Le “strategie” di trattamento nella Schema Therapy

di Roberta Trincas

In riferimento al post sulla Schema Therapy (ST) precedentemente pubblicato, qui di seguito verranno descritte le principali strategie di trattamento al fine di fornire una maggiore comprensione di questo approccio terapeutico. La ST prevede una fase di assessment e una fase di trattamento che comprende sia un intervento di tipo cognitivo sia strategie focalizzate sul “cambiamento emotivo”. Leggi tutto “Le “strategie” di trattamento nella Schema Therapy”

Aspetti della Psicoterapia Interpersonale della Depressione visti da una prospettiva cognitivista

di Lisa Lari

Nell’ultimo anno ho frequentato un Master di Psicoterapia Integrata ad Orientamento Interpersonale, corso che ho iniziato a ridosso del conseguimento della Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, presso la sede di Grosseto.

Con riferimento a questa esperienza, devo riconoscere che ho riscontrato alcune difficoltà nel tentativo di integrare le conoscenze precedentemente acquisite con quelle che stavo apprendendo durante il Master. Leggi tutto “Aspetti della Psicoterapia Interpersonale della Depressione visti da una prospettiva cognitivista”

L’applicazione del causal modeling al DPTS

di Walter Sapuppo

Dopo il puntuale articolo della Dott.ssa Fadda, in riferimento al “causal modeling” (Morton & Frith, 1995; Morton, 2004), vado ad illustrare – in maniera riassuntiva – l’applicazione di tale framework a un disturbo specifico: il Disturbo Post Traumatico da Stress (DPTS). Il lavoro di integrazione dei modelli è il frutto di un project di ricerca coordinato dal Dott. Leonardo Fava in collaborazione con il gruppo classe dell’attuale III anno della SPC-sede di Napoli. Per elaborare un’ipotesi causale del disturbo in oggetto è stata condotta un’analisi descrittiva di differenti ipotesi teoriche relative agli aspetti eziopatogenetici e di mantenimento del DPTS e, in particolare, sono stati valutati i contributi di maggiore rilevanza scientifica inerenti le principali dimensioni del disturbo. Dopo aver integrato i principali aspetti emersi da ciascun approccio, è stata formulata una cornice teorica (causal modeling) comprensiva dei fattori implicati. Nello specifico, tale operazione ha permesso di identificare: Leggi tutto “L’applicazione del causal modeling al DPTS”

Pubblicate le nuove linee guida per la diagnosi ed il trattamento dell’ADHD

di Carlo Buonanno

Sul numero di Ottobre di Pediatrics sono state pubblicate a cura dell’American Academy of Pediatrics le nuove linee guida per la diagnosi ed il trattamento dell’ADHD (clicca qui per scaricare l’articolo). La principale novità riguarda l’estensione dei criteri diagnostici a bambini più piccoli, con un gruppo che includerà soggetti in età compresa tra i 4 ed i 18 anni.

Oltre ai richiami alle terapie combinate (metlfenidato e terapia comportamentale), le nuove linee guida si caratterizzano per certificare la cronicità della sindrome, elemento che nel corso degli anni aveva già trovato riscontro clinico ed epidemiologico.

Tra le raccomandazioni da seguire, la valutazione di condizioni in comorbilità (DOP, DC, ansia e depressione); l’utilizzo di report e l’acquisizione di informazioni attraverso il contributo di insegnanti, genitori, clinici ed operatori della salute mentale che si occupano del bambino; il richiamo esplicito ad interventi comportamentali nei quali coinvolgere sia il bambino, sia i genitori, sia gli insegnanti.

E’ evidente che, in qualche modo, l’inclusione di bambini più piccoli avvalora la necessità di un intervento di prevenzione che miri ad interrompere precocemente la spirale descritta in letteratura che, in molti casi, conduce progressivamente allo sviluppo di DOP, DC e, in età successive, di personalità antisociale.

Per bambini in età prescolare (4-5 anni), l’intervento comportamentale da somministrare nel corso di programmi di parent training è rivolto esclusivamente ai genitori (Head Start and Children and Adults with Attention Deficit Hyperactivity Disorder CHADD www.chadd.org). Intervento che in questa fascia d’età risulta essere di prima scelta.

Il richiamo all’uso della fase di gestione delle contingenze di rinforzo si fà più esplicito in riferimento al gruppo di adolescenti (14 anni). Anche in questo caso, le procedure implicherebbero il coinvolgimento diretto dei genitori in programmi di parent training, chiamati ad intervenire per modificare le circostanze ambientali che favoriscono il mantenimento del disturbo. In particolare, si tratterà di istruire i genitori all’uso e alla manipolazioni di rinforzi (premiare le condotte adeguate, ignorare le condotte mediamente negative), con l’obiettivo di alimentare progressivamente le aspettative di successo nella realizzazione di diversi compiti.

Infine, resta da chiarire nel dettaglio la natura degli interventi comportamentali, tenendo conto come nemmeno nel caso degli adolescenti sia previsto un richiamo a procedure che favoriscano l’automonitoraggio, che alimentino la motivazione al trattamento o che considerino gli stati mentali attivi nella mente dei pazienti. Se non altro, la cronicità come esito più probabile suggerirebbe la necessità di considerare le conseguenze che sul piano relazionale l’adhd produce, conseguenze che meriterebbero di essere affrontate con programmi di social competence training che abbiano al centro la consapevolezza dei propri stati mentali. Dunque, non insegnare sic et sempliciter come ci si comporta, ma perché sarebbe utile farlo.

La dura legge del contagio

 di Viviana Balestrini

Facendo una review sulla contaminazione nel DOC, mi sono imbattuta in un esperimento non recente, ma tanto semplice, quanto interessante.

Com’è noto, il timore di contaminazione si riferisce all’intensa e persistente sensazione di essere stati inquinati, sporcati o infettati a causa del contatto, diretto o indiretto, con un oggetto, luogo o persona  percepiti come sporchi, impuri o infetti (Rachman, 2006) e ha molto a che vedere con alcuni pazienti affetti da DOC. Numerosi studi sono stati condotti sulle credenze magiche legate alle modalità di contaminazione (irrilevanza della dose, permanenza nel tempo, etc.), tra questi la sperimentazione di Tolin e colleghi (2004), che hanno voluto indagare la “legge del contagio”. Eccone una breve descrizione.

I ricercatori hanno ingaggiato un gruppo di soggetti clinici, pazienti con DOC con timore di contaminazione e pazienti con disturbo di panico, e un gruppo di soggetti non clinici di controllo. È stato chiesto ai partecipanti di identificare l’oggetto “più contaminato” del luogo dove si trovavano. Quindi lo sperimentatore ha preso una matita nuova e l’ha sfregata sull’oggetto individuato. A quel punto ha chiesto ai partecipanti se e quanto la matita fosse contaminata. Successivamente lo sperimentatore ha preso un’altra matita e l’ha sfregata con la precedente e nuovamente ha domandato ai partecipanti se attraverso il contatto avvenuto si fosse contaminata. Questa stessa procedura è stata ripetuta per 12 matite. Al termine dell’esperimento, i soggetti con disturbo di panico e del gruppo non clinico hanno riferito che c’era una riduzione della contaminazione vicina al 100%, mentre i per i pazienti con DOC, la riduzione della contaminazione si è attestata intorno al 40%.

Una riflessione clinica. Se ancora ce ne fosse bisogno, tali risultati sono suggestivi di quanto sia arduo intervenire sulla modificazione delle assunzioni del paziente rispetto alla minaccia di essere contaminati e anche di quanto ciò possa essere controproducente, perché incrementa la tendenza ad attivare ragionamenti dialogici, sia intrapersonali che interpersonali, che mantengono il disturbo. Alla luce di ciò, piuttosto che tentare di scalfire la dura legge del contagio e le altre credenze ad essa connesse, occorre inquadrarle in un’ottica funzionale, in modo da comprendere insieme al paziente quanto la sintomatologia e i particolari meccanismi e processi cognitivi soggiacenti abbiamo un senso ai fini del raggiungimento di uno scopo.

 

Riferimenti bibliografici

Rachman, S. (2006). Fear of contamination: assessment and treatment. New York: Oxford University Press Inc.
Tolin, D., Worhunsky, P., & Maltby, N. (2004). Sympathetic magic in contamination-related OCD. Journal of Behavior Therapy and Experimental Psychiatry, 193-205.

Per approfondire…

Studi e ricerche sul Disturbo Ossessivo Compulsivo

Il Causal Modeling

di Stefania Fadda

Buongiorno a tutti,
scrivo per segnalare un nuovo strumento che, grazie al lavoro del Dott. Leonardo Fava e dei suoi collaboratori, sta riscuotendo ampio consenso in Italia: il Causal Modeling.

Il Causal Modeling è stato sviluppato da Morton e Frith (1995) al fine di descrivere i disturbi dello sviluppo facendo una netta distinzione tra le componenti biologiche, cognitive e comportamentali delle teorie prese in esame. Esso costituisce la rappresentazione di una teoria causale all’interno di un framework particolare. Il Causal Modeling è stato applicato ad una ampia gamma di disturbi e grazie ad esso è possibile definire, in ogni teoria, la misura in cui fattori biologici ed ambientali interagiscono tra di loro e con i processi cognitivi nel determinismo di particolari comportamenti. Il Causal Modeling si è rivelato molto utile per comparare teorie in apparente contrasto tra loro, mostrando come alcune di esse fossero simili nella sostanza e si diversificassero solo nel “peso relativo” attribuito alle cause primarie.
Da un punto di vista strutturale, il Causal Modeling come framework consiste nella creazione di un grafico direzionato in cui gli elementi di più teorie sono collegati attraverso frecce. Così, una freccia continua ha il significato di causalità, mentre una freccia tratteggiata indica una semplice influenza. L’utilizzo di frecce bidirezionali ha il significato di causalità o influenza reciproca.
Da un punto di vista spaziale, il modello è diviso in tre componenti: biologiche, cognitive e comportamentali ed è possibile collegare tra loro sia elementi appartenenti allo stesso livello, sia a livelli differenti.
Il Causal Modeling, sebbene non costituisca di per sé uno strumento con finalità di tipo clinico, agevolando una visione globale immediata della multicausalità di un determinato disturbo, consente di desumere a quale livello e con quali meccanismi una determinata terapia possa risultare efficace. Infine, esso rappresenta un’efficace risorsa analitica multidisciplinare per l’elaborazione di teorie bio-sociali o bio-psico-sociali.
Ad oggi, sono stati elaborati il Causal Modeling del Disturbo di Panico, del Disturbo Ossessivo-Compulsivo, della Fobia Sociale e del Disturbo Post-Traumatico da Stress.

Eabct – First Meeting of the Special Interest Group On Obsessive Compulsive Disorder

di Giuseppe Romano

A maggio 2011, si è svolto ad Assisi, il primo meeting europeo dello Special Interest Group della European Association of Behavior and Cognitive Psychotherapy, dedicato al Disturbo Ossessivo Compulsivo. Alcune delle presentazioni sono state pubblicate nel numero 3/2011 del journal Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale. Altre verranno pubblicate nel prossimo numero. Per gentile concessione del direttore del journal, prof. Ezio Sanavio, e della casa editrice Erickson (www.erickson.it) è possibile scaricare gratuitamente i primi quattro articoli.

Michael Zivor, Paul Salkovskis and Victoria Oldfield
Do we need to formulate in cognitive behavioural therapy for obsessive- compulsive disorder?

Gisela Röper
A clinical developmental perspective on the understanding and treatment of obsessive-compulsive disorder

Francesco Mancini and Amelia Gangemi
Fear of deontological guilt and fear of contamination in obsessive-compulsive disorder

Davide Dèttore
Obsessive-compulsive disorder and thinking illusions

Utilità della Self-Compassion e della Compassion-Focused Therapy nella terapia Cognitivo Comportamentale

di Nicola Petrocchi

Ci accorgiamo tutti di quanto sia cresciuto, solo negli ultimi anni, l’interesse verso i benefici della mindfulness, una componente centrale della filosofia e della pratica di meditazione di origine buddista. C’è un altro costrutto essenziale di questa filosofia che sta recentemente attirando l’interesse di clinici e ricercatori e che può, a mio parere, essere uno strumento molto potente in psicoterapia: è la pratica della compassione, in particolare della compassione di sé. La compassione è “una particolare sensibilità alla sofferenza di noi stessi e degli altri, unita al vissuto del desiderio di alleviarla”; rivolgerla a noi stessi vuol dire essere consapevoli e “toccati” dalla nostra stessa sofferenza e sperimentare un desiderio di benessere nei nostri confronti. In sintesi, è la disponibilità a dare a se stessi, soprattutto in momenti di sofferenza, lo stesso tipo di attenzione, cura e gentilezza che saremmo soliti riservare alle persone amate che si trovano in una condizione simile. Nel 2003, Kristin Neff, una psicologa e ricercatrice americana dell’università del Texas, ad Austin, ha introdotto il costrutto della Self-Compassion che descrive questa attitudine come la risultante di tre abilità di base: 1) la capacità di trattarsi con gentilezza, comprensione e perdono (ad esempio con un cambiamento intenzionale del proprio self-talk) piuttosto che con severa auto-critica; 2) la capacità di vedere le proprie esperienze negative e i propri difetti come aspetti condivisi dell’esperienza umana piuttosto che come elementi “anormali”, di separazione ed isolamento dagli altri; 3) la capacità di affrontare e contenere le proprie emozioni e pensieri dolorosi con consapevolezza piuttosto che iper-coinvolgimento ed identificazione (abilità di mindfulness). La Neff ha inoltre costruito uno strumento, la Self-Compassion Scale che è attualmente utilizzato in numerose ricerche internazionali e i dati ci dicono che correla con la maggior parte delle misure di benessere psicologico ben più di quanto possa fare un costrutto apparentemente simile, ma profondamente diverso, che è l’autostima. Di quest’ultima garantirebbe i benefici senza però gli ormai noti “effetti collaterali” tra cui aumento delle tendenze narcisistiche, chiusura cognitiva, tendenza a negare o accusare gli altri per i propri fallimenti ed ad esibire quello che è stato definito il better-than-average effect: il bisogno di sentirsi migliori degli altri come unico modo per sentirsi bene con se stessi.

E’ di Gilbert, un altro noto psicoterapeuta e ricercatore sul tema della compassione, il merito di aver strutturato un intervento per rendere le abilità della compassione utilizzabili in ambito psicoterapeutico. Gilbert (2009)  ha creato uno specifico training, il Compassionate Mind Training, che insegna come incrementare la compassione di sé e ridurre la tendenza all’autocritica, soprattutto in pazienti con una spiccata disposizione all’auto-invalidazione, come la definirebbe la Linehan.

Nel gennaio 2011 ho avuto la fortuna (anche perché era in un’assolata isoletta sperduta delle Canarie!) di partecipare a un corso di una settimana con Paul Gilbert dove ho imparato ad applicare il Compassionate Mind Training in terapia: queste idee hanno cambiato il mio modo di fare terapia e penso che possano dare un grande contributo a tutti noi che siamo alle prese con i problemi secondari (dei pazienti e nostri!). La riflessione su come le pratiche della compassione possano giovare ai pazienti continua: al recente forum di Assisi, ho pensato di dare un piccolo contributo allo sviluppo della ricerca in questo campo con un poster sulla validazione italiana della Self-Compassion Scale. I risultati sono stati interessanti e spero che possano essere d’aiuto a sviluppare nuove idee..

Neff, K. D. (2003).  Development and validation of a scale to measure self-compassion. Self and Identity, 2, 223-250.
Gilbert, P. (2009). The Compassionate Mind. London: Constable-Robinson. Oaklands CA.: New Harbinger