifica il dolore emotivo, alimentando anche un senso di incomprensione e solitudine molto comune.

Per questa ragione vogliamo condividere la storia di Alida; affinché il coraggio di raccontarsi anche nella sofferenza psicologica possa essere dimostrazione di “normalità” e perché la condivisione dell’esperienza terapeutica di cambiamento possa aiutare chi sta soffrendo a considerare la possibilità di chiedere aiuto.

Ciao,
mi chiamo Alida e ho 28 anni; soffro di DOC dall’età di 10.

Non sapendo cosa fosse esattamente, mi sono sempre sentita una “bambina strana”, “un po’ particolare”, un po’ troppo fissata per la pulizia e con pensieri ricorrenti su contaminazione e contatti con cose/persone che avrebbero potuto in qualche modo danneggiarmi.

Resa insicura da queste paure e vergognandomene molto, facevo di tutto per camuffare, compiacere gli altri, fare ironia su di me, tutte cose che (col senno di poi) sono state nocive per la mia autostima.

Dopo il 2020, la situazione è esplosa, sfuggendo dal mio controllo. Se fino a quel momento ero riuscita ad imbrigliare il DOC nella mia quotidianità di studentessa universitaria con una buona media, figlia presente e affidabile, sorella e amica con (apparentemente) nessuna difficoltà…di lì in poi tutto cambiò.

Ero terrorizzata, impaurita dal contatto con gli altri e con gli oggetti. Ero reticente ad uscire di casa. I pensieri erano così presenti e pervasivi da distogliermi dallo studio, tanto che cominciai ad andare fuoricorso. Le compulsioni che il DOC mi suggeriva rubavano letteralmente le mie giornate e tutta la mia energia vitale.

Non avevo voglia di vedere persone né di condividere spazi e cose. Per paura disdicevo gli appuntamenti con i miei amici e colleghi all’ultimo momento e  mi fingevo molto impegnata per non doverne prendere di nuovi. Mi ero spenta, depressa, resa irriconoscibile a me stessa.

Al culmine di questa sempre più esasperata situazione, mi rendo conto che avevo urgente bisogno di chiedere aiuto così, dopo vari tentativi non andati a buon fine, intraprendo un intervento specifico per il DOC. Mi rivolgo a uno psichiatra che mi ha sapientemente affidato alle cure specialistiche di una psicologa psicoterapeuta, competente in materia e con una formazione certificata.

Il suo modo sicuro ma delicato e gentile, le ha permesso di valicare confini rigidi che a nessuno avevo mai permesso di oltrepassare e dietro i quali mi trinceravo, piena di vergogna e paura. Per la prima volta mi sono sentita ascoltata e compresa, mai derisa, fuori luogo o giudicata.

Abbiamo iniziato a ricostruire i meccanismi del mio funzionamento, sino ad arrivare alla mia vulnerabilità al disturbo. Da lì in poi rimettere insieme i pezzi è stato un passaggio naturale: più il puzzle prendeva forma, più le catene del mio DOC si spezzavano, facendomi sperimentare per la prima volta nella vita, adulta e consapevole, la libertà.

Alcuni concetti come quello di scelta, responsabilità e senso di colpa, sono stati fondamentali per sbloccarmi da quella condizione. Ogni mia difficoltà palesata, per quanto assurda mi sembrasse, è stata affrontata in terapia e resa gestibile con accettazione, impegno e tempo.

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo è un abitante invisibile della nostra mente, tuttavia questo scomodo inquilino dai toni perentori prende tanto più spazio quanto più siamo disposti a cederne! Scegliere di non mettere in atto le compulsioni, correre il rischio e tollerare l’ansia che arriva, più forte che mai, se non si mettono in atto le compulsioni riduce lo spazio occupato dal DOC.

La prima volta in cui ho scelto di “correre il rischio” è stato per partecipare ad una lezione di yoga in uno spazio aperto a piedi nudi, in un posto che non conoscevo e con persone estranee (il tutto fonte di grande ansia per me perché rappresentava diverse minacce). Accogliere tutta quella paura, disgusto e ansia mi è servito: è stata la prima volta in cui mi sono sentita libera! Avevo spezzato la catena! Ero stata libera di scegliere, di assecondare la mia volontà nel partecipare a qualcosa che desideravo e di cui il DOC, invece, voleva privarmi.

Ricordo di essere tornata a casa stanchissima quella sera, ma felice: avevo scelto di correre il rischio e con mia sorpresa ci ero riuscita! Solo una prima dimostrazione di quanto potere io avessi di seguire ciò che volevo per me, anziché subire quello che mi veniva imposto dal DOC. Da lì non ho più smesso di scegliere; ho fatto altri piccoli grandi passi, finalmente consapevole di avere forza nelle mie gambe.

Oggi la mia vita è pressoché “normale”; sto imparando che non sono responsabile di ogni cosa che, nel bene e nel male, mi accade. Sto imparando che la vita è fatta di coincidenze e di occasioni che creano momenti, belli e brutti, e vanno vissuti tutti. Non voglio privarmi di vivere per la paura di contaminarmi o compromettere in qualche modo la mia salute e integrità. Chiudermi in casa spendendo il mio tempo a proteggermi, pulendo e mettendo in atto altre compulsioni, non aveva nulla a che fare con la vita. Io posso avere delle responsabilità ma non posso controllare, prevedere o fare una stima esatta di tutto ciò che mi sta intorno; questo ora lo accetto. Più di tutto sto imparando giorno per giorno a concedermi la libertà di sbagliare perché “non ci avevo pensato”.

Se stai leggendo questo articolo e soffri di DOC, chiedi aiuto.

È un consiglio dato da chi ne soffriva in forma molto grave e oggi invece riesce a vivere.

Conosco a cosa si va incontro. Conosco quanto ti possa sembrare impossibile, quanta ansia ti assale al solo pensiero di non ascoltare quella voce ma credimi ne vale la pena. Meglio soffrire per conquistarsi la vita che vivere in una spirale di sofferenza.

Al di là della paura c’è un mondo di esperienze che puoi fare, di possibilità, di cose che puoi toccare. Scegliendo, si diventa più forti. Spero che queste parole, frutto di tanta strada, ti siano d’aiuto.

 

Foto di Nataliya Vaitkevich: https://www.pexels.com/it-it/foto/resto-cambiamento-possibilita-chance-6120219/

I Paradossi della Psicopatologia: spiegazione e soluzione del paradosso nevrotico

a cura di Vittoria Zaccari

Francesco Mancini e Amelia Gangemi, nel libro “I Paradossi della Psicopatologia”, edito recentemente da Raffaello Cortina, affrontano una delle questioni cruciali e ben note a chi è interessato alla comprensione delle sofferenze psicopatologiche: la persistenza paradossale della sofferenza nonostante il cambiamento per il paziente appaia non solo opportuno, ma anche possibile e alla sua portata. Gli autori presentano una soluzione basata sull’idea che le motivazioni orientino automaticamente i processi cognitivi per ridurre il rischio di errori cruciali, rafforzando così le rappresentazioni alla base della sofferenza e contribuendo alla sua persistenza.

Perché continuiamo a soffrire? Come può una persona mantenere una condotta dannosa per sé, nonostante abbia accesso a tutte le informazioni necessarie, disponga delle capacità cognitive adeguate e abbia scopi che suggerirebbero la necessità di un possibile e opportuno cambiamento?

Questi interrogativi, centrali nella storia della psicopatologia, richiamano il concetto di paradosso nevrotico: una condizione in cui la sofferenza psicologica persiste nonostante esistano concrete possibilità di cambiamento.

Francesco Mancini e Amelia Gangemi centrano la loro trattazione sulla spiegazione del paradosso nevrotico offrendo una prospettiva alternativa alla psicopatologia attraverso una riflessione epistemologica che passa in rassegna diverse ipotesi e prospettive teoriche alla base della sofferenza psicopatologica e si pone, attraverso un procedere critico, analitico e riflessivo di analizzare diversi approcci che tentano di spiegare la persistenza della psicopatologia, proponendo soluzioni al paradosso nevrotico al fine di comprendere la psicopatologia, o almeno una parte significativa di essa.

Gli autori hanno identificato diversi limiti e proposto alternative per comprendere perché gli esseri umani sperimentano la sofferenza e continuano a persistere in essa, indagando il motivo per cui i pazienti non cambiano verso un percorso più sano, meno doloroso e più funzionale ai propri scopi, nonostante le informazioni a loro disposizione lo consentirebbero.

Superando i concetti disposizionali e i deficit, secondo gli autori più descrittivi che esplicativi, la loro prospettiva teorica ha identificato il filo conduttore, e quindi la soluzione al paradosso nevrotico, nell’idea che i processi cognitivi siano regolati esclusivamente dalle motivazioni.

La lettura può essere ben compresa attraverso “lenti” cognitiviste ingenue che richiamano in gioco l’importanza delle motivazioni come determinanti prossimi della sofferenza nella psicopatologia superando la concettualizzazione del cognitivismo clinico tradizionale, che attribuisce a credenze disfunzionali e a processi cognitivi irrazionali il ruolo di determinanti psicologici prossimi della psicopatologia o il ricorso a concetti disposizionali o a deficit cognitivi che presentano,  secondo la prospettiva epistemologica degli autori,  numerose critiche, sostenendo dunque l’importanza delle motivazioni nella sofferenza emotiva e la loro paradossale persistenza nella psicopatologia.

Tali premesse rivelano come gli autori affrontino un problema cruciale per la comprensione e il trattamento psicoterapeutico dei disturbi mentali: la sofferenza attribuibile alle motivazioni piuttosto che a danni neurali o deficit. Questa prospettiva illumina i “paradossi” nella psicopatologia, che ha condotto gli autori ad offrire una spiegazione della persistenza paradossale di investimenti fallimentari che caratterizzano i disturbi mentali.

Secondo gli autori il paradosso nevrotico sorge dalla possibilità e dall’opportunità apparente di un cambiamento che rimane inattuato: “Errare humanum est, perseverare autem insanum”. L’aforisma per gli autori coglie l’essenza del paradosso nevrotico vale a dire la persistenza di linee di condotta – definite anche SuperInvestimenti   o “Effetto Cannocchiale” e atteggiamenti cognitivi prudenziali.

Gli autori ci tengono a sottolineare come nel dominio della psicopatologia appare congruo parlare di persistenza paradossale, operando un distinguo con i disturbi in cui il cambiamento autonomo non è nelle possibilità del paziente, come plausibilmente accade nei disturbi del neurosviluppo o nei quadri neurologici.

Il libro si dipana attraverso tre distinte parti, con il paradosso nevrotico come fulcro centrale della trattazione.

Nella prima parte introduttiva, gli autori definiscono il disturbo mentale e il ruolo della sofferenza emotiva e della compromissione della realizzazione personale. Essi enfatizzano come nella comprensione dei disturbi mentali vi sia un accordo condiviso sul concetto di rigidità come resistenza al cambiamento versus la flessibilità vista come possibilità di cambiamento e dunque salute mentale. Tuttavia, la resistenza al cambiamento e la flessibilità sono per gli autori termini descrittivi, utili solo per fini diagnostici e predittivi, ma senza nessun potere esplicativo del paradosso. Pertanto, puntano ad analizzare più approfonditamente le cause della rigidità e della resistenza al cambiamento.

Il libro si sviluppa ulteriormente in due sezioni distinte. La seconda parte, intitolata “pars destruens”, è dedicata è dedicata alla critica delle possibili soluzioni al paradosso nevrotico. Vengono esaminate criticamente alcune delle risposte più note, come il vantaggio secondario e analizzano le ipotesi esistenti e le loro limitazioni, sottolineando come molte di esse non riescano a spiegare adeguatamente la persistenza della sofferenza psicologica.

Nella terza parte, chiamata “pars construens”, gli autori espongono le loro tesi e delineano i presupposti fondamentali che sostengono il loro approccio teorico.

La tesi generale che propongono si basa su alcuni assunti generali.

In primo luogo, gli autori assumono che il piano privilegiato di spiegazione di molti disturbi sia mentale, dove sono rappresentati ed elaborati i significati personali, vale a dire le credenze e gli scopi del paziente versus altri disturbi il cui piano ottimale di spiegazione è considerato come non mentale, ma neurologico o neuropsicologico. Secondo gli autori in questi ultimi casi il paradosso è risolto poiché viene a mancare una delle sue condizioni, vale a dire il potere di cambiare la propria condizione (ad esempio come nel paziente affetto da malattia di Parkinson cambiare i propri sintomi).

Gli autori sottolineano che il piano personale sia da preferire in quei disturbi che sono caratterizzati soprattutto da emozioni qualitativamente appropriate, ma significative per intensità e durata.

In contrasto con la prospettiva processualista sostengono che i contenuti mentali sono indispensabili per comprendere la sofferenza emotiva e che i processi cognitivi sono normalmente regolati dai contenuti della mente, cioè da scopi e credenze in linea con la Motivated Cognition.

Concetto cardine del libro può essere ben compreso nella critica che gli autori pongono al “partizionismo” contestando l’idea che la mente sia composta di parti in interazione fra loro ma indipendenti, ciascuna regolata da propri specifici principi. A tal riguardo riprendono la tradizionale e scontata distinzione fra cognizione/ragione ed emozione/passione posizione ben espressa nella metafora dell’Auriga di Platone, il quale cercava di spiegare la più evidente delle irrazionalità pratiche riscontrabili nella condotta individuale: le akrasie, quei conflitti in cui, pur riconoscendo ciò che è buono, giusto e opportuno e desiderando perseguirlo, ci si dedica invece a ciò che danneggia. Gli autori suggeriscono l’opportunità di una rappresentazione della mente come un sistema strutturalmente e funzionalmente integrato. In particolare, ritengono che la tradizionale distinzione fra cognitivo ed emotivo sia da superare, suggerendo in modo forte che ogni evento emotivo sia anche cognitivo e che gli atti cognitivi non siano davvero neutri, cioè privi di connotazioni motivazionali ed emotive.

Un altro assunto, di particolare importanza per la loro tesi, è che i processi cognitivi siano orientati dalle motivazioni in modo sistematico, e non occasionale, rispettando il principio del pedmin (Primary Error Detection and Minimization). I processi cognitivi, secondo gli autori, al pari del comportamento, sono al servizio delle motivazioni che guiderebbero in modo automatico, non previsto e non intenzionale, a prevenire gli errori che in un dato momento apparirebbero più costosi. Il ricorso al pedmin inoltre, per gli autori, consentirebbe di legare le motivazioni ai processi cognitivi coinvolti nella minimizzazione di errori cruciali per l’individuo senza cadere nei paradossi della teoria standard dell’autoinganno che richiama la partizione funzionale fra coscienza secondaria e coscienza primaria o inconscio cognitivo per dar conto di come le motivazioni agiscano sui processi cognitivi e sulle credenze. Gli autori sostengono e propongono come soluzione che si arriva a credere qualcosa nonostante le informazioni disponibili e le capacità cognitive dell’individuo giustificherebbero credenze opposte illuminando come motivazioni possano influire su ciò che si accetta o si rifiuta di credere, senza cadere nell’autoinganno.

Il nocciolo della loro tesi è che gli investimenti sottesi da forti motivazioni e accompagnati da intensa emotività orientino i processi cognitivi in accordo con il principio del pedmin, vale a dire in modo da evitare di abbandonare erroneamente le credenze che sostengono l’investimento e di assumere erroneamente credenze che sostengono investimenti alternativi. Di conseguenza è più probabile che l’investimento persista, pur se fallimentare e anche se le informazioni disponibili alla persona giustificherebbero un cambiamento.

Inoltre, gli autori focalizzano tali argomentazioni sull’innesco dei processi ricorsivi che rafforzano l’investimento iniziale, facilitati dall’alta motivazione alla base dell’investimento stesso.

La loro tesi è che nei disturbi mentali, o meglio in alcuni di essi, il valore degli investimenti critici sia elevato per la tipologia degli scopi coinvolti e per alcune credenze. Gli scopi in questione, secondo gli autori, sono scopi ad alto valore in tutti perché definiscono il senso della propria identità e della propria esistenza e vengono definiti come scopi prescrittivi o normativi. Questi scopi definiscono ciò che per la persona deve accadere o non accadere, ovvero il livello di frustrazione accettabile, rafforzandone la motivazione. Dunque, gli scopi prescrittivi contribuirebbero al valore di un investimento, soprattutto perché ne definiscono i livelli di compromissione accettabili e dunque le condizioni alle quali si può ridurre o rinunciare a un investimento.

In maniera associata, gli autori sottolineano l’importanza delle valutazioni negative delle emozioni connesse con la compromissione o la minaccia di compromissione dell’investimento stesso, chiamando in gioco l’importante ruolo del problema secondario, che segnala lo stato dei propri investimenti e svolge un ruolo importante nel potenziamento degli investimenti stessi. Infatti, la motivazione al successo dell’investimento aumenta perché si aggiunge ad essa anche lo scopo di disattivare quell’emozione. Gli autori a tal riguardo parlano di “effetto cannocchiale”: maggiore è la motivazione, maggiore è l’investimento.

Infine, gli autori hanno posto attenzione anche ad alcuni fattori transdiagnostici di vulnerabilità alla psicopatologia, come il nevroticismo (inteso come iperreattività alle emozioni o disregolazione delle stesse) e la sfiducia epistemica, intesi come fattori di vulnerabilità che agevolano i disturbi mentali poiché influenzano le cause della persistenza paradossale degli investimenti fallimentari.

La tesi proposta viene ampiamente esemplificata e descritta attraverso diversi casi clinici presentati in diverse sezioni del libro. Questi esempi clinici offrono un interessante spunto di riflessione, permettendo di comprendere più a fondo il paradosso nevrotico.

Sulla scia delle riflessioni e della tesi proposta, gli autori concludono l’opera ponendo l’attenzione alle implicazioni terapeutiche.

Secondo la loro tesi proposta, uscire dai processi ricorsivi che alimentano il paradosso, presuppone la riduzione della motivazione alla base degli investimenti, dunque, l’uscita ottimale dai processi ricorsivi avverrebbe per mezzo dell’accettazione e dunque attraverso la riduzione della motivazione o della rinuncia all’investimento fallimentare. Gli autori considerano l’accettazione uno stato mentale caratterizzato dal riconoscimento che un determinato assetto della realtà, rilevante per l’individuo e di solito negativo, sia congruo con ciò che la persona assume sia giusto che accada o per lo meno non sia in contrasto con esso.

Inoltre, si soffermano sul ruolo cruciale nel trattamento della riduzione degli scopi prescrittivi che porterebbe ad una maggiore accettazione delle minacce da prevenire, dei fallimenti e delle perdite che si cerca di contenere.

Secondo gli autori, la definizione dello stato mentale di chi accetta consiste nel riconoscimento della congruenza, o almeno di una minore incongruenza, fra scopi prescrittivi e la rappresentazione della realtà, in particolare delle proprie emozioni e del rischio di fidarsi degli altri; pertanto, illustrano l’importanza di aiutare il paziente a ridurre “l’effetto cannocchiale” focalizzando la sua motivazione anche su scopi alternativi esistenzialmente importanti.  In questo modo si ridurrebbe il valore relativo dell’investimento fallimentare grazie al confronto con scopi più significativi essenziali per il suo benessere esistenziale.

“I Paradossi della Psicopatologia” è un’opera complessa e articolata che sfida le convenzioni tradizionali della psicopatologia. Rappresenta un contributo fondamentale per la comprensione della sofferenza psicologica e della sua persistenza.  Gli autori offrono una prospettiva innovativa che privilegia le motivazioni come chiave per comprendere la persistenza della sofferenza psicologica fornendo preziose suggestioni per il trattamento terapeutico. Il libro rappresenta una lettura indispensabile per chiunque sia interessato a una comprensione più profonda e integrata della psicopatologia, suggerendo nuove vie per il trattamento e la terapia.

Per approfondimenti

Mancini, F.  Gangemi, A. (2024), I paradossi della psicopatologia, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Le storie che curano

di Giuseppe Femia

Le storie che curano

Ha davvero senso raccontare storie di psicoterapia, l’esperienza del medico che cura e del paziente che viene curato?

La giornata tipo di uno psicoterapeuta si caratterizza per alti e bassi di adrenalina, curiosità, rabbia espressa, coiti riferiti, perversioni frequenti.

Passa per nevrosi di vario tipo, disturbi di ansia, stati depressivi a personalità borderline. Si muove dalla sessualità a banali problemi di cuore drammatizzati, oscilla fra psicosi straordinarie a fastidi ordinari della vita quotidiana.

E lo psicoterapeuta? Una mente che cerca di muoversi con attenzione e sensibilità fra stati emotivi, pensieri, credenze, relazioni, esperienze passate e investimenti futuri. Una mente che muove e vive altre menti, altre vite.

Certo la giornata di un dentista non deve essere più leggera e meno adrenalinica di quella di uno psicoterapeuta, fra pulpiti, cure canalari, ponti e perni, dolore e anestesie, e nemmeno sarà priva di fobie e ansie. Ma quella dello psicoterapeuta passa per la vita degli altri, intreccia storie, emozioni , ricordi, sogni, riflessioni, e cura con la parola e la relazione. Questa professione ha perciò caratteristiche intrinseche che la rendono peculiare, avvincente, complessa e affascinante.

Raccontare le storie e i casi incontrati in psicoterapia potrebbe quindi risultare interessante anche per chi non pratica questo mestiere e per chi non l’ha mai incontrata né da un lato né dall’altro della scrivania: a differenza di quello che avviene in uno studio dentistico, che potrebbe potenzialmente anche regalare spunti interessanti dai mille risvolti, le storie di psicoterapie possono riguardare davvero tutti, e offrirsi come spunto riflessivo o come osservatorio privilegiato per ogni individuo che pensa, soffre, gioisce. La narrazione infatti stimola processi di riflessione, inibisce lo stigma verso la sofferenza psicologica, avvicina, integra e scuote abbattendo resistenze e obiezioni. Inoltre, la storia di un paziente è essa stessa terapeutica, perché ricostruire la storia del proprio disagio con nuovi significati e integrarla in relazione alla propria identità, dando senso alla propria sofferenza, diventa un processo quasi di cura. E può aiutare chi la ascolta a individuare somiglianze e simboli che fanno risuonare qualcosa. Ecco dunque una storia clinica, verosimile, o per meglio dire vera, modificata negli aspetti che possano tradire la privacy: una narrazione come risultato di una reale esperienza di psicoterapia.

Cosimo: occhi azzurri e pensieri neri
(clicca qui per scaricare la storia in formato pdf)

Illustrazioni di @disegniperlasalutementale
https://www.instagram.com/disegniperlasalutementale?igsh=MTl1YXN2MmUyeHE0aQ==

Misofonia: forte avversione nei confronti della fonte da cui provengono specifici rumori

di Giuseppe Romano

La misofonia è una forma di sofferenza psicologica, riconosciuta solo in tempi molto recenti, che negli ultimi anni ha interessato anche l’ambito clinico.

Molte persone, infatti, riportano una forte avversione nei confronti di suoni quotidiani, specifici, spesso ripetuti, che frequentemente sono generati da esseri umani, ma che possono essere anche prodotti da animali o provenire dall’ambiente.

La sofferenza psicologica sperimentata non riguarda solo un’emozione. In alcuni casi, probabilmente i più frequenti, viene riportata rabbia, in altri ansia talvolta anche disgusto.

Nel mese di dicembre del 2022, sul numero 19 della rivista “Cognitivismo Clinico”, è stata pubblicata una rassegna dei principali studi sul fenomeno della misofonia.

I diversi contributi illustrano lo stato dell’arte  sul tema, dalla definizione del concetto, spesso confuso o sovrapposto ad altre forme di “insofferenza” nei confronti dei suoni o di dolore sperimentato in presenza di un suono, ai metodi e agli strumenti di assessment e di valutazione, fino agli interventi psicoterapeutici esistenti.

E’ possibile scaricare gratuitamente il numero della rivista collegandosi a questo link https://apc.it/cognitivismo-clinico/cognitivismo-clinico/ o cliccando sull’icona in basso.

 

Disgusto e moralità: una relazione complessa

di Olga Luppino

La sensibilità al disgusto è legata a particolari tipologie di esperienze precoci?

Se sei particolarmente sensibile al disgusto e magari anche piuttosto attento a rispettare norme etico-morali per non sentirti in colpa questo breve post potrebbe interessarti e offrirti qualche spunto di riflessione.

Il disgusto si presenta come una delle più complesse tra le emozioni di base. Numerosi contributi di letteratura ne hanno chiarito, negli ultimi anni, domini e funzioni, mettendo in luce attraverso evidenze comportamentali, neurofisiologiche e di neuroimaging, la stretta associazione che intercorre tra il disgusto e la moralità.

In termini evolutivi, oltre a proteggere il corpo fisico dalla contaminazione, il disgusto si sarebbe infatti sviluppato a tal punto da divenire “sentinella morale”, segnale innato a garanzia dell’integrità etico-morale dell’individuo e a salvaguardia della sua appartenenza alla comunità sociale.

Ma come si spiega il link tra disgusto e morale a livello della storia del singolo individuo? L’esposizione a specifiche esperienze gioca forse un ruolo nel determinare una maggiore o minore predisposizione a provare disgusto? E in che modo in questo processo entra in campo la moralità?

Un recente studio condotto nell’ambito dell’attività scientifica della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (APC-SPC) di Roma ha provato a dare un prima risposta a queste domande.

Gli autori, dopo aver reclutato un campione di 60 soggetti non clinici, hanno loro indotto sperimentalmente l’emozione del disgusto mediante l’immedesimazione in uno scenario audioregistrato per poi favorire la rievocazione di memorie precoci disgusto-correlate.

Interessante quanto emerso dalla disamina dei contenuti delle memorie evocate, affidata al lavoro di 10 valutatori indipendenti.

Una maggiore sensibilità all’emozione del disgusto si è mostrata positivamente correlata alla rievocazione di memorie inerenti esperienze precoci dal contenuto morale: più nel dettaglio esperienze in cui da bambini si è stati oggetto di rimprovero, criticismo, rabbia e iper-responsabilizzazione.

Tali esiti, sebbene preliminari, confermano la stretta associazione tra disgusto e moralità e aprono la strada ad ulteriori studi in questa direzione.

Per scaricare l’articolo:

Luppino, O. I., Tenore, K., Mancini, F., Mancini, A. (2023). The Role of Childhood Experiences in the development of Disgust Sensitivity: a preliminary study on early moral memories. Clinical Neuropsychiatry, 20(2), 109-121. doi.org/10.36131/cnfioritieditore20230203

 

La psicologia dei desideri formulati al contrario

di Giuseppe Femia e Isabella Federico

Quando scopi e intenzioni generano fuga, evitamento e non direzione

La nostra psicologia è governata da desideri e scopi che guidano i nostri pensieri e i nostri comportamenti.

Talvolta ci rappresentiamo i desideri in modo alterato, capita di essere molto bravi a descrivere quello che NON vogliamo piuttosto che capire quello di cui veramente abbiamo bisogno, ad esempio non ci diciamo “voglio essere una persona amata” ma “non voglio essere solo”.

Questa forma alterata del desiderio, quando diventa una modalità stabile, una sorta di abitudine cognitiva di formulare i propri bisogni o i propri scopi di vita, genera confusione e frustrazione. Metaforicamente questo clima esistenziale in cui governa “la paura di cadere e non la voglia di volare” potrebbe somigliare ad un tempo supplementare di una lunga e stancante partita durante la quale si gioca in difesa, sperando di non subire un altro goal dell’avversario, piuttosto che in attacco, con la volontà di segnare e portare a casa una vincita con energia. Una lotta contro la sconfitta e non una corsa verso la vittoria.

La psicologia dei desideri formulati al contrario diventa dunque un percorso faticoso, una salita fatta di sacrificio, inibizione, sconforto, ansia, tristezza.

Questo tipo di formulazione anziché rappresentare uno stato desiderato a cui ambire, da raggiungere con soddisfazione, reclama – nella nostra mente – un timore, o un gruppo di paure e diventa quasi uno scenario spaventevole che ci prefiguriamo come anticamera del fallimento.

Questo tipo di atteggiamento mentale, anziché motivarci in modo funzionale verso il raggiungimento dei nostri bisogni, produce una psicologia della paura, genera sofferenza e angoscia.

Spesso in psicopatologia osserviamo una specie di ancoraggio a tematiche specifiche e/o timori specifici con la paura di fallire in domini particolarmente rilevanti per l’architettura mentale, cognitivo/emotiva di ciascun disturbo.

Ad esempio, nel caso della depressione la persona riferisce di NON voler essere triste, di NON voler essere bisognosa, di NON voler essere una persona sola e poco amabile. Alla formulazione negativa sembra corrispondere il quasi contrario in termini di credenza: non voglio essere una persona sola, una persona poco amabile, o disprezzabile dagli altri, triste e isolata, o depressa (come mio padre), corrisponde una credenza in cui la persona si dice “sono una persona poco amabile” con delle regole assolutistiche che generano sofferenza, ad esempio: se mi faccio vedere triste, allora sarò una persona sola e poco amabile”.

Per continuare, ad esempio, nel caso del Disturbo Ossessivo-Compulsivo la persona NON vuole essere colpevole, NON vuole essere irresponsabile, piuttosto che desiderare di essere una persona giusta e una persona responsabile.

In qualche modo, la persona ha nella sua mente ben rappresentato lo scenario temuto, che a sua volta – in un circolo vizioso di mantenimento – aumenta la sofferenza psicologica esperita, che amplia – quasi come una lente d’ingrandimento deformante – la fonte della sofferenza stessa: lo scenario temuto, appunto, dal quale la persona cerca a tutti i costi di fuggire, ma come un’ombra quest’ultimo le rimane attaccato addosso, la insegue senza tregua, appare ingigantito nella sua mente, fino a paralizzarla nel buio della sua stessa ombra.

Similmente, nell’area dei Disturbi di Personalità, ci muoviamo in un campo intriso, da sempre, da teorie motivazionali che ruotano attorno al concetto di bisogni psicologici fondamentali, di cui Dweck (2017) ha proposto un’integrazione all’interno di una teoria unificata della personalità.  Gli scopi o gli antiscopi rivestono un ruolo centrale nella genesi, nel mantenimento e nell’aggravamento della sofferenza psicopatologica, soprattutto quando connotati da iper-investimento (Mancini e Mancini, 2021 in Perdighe e Gragnani (a cura di), 2021).

Prendiamo, ad esempio, il Disturbo Borderline di Personalità (DBP): chi soffre di tale disturbo si rappresenta uno scenario temuto di tipo abbandonico in modo totalizzante, anticipando con la mente la catastrofe paventata. NON voglio essere abbandonato/a diventa il focus centrale da cui conseguono gli sforzi incessanti per evitare l’abbandono: più che remare verso uno scenario desiderato, sono intenti a remare contro una corrente che vorticosamente li risucchia: l’abbandono viene letto come una conferma della propria indegnità, dell’essere “sbagliati”, “dei vasi rotti da lasciare nel retro bottega”. E quanto più la corrente è forte – vale a dire quanto maggiore è la valenza/l’importanza attribuita all’antiscopo del non voler essere abbandonati – tanto più si rafforzano le credenze psicopatologiche nucleari di non essere degni di amore e di vivere una vita degna di essere vissuta (macro-goal quest’ultimo da costruire nella terapia con pazienti con DBP).

Nel disturbo narcisistico di personalità, anche nelle forme più grandiose, sembrerebbe nascondersi un nucleo di inadeguatezza/vergogna e un timore di NON essere mai all’altezza, NON essere mai abbastanza speciali, NON essere mai abbastanza di valore. Per cui, in alcuni casi – specialmente nei quadri più vulnerabili (“covert”) – lo scenario temuto, da fuggire a tutti i costi, viene spesso riferito con un NON davanti: NON voglio essere inferiore rispetto agli altri, NON voglio deludere le aspettative ed essere, per questo, umiliato. Da qui le continue oscillazioni relative all’autostima e all’idea di Sè, la compromissione dei domini interpersonali – di empatia e intimità -, la competizione (sottile o manifesta) che annusano nell’aria, in un continuo confronto tanto con gli altri quanto con se stessi.

La psicologia dei desideri formulati al contrario, dunque, sembrerebbe presentare un meccanismo simile a quello delle sabbie mobili: tanto più la persona cerca di dimenarsi disperatamente per evitare di essere sommerso, tanto più vi affonda.

Forse il compito della psicoterapia è proprio quello di aiutare la persona ad “uscire dalle sabbie mobili” e di spronarla a muoversi guidata dal raggiungimento di desideri o meglio da scopi raggiungibili, perseguibili e che possano promuovere un piano di vita più ampio, appagante e maggiormente flessibile.

Riferimenti bibliografici

Capo R., Mancini F. (2008). Scopi terminali, temi di vita e psicopatologia. In Perdighe C, Mancini F. (eds) Elementi di psicoterapia cognitiva, pp.39-67. Roma, Giovanni Fioriti Editore.

Castelfranchi C., Miceli M. (2002). Architettura della mente: scopi, conoscenze e la loro dinamica. In Castelfranchi C., Mancini F., Miceli M. (eds) Fondamenti di cognitivismo clinico, pp.45-62. Torino, Bollati Boringhieri.

Dweck, C.S. (2017). “From needs to goals and representations: Foundations for a unified theory of motivation, personality, and development”. In Psychological Review, 124, pp. 689-719.

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Mancini F., Gangemi A. e Giacomantonio M. (2021). Il cognitivismo clinico e la psicopatologia. In Perdighe C. e Gragnani A. (eds) Psicoterapia Cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore.

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Mancini, F. (2016) (ed). La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo. Raffaello Cortina Editore.

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Perdighe, C. e Gragnani, A. (a cura di) (2021). Psicoterapia Cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore (ISBN 978-88-3285-322-3).

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Perdita perinatale, l’attenzione necessaria

di Laura Lippolis

L’esperienza clinica registra come la perdita di un bambino per un aborto spontaneo o per una morte neonatale sia un evento ad alto gradiente traumatico

Il lutto è una tra le più dolorose esperienze che si possano sperimentare, in quanto costringe inevitabilmente l’individuo a confrontarsi con la perdita irrimediabile di una persona con cui aveva intessuto un legame di attaccamento. Perdere un figlio, un partner, un amico, un genitore o in generale una persona cara, rappresenta un evento di vita che pone l’individuo in una condizione di intenso stress e profondo dolore emotivo. La morte, purtroppo, è una esperienza naturale che la vita stessa ci porta a conoscere. Elaborare la morte di una persona cara è la capacità di riuscire a sopra-vivere, a continuare a vivere nonostante la perdita irrimediabile, a interpretare il terribile evento come un fatto inevitabile, ineludibile, diremmo “normale”. È sicuramente normale, seppur doloroso, assistere alla morte di un genitore, di una persona avanti negli anni… Ma chiedere a un genitore di sopravvivere alla morte di un figlio e specificatamente, proprio durante una esperienza fisiologicamente preposta a dare la vita, appare come un atroce paradosso. Il desiderio di dare alla luce un figlio attraverso una esperienza di gravidanza, spesso può incappare in un vissuto di perdita sia della vita stessa di quel figlio, sia del progetto genitoriale quale investimento su quel figlio. In questo caso gli eventi morte e vita si incrociano: si perde la vita mentre si è impegnati a generare la vita e mentre si compiono atti e sviluppi (si pensi ai cambiamenti che avvengono nel corpo e nella psiche della donna) evoluzionisticamente pensati per prepararsi ad accogliere la vita. Le cause legate all’esperienze di lutto peri-natale posso essere diverse (interruzioni spontanee, volontarie, terapeutiche, morte prematura del feto, diagnosi infausta di terminalità fetale, malformazioni invalidanti, ecc.).  Per molto tempo la società ha minimizzato il dolore della perdita di una gravidanza che è una tra le più dolorose tra le esperienze di lutto. Frasi rassicuranti, ma estremamente invalidanti, del tipo “Bisogna farsene una ragione…” oppure “Avrete presto altri figli, non pensateci più…” sono i consigli che a volte vengono forniti alle coppie che hanno subìto una perdita perinatale e che possono provenire da circuiti domestici, ma anche da ambienti sanitari che risultano a volte impreparati davanti all’evento. La ricerca ha dimostrato come le donne che nella propria storia di vita hanno subìto una perdita in gravidanza soffrano di un livello di stress psicologico più alto rispetto alle donne che non hanno mai subìto una perdita perinatale, con stati mentali caratterizzati da sentimenti di colpa, senso di ingiustizia, percezione di inefficacia del proprio corpo, invidia per gli altri, perdita di speranza e di aspettative riguardo al futuro. L’esperienza clinica registra come la perdita di un bambino a causa di un aborto spontaneo o per morte neonatale sia un evento ad alto gradiente traumatico, ma nonostante questo, attualmente si osserva una marcata carenza di studi controllati randomizzati in questo campo di ricerca. Questa falla rende difficile un adeguato supporto per un tipo di dolore che non differisce da comuni esperienza di perdita e che ha gli stessi rischi di sviluppare lutti complicati, con in più la possibilità di ricadute sul rapporto con gli altri figli, le gravidanze e i figli che verranno. Infatti,  si è osservato come  il lutto da perdita perinatale possa  minare la genuinità delle prime relazioni di attaccamento tra caregivers e figlio  durante le future gravidanze (mediate dai comuni  gesti di accarezzare la pancia, parlare dolcemente al figlio in grembo, raccontargli delle storie, ecc.) in quanto i genitori possono sperimentare in maniera più intensa ansie e preoccupazioni, entrare in evitamento emotivo, mostrare distacco e freddezza verso il feto, sovrainvestendo nello scopo di non esporsi nuovamente al doloroso rischio di perdita. Si può ben intuire come, nei casi in cui ciò avvenisse, questi comportamenti di evitamento potrebbero rappresentare un importante fattore di rischio per la costruzione dei legami di attaccamento con i figli futuri. Quando invece non sono presenti figli precedenti o ci sono state in passato perdite perinatali, alcuni studi mostrano come l’esperienza abortiva sia associata ad un rischio più alto di ricadute o insorgenza di episodi depressivi. Questi accenni sopra descritti assieme a una considerabile letteratura in merito all’argomento ci interrogano, come clinici, in merito al bisogno di ricerca, prevenzione e terapia.

 

Per approfondimenti

Forrest, G. C., Standish, E., & Baum, J. D. (1982). Support after perinatal death: a study of support and counselling after perinatal bereavement. Br Med J (Clin Res Ed), 285(6353), 1475-1479.Friedman, T., & Gath, D. (1989). The psychiatric consequences of spontaneous abortion. The British Journal of Psychiatry, 155(6), 810-813.

Burden, C., Bradley, S., Storey, C., Ellis, A., Heazell, A. E., Downe, S., … & Siassakos, D. (2016).

From grief, guilt pain and stigma to hope and pride–a systematic review and meta-analysis of mixed-method research of the psychosocial impact of stillbirth. BMC pregnancy and childbirth, 16(1), 1-12.

Michon, B., Balkou, S., Hivon, R., & Cyr, C. (2003). Death of a child: parental perception of grief  intensity–end-of-life and bereavement care. Paediatrics & child health, 8(6), 363-366.Kersting, A., & Wagner, B. (2012). Complicated grief after perinatal loss. Dialogues in clinical 34 neurosciences, 14(2), 187.

 

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Verso una definizione comune di dipendenza affettiva patologica: una nuova scala di misurazione basata su un modello cognitivo

di Paola Lioce

Secondo il modello cognitivo della dipendenza affettiva patologica (DAP) sviluppato da Erica Pugliese e collaboratori, la DAP può essere considerata un fenomeno relazionale in cui almeno uno dei due membri della coppia ha un bisogno indispensabile dell’altra persona – tipicamente un partner violento o manipolatore – e protegge la relazione a tutti i costi. La rottura causa una sofferenza emotiva intollerabile, così la persona rimane intrappolata nella relazione. Dal momento che il partner del dipendente affettivo patologico causa una continua frustrazione di scopi importanti di relazione come l’autostima, l’autonomia e la sicurezza, queste persone vivono un conflitto spesso non consapevole tra il mantenimento del legame di attaccamento e lo scopo di proteggere sé stessi e l’autostima. Spesso queste persone mantengono la relazione nella speranza di un cambiamento del partner che, non solo non si verifica mai, ma che congela a lungo il rapporto con gravi conseguenze in termini di disturbi fisici e/o psicologici. In questi casi non è inedito arrivare a una degenerazione della relazione in vera e propria violenza intima da parte del partner di tipo fisico o psicologico.

Ma qual è il profilo tipico del dipendente affettivo patologico? Per quale ragione non riesce ad uscire dalla relazione pur essendo consapevole delle conseguenze negative che essa porta? Secondo il modello cognitivo della DAP spesso l’adulto con dipendenza affettiva è stato un bambino che ha subito traumi di deprivazione emotiva e abuso. Potrebbe essere nata una identificazione con il genitore che portava avanti la missione di amore e sacrificio verso il partner problematico oppure potrebbe essere stato un figlio dedito a salvare il genitore abusato e trascurato dal partner. Mantenere la relazione nonostante il disagio vissuto ha le sue origini nel desiderio spesso inconsapevole di rimediare ai traumi vissuti durante l’infanzia.
Lo scopo principale della persona dipendente affettiva non è ricevere cura dei suoi bisogni (come succede nel disturbo dipendente di personalità). Il “dipendente affettivo” considera “noiosa” la relazione con il partner amorevole, si sente oppresso dai partner premurosi e continua a scegliere partner sfuggenti o distanti. Lo scenario peggiore per il dipendente affettivo è la rottura del rapporto con il partner e di conseguenza fa di tutto per mantenere la relazione tossica ed essere amato come sogna. L’antiscopo comune a tutti i soggetti con dipendenza affettiva patologica è dunque la rottura del legame con il partner.

Negli ultimi decenni si è registrato negli studi di psicoterapia un aumento del tasso dei pazienti vittime di relazioni intime disfunzionali e violente. Nonostante i dati siano allarmanti, il concetto di dipendenza affettiva patologica non trova ancora posto nella nosologia psichiatrica.

Sulla base del modello cognitivo di DAP sopra citato è stata recentemente sviluppata una scala di misurazione della dipendenza affettiva patologica chiamata PADS (Pathological Affective Dependence Scale). La scala è stata testata su un campione clinico di 25 persone di età compresa tra 29 e 61 anni reclutate in un gruppo di auto mutuo aiuto Millemè – violenza di genere e dipendenze affettive e nel centro di psicoterapia, presso la Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma (SPC). Gli item della PADS sono articolati in quattro fattori principali, che possono descrivere il funzionamento mentale del dipendente affettivo tipico: Fattore Altruistico (quando si vuole evitare la sofferenza dell’altro ritenuto bisognoso); Fattore Deontologico (quando ci si ritiene indegni di un altro partner); Fattore Vulnerabilità (quando ci si considera vulnerabili e si mantiene la relazione per evitare di sentirsi soli e in pericolo) e Fattore Conflitto. Il conflitto può essere di tre tipi: Assente (nel momento in cui la persona non si rende conto di stare in una relazione tossica ma gli altri glielo fanno notare), Alternato (quando si alternano momenti di consapevolezza della disfunzionalità della relazione, a momenti di soddisfazione), Akrasico (quando ci si rende conto che sarebbe il caso di interrompere la relazione ma la persona non riesce a rinunciarvi).

Sembrerebbe che la dipendenza affettiva patologica sia la base cognitiva ed emotiva della violenza di genere; dunque, identificare i profili di DAP è utile per intervenire prima che la dipendenza affettiva sfoci in violenza e a lavorare anche con programmi psicoeducativi (ad esempio in contesti come scuole, università, centri antiviolenza, servizi sociali ecc.). Avere a disposizione uno strumento che possa misurare la sintomatologia che presenta la persona con dipendenza affettiva patologica potrà essere un valido aiuto in questa direzione.

Bibliografia

American Psychiatric Association (APA) (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (5th ed.). Author.

Iannucci, Perdighe, Saliani, & Pugliese, E. (2021). Karina. Il Legame Irrinunciabile: Scopi, Anti-Goal e Conflitti Tipici della Dipendenza Affettiva Patologica. Cognitivismo Clinico.

Perdighe, C., Pugliese, E., Saliani, A. M., & Mancini, F. (2022). Gaslighting: una sofisticata forma di manipolazione, difficile da riconoscere. Psicoterapeuti in-formazione.

Pugliese, E., Saliani, A. M., & Mancini, F. (2019). Un Modello Cognitivo delle Dipendenze Affettive Patologiche. Psicobiettivo, 1, 43-58.
https://doi.org/10.3280/PSOB2019-001005

Pugliese, E., Saliani, A. M., Mosca, O., Maricchiolo, F., & Mancini, F. (2023). When the War Is in Your Room: A Cognitive Model of Pathological Affective Dependence (PAD) and Intimate Partner Violence (IPV). Sustainability, 15, 1624.
https://doi.org/10.3390/su15021624

Pugliese, E., Mosca, O., Saliani, A.M., Maricchiolo, F., Vigilante, T., Bonina, F., Cellitti, E., Barbaro, G.F., Goffredo, M., Lioce, P., Orsini, E., Quintavalle, C., Rienzi, S., Vargiu, A., & Mancini, F. (2023). Pathological Affective Dependence (PAD) as an Antecedent of Intimate Partner Violence (IPV): A Pilot Study of PAD’s Cognitive Model on a Sample of IPV Victims. Psychology, 14, 305-333.
https://doi.org/10.4236/psych.2023.142018

Kane, T. A., Staiger, P. K., & Ricciardelli, L. A. (2000). Male Domestic Violence: Attitudes, Aggression, and Interpersonal Dependency. Journal of Interpersonal Violence, 15, 16-29. https://doi.org/10.1177/088626000015001002

Foto di Anete Lusina:
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Curare il disturbo ossessivo compulsivo

di Mauro Giacomantonio

La Terapia Cognitivo Comportamentale è efficace?

Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è una psicopatologia piuttosto diffusa e invalidante. Può manifestarsi in diverse forme, ad esempio con compulsioni di lavaggio o di controllo, ed esordire già in giovane età. È quindi di fondamentale importanza sviluppare e mettere alla prova protocolli di intervento sempre più incisivi e sostenibili dalle persone che soffrono di DOC.

Proprio con questo intento, Andrea Gragnani e collaboratori hanno recentemente pubblicato un articolo che esamina, attraverso uno studio condotto su pazienti che presentavano sintomi ossessivi, l’efficacia di un intervento sviluppato e perfezionato dal Prof. Francesco Mancini e il suo gruppo clinico e di ricerca negli ultimi venti anni.

Questo modello di intervento, oltre ad essere basato su una specifica concettualizzazione teorica del DOC, si pone il problema di favorire la capacità di tollerare la minaccia ossessiva e, quindi, di aderire meglio alla tecnica dell’esposizione con prevenzione della risposta (ERP). L’ ERP, infatti, è una tecnica psicoterapica molto efficace per il trattamento del DOC, che troppo frequentemente viene rifiutata o abbandonata dai pazienti perché percepita come ansiogena.

In risposta a questo problema, l’intervento esaminato nell’articolo propone una serie di tecniche cognitive che facilitano il processo di accettazione della minaccia, riducendo sia la convinzione di potere o dovere ridurre il rischio temuto, sia la tendenza a ricorrere a ragionamenti eccessivamente sbilanciati sul versante della prudenza. La capacità di accettare il rischio aiuterà poi il paziente a tollerare l’esposizione rinunciando alle condotte di protezione. Dei 40 pazienti che hanno sperimentato il protocollo proposto, una elevata percentuale (80%) ha riportato un beneficio significativo e in pochissimi hanno abbandonato il trattamento proposto.

Questi risultati confermano la necessità di articolare un trattamento complesso che favorisca prima l’accettazione “cognitiva” della minaccia e permetta poi di sperimentarla praticamente attraverso l’ERP.

Studi di efficacia come quello pubblicato da Gragnani e colleghi sono particolarmente preziosi per la pratica clinica quotidiana, perché permettono di valutare gli aspetti cruciali per la riuscita del trattamento, aprendo così la strada al suo perfezionamento.

Per approfondimenti

Gragnani, A., Zaccari, V., Femia, G., Pellegrini, V., Tenore, K., Fadda, S., Luppino, O.I., Basile, B., Cosentino, T., Perdighe, C., Romano, G., Saliani, A.M., Mancini, F. (2022). Cognitive-Behavioral Treatment of Obsessive-Compulsive Disorder: The Results of a Naturalistic Outcomes Study. Journal of Clinical Medicine, ;11(10):2762.

Articolo integrale: https://doi.org/10.3390/jcm11102762